Umanesimo teocentrico

L'Umanesimo che abbiamo definito teocentrico ruota attorno a tre concetti di base:

1) L'unità culturale dentro la fede

Negli autori che possiamo considerare, sulla scorta di recenti studi, umanisti cristiani troviamo da un lato l'istanza di apertura valorizzatrice verso il positivo presente ovunque, d'altro lato ciò è condotto all'interno di un recupero del Centro cattolico-tradizionale, e senza facili irenismi.
Apertura valorizzatrice, quindi: come quella che troviamo anzitutto nel Cusano dove parla di concordia possibile tra diverse religioni. Nel suo De pace fidei troviamo ad un tempo l'affermazione del Cristianesimo come unica vera religione, e il tentativo di un dialogo che accolga il più possibile quanto di vero e buono è contenuto in ebraismo e islam. E' vero che il filosofo di Cusa sembra talora procedere in modo razionalistico, come se bastasse ragionare correttamente, secondo una serrata logica metafisica, per giungere necessariamente a riconoscere la verità della fede cristiana: Il suo intento è del tutto ortodosso.

Ancora, un atteggiamento simile lo troviamo oggettivamente in Marsilio Ficino, che, seppur con minor nettezza di giudizio degli altri umanisti cristiani, si protende a valorizzare la storia della cultura umana, in particolare della tradizione pitagorico-platonica, per scoprirvi le tracce dell'unica Verità, dell'unico Logos che viene progressivamente rivelandosi: il Rivelato cristiano non è antitetico al cammino dello spirito umano, ma ne è il supremo compimento, per cui quella cristiana è una docta religio, perché nutrita degli apporti sapienziali antichi; e d'altro canto una filosofia per essere vera non può essere neutra, puramente razionale: deve essere una pia philosophia, ricevente la sua forma dalla fede.

Infine in Pico della Mirandola (1463/94) è rinvenibile un progetto di valorizzazione dei contributi positivi anche extracristiani, pur dentro la riconosciuta assolutezza del dato di fede. Si deve escludere che Pico mirasse ad una religiosità puramente naturale, così come non vi tendevano Cusano prima di lui, e Tommaso Moro dopo di lui: vi è una sola vera religione, e questa è quella cristiana. Non si tratta di ridurre le molte religioni storiche ad una sorta di denominatore comune puramente razionale, e puramente naturale, recidendo da ognuna tutto ciò che deborda la comprensione di una ragione misura di tutto: Pico, pur avendo avuto modo di conoscere l'avverroismo, a Padova, e pur non rigettandolo in ogni aspetto, non si riconosce affatto nella tesi della doppia verità. Applicando questa concezione si avrebbe che sotto la scorza delle differenze, basate su miti e su fantasie buoni solo per i rozzi, per il popolo, si celerebbe un nucleo esclusivamente razionale, colto dai dotti, dai filosofi. Non si tratta d'altronde nemmeno della proposta di un semplice ideale di tolleranza, che lascerebbe nella loro insuperabile diversità le diverse religioni. Proprio perché una sola è pienamente vera, equipararle tutte significherebbe far professione di scetticismo. Quella a cui Pico tende è una superiore unità di tutti i credenti in Dio, unità fondata sulla verità, cioè avente come chiave di volta Gesù Cristo, principio di discernimento e di sintesi. La valorizzazione perciò è sostenuta e permeata dalla riscoperta e dalla riaffermazione del Centro cristiano come punto di vista assoluto e totalizzante.

E' quanto vediamo in un pensatore che, per quanto fragile di temperamento, non deviò da una intelligenza di fede ortodossa, Erasmo da Rotterdam (1466[9]/1536). Come correttivo ad una impostazione teologica incline al razionalismo, e quindi ad un appannamento dell'identità cristiana, stemperata nella neutrale universalità dell'intelletto, Erasmo propone un ritorno alla Scrittura e ai Padri, in cui più vivida e inconfondibile si ritrova l'originalità del Cristianesimo. Non certo per un contatto intimistico con la Parola, di tipo protestante, come prova la polemica contro Lutero sul libero arbitrio: per il pensatore olandese la natura umana, sia pur corrotta nel suo stato storico, rimane capace di libertà e di giudizio. E più in generale Erasmo volle rimanere fedele al cattolicesimo romano, anche se non esitò a criticare la modalità allora prevalente di intenderlo, che prestava oggettivamente il fianco agli attacchi protestanti. Che il suo ideale non fosse quello di una scettica rassegnazione, indifferente alla determinatezza delle scelte positive, ciò che richiederebbe di appiattire tutto verso il basso, verso una saggezza puramente umana, paga di una razionalità di "basso profilo", lo vediamo dal suo Elogio della pazzia. Pazzo è il vero saggio, cioè non saggio della saggezza "di questo mondo": solo il cristiano è veramente saggio, lui che per il mondo è pazzo, stolto ("stoltezza per pagani").
Il che significa che la sapienza cristiana è irriducibile alla misura della semplice razionalità, è un dato assolutamente nuovo, originale, che ha una "pretesa" totalizzante. Essa quindi scardina una logica chiusa in se stessa, ed è folle per chi crede nell'autosufficienza della propria ragione. Se il giudizio di Erasmo verso l'errore luterano è meno astioso di quello dei "falchi" della Controriforma non è perché il pensatore di Rotterdam ponesse in dubbio l'Essenziale della fede, ma semmai perchè, avendo chiaro che a tale Essenziale, a tale Origine bisognasse tornare, deplorava che esso fosse velato e incrostato da sovrapposizioni parzializzanti.

Che l'apertura valorizzatrice di cui stiamo parlando non andasse disgiunta da un giudizio preciso sugli errori, e non fosse perciò da confondere con uno smidollato irenismo lo vediamo ancor meglio in Pico e in Tommaso Moro.
Pico, che pure abbiamo visto anelare all'unità più vasta possibile, compatibilmente col suo fondarsi sulla verità, non indietreggia a prendere decisa posizione contro ciò che gli appare errore. Così lo vediamo condannare senza mezzi termini quella pratica che andava prendendo sempre più piede nella società europea del suo tempo, come abbiamo sopra ricordato, cioè l'astrologia. Lo fà, correggendo il suo pensiero giovanile, ma non contraddicendosi; e lo fà con argomenti, che dimostrano la robustezza di un pensiero che crede nella verità.
Tommaso Moro (1478/1535) a sua volta, forse il massimo esponente dell'umanesimo inglese, se parla di tolleranza nella sua celebre Utopia, dunque se è aperto ad valorizzazione del positivo ovunque sia presente, ha testimoniato con il suo sangue come intendesse tale tolleranza. Non certo, cioè, come abdicazione al riconoscimento della verità assoluta, per restare fedeli alla quale vale la pena morire.
Egli stesso, in carcere per non aver approvato lo scisma anglicano da Roma, in una sua lettera riferisce di aver colto l'alternativa a cui era sottoposto. Si trattava di scegliere tra "la decapitazione" (contraddicendo il Re, Enrico VIII) "e l'inferno" (contraddicendo Dio). Uno scettico, un relativista ci pare non avrebbe dato un giudizio così lucido. E, più ancora, non lo avrebbe poi confermato col martirio, con un martirio così cristianamente sereno.

 

2) La dignità dell'uomo concreto

Un altro fattore, presente nell'umanesimo cristiano è quello di un entusiasmo per la dignità dell'uomo, in piena aderenza al messaggio evangelico. L'uomo nella sua originaria grandezza, velata e deturpata, ma non cancellata dal peccato.
Così troviamo nel De dignitate et excellentia hominis di Giannozzo Manetti ((1396/1459) un inno alla dignità dell'uomo, al suo valore, alla sua superiorità alla natura, alla sua capacità operosa. Tutto questo però non significa affatto, come qualcuno ha ritenuto, che egli parli con accenti immanentistici, concependo l'uomo come capace di inventare la propria umanità mediante il lavoro. La cordiale simpatia del Manetti per l'uomo e la sua operosità è del tutto compatibile con lo spirito cristiano, e si esprime con parole che richiamano S.Agostino (De quantitate animae, c.33).

« L'uomo è il solo essere che, fornito di sensi e capace di ragionare, sia in grado di intendere Dio, il solo che possa ammirare le opere di lui, il solo che possa riconoscerne il valore e la potenza (..) Egli solo perciò fu costituito eretto nella struttura del corpo, per sembrare di essere sollecitato alla contemplazione del proprio Genitore. Perciò egli solo ricevette il dono della parola e la lingua interprete del pensiero, perché potesse narrare la maestà del Signore. Per questo infine tutte le cose furono a lui sottomesse, perché egli stesso fosse sottomesso a Dio creatore ed artefice » (op. cit., l.III).

Vi sarà forse una ingenuità di sottolineatura, ma non una decisione preconcetta di rassegnarsi al male. La bellezza e la dignità, che Manetti ama e celebra, non sono un progetto astratto, ma qualcosa di concreto, che per essere coltivato chiede di aprirsi alla Grazia, come egli in effetti fà.
Anche in Pico della Mirandola la celebrazione della dignità umana non è svolta in prospettiva antropocentrica, ma teocentrica. Si è voluto vedere in questo filosofo un precursore di un Sartre, teorico di un'umanità che si autocrea, non vincolata da alcuna natura prefissata nè da alcuna legge oggettiva, e che si pone al posto di Dio. In realtà occorre leggere attentamente l'Oratio de hominis dignitate per rendersi conto di come simile interpretazione sia forzata e falsa. Qui il nostro procedere dovrà farsi più dettagliato, dato che si tratta di un nodo fondamentale.
E' noto che in tale celebre discorso Pico immagina che Dio si rivolga ad Adamo, avendo "esaurito" per gli altri esseri tutte le possibili forme e nature determinate ("gli archetipi"), lasciandolo libero di scegliere quale forma, quale natura darsi: "La natura degli altri viventi già definita è costretta entro leggi da noi prescritte: tu, non limitato da alcuna costrizione, potrai secondo il tuo arbitrio, al cui potere ti ho affidato, definire la tua natura". Sembrerebbe dunque che Dio abbia dato ad Adamo il potere di autoinventarsi, di autocreare la propria natura; sembrerebbe quindi che non esista un bene ( = una realizzazione di sè, della propria natura) e un male ( = un andar contro la propria umanità) oggettivi, già dati e stabiliti in modo irreformabile: è bene ciò che l'uomo stesso decide esserlo, a suo piacimento ed arbitrio, dato che è umano ciò che l'uomo decide lo sia, non essendovi una natura umana fissa, oggettiva, antecedente la libera scelta.
Ma l'equivoco si dissipa proseguendo la lettura:

«Tu potrai degenerare in forme inferiori animali (in inferiora quae sunt bruta degenerare), oppure, secondo la decisione del tuo animo, essere rigenerato verso ciò che è superiore e divino (in superiora quae sunt divina regenerari)».

Si notino due cose: anzitutto la scelta è tra realtà inferiori, bestiali e la realtà superiore, divina; ora tra i due piani esiste, come evidenzia lo stesso lessico, una ben precisa differenza di valore: la prima alternativa è positiva, tant'è che è un salire verso l'alto, un essere rigenerato, la seconda è negativa, è un cadere verso ciò che sta in basso, ed è un degenerare. In secondo luogo mentre per lo scendere verso il basso il verbo usato è attivo (degenerare), quello impiegato per l'assimilazione verso il divino è passivo (regenerari = essere rigenerato, e non come traducono molti "rigenerarti"): si introduce, insomma un'idea di intervento altrui, che non può essere che un intervento di Dio, come fattore di questa scelta, un'idea di grazia, che non è affatto esclusa da quel "secondo la decisione del tuo animo", dato che per il cattolicesimo grazia e libertà non si escludono affatto. Bisogna anche dire che il tono di ottimistico entusiasmo per la libertà, va ricondotto anzitutto all'irruenza giovanile (scrisse l'Oratio a ventitré anni), e va comunque compreso in senso non pelagiano; si riferisce infatti ad Adamo prima del peccato originale, alla natura umana cioè nel suo stato di integrità sopralapsaria.
Ma è sulla prima notazione che ci pare bene insistere: Adamo non crea dei valori, è posto davanti ad una dialettica oggettiva, e che non può eludere. Se fosse lui a creare la propria natura, qualunque scelta facesse sarebbe buona. Ma così non è, poiché, delle due alternative fondamentali tra cui è chiamato a scegliere l'una è buona (l'innalzamento al sovra-umano), l'altra (l'abbassamento all'infra-umano) è cattiva e svantaggiosa. La scelta per il degenerare è ovviamente cattiva: chi si abbassa ad inferiora è meno che uomo; se si sceglie male si degenera, cioè si dissipa la propria umanità.
Non ci può essere equiparazione insomma tra le diverse possibilità, né beffarda indifferenza: Pico è molto serio, pur nella giovanile baldanza. E non solo invita a non fermarsi al livello materiale, come in fondo faceva anche un pagano come Platone, ma va dritto alla perfezione cristiana, sprona a non fermarsi che in Dio infinito stesso: "Teniamo in disdegno le cose terrestri, disprezziamo le celesti (quelle attingibili anche da un filosofo, cioè, osserviamo noi), e mettendo finalmente in non cale tutto ciò che è di questo mondo, voliamo verso la corte ultramondana presso l'altissima Divinità".
Che cosa significa allora il discorso di Pico sulla dignità umana, incentrata sulla libertà? E che cosa pensare della metamorfosi che l'uomo, "questo camaleonte", può subire? Non si tratta di novità assolute: era tipico della tradizione agostiniana, a cui in qualche modo Pico attinge, evidenziare la funzione della sfera affettivo-volizionale, rispetto a quella conoscitivo-razionale: non basta conoscere e ragionare, la vita è determinata soprattutto da ciò che uno ama e vuole, e tanto meglio anzi si conoscerà l'essenziale della vita, quanto più la sua volontà sarà ben orientata. La novità di Pico consiste nell'accento particolarmente positivo con cui considera la libertà: non col rammarico di chi tema di usarla male, ma nemmeno con la leggerezza di chi si mette al posto di Dio, bensì con la gratitudine di chi si sente investito di una enorme fiducia. Si potrà osservare quanto si vuole che non manca una certa ingenuità nei toni usati dal giovane filosofo, che in effetti in opere successive pondererà maggiormente le sue parole, ma non si potrà negare che l'alternativa tra imbestialimento e divinizzazione sia esistenzialmente drammatica, sulla scia della tradizione agostiniana: non esiste la possibilità di rannicchiarsi in una medietà/mediocrità in cui tutto si ripete meccanicamente, automaticamente, bisogna scegliere. E la posta in gioco è altissima: diventare come Dio, o diventare come le bestie. Questo ci pare il senso più vero del messaggio dell'Oratio.
Che l'uomo poi si trasformi non significa affermare che egli non abbia nessuna natura (in questo Pico sarà esplicito nell'Heptaplus): la natura dell'uomo esiste, solo che è dinamica, aperta, può dilatarsi, o meglio lasciarsi dilatare fino all'Infinito, ovvero accartocciarsi nella decadenza dell'animalità. Anche questa è una tesi già abbondantemente svolta dal pensiero medioevale, per il quale il vizio trasforma l'uomo in bestia, diversa a seconda del tipo di vizio predominante (cane, o serpe, o porco, o pipistrello, o verme); così come, per converso chi segue il bene, cioè il Bene, viene assimilato soprannaturalmente all'Infinito, e in qualche modo divinizzato.
In sostanza il male è, agostinianamente, una diminuzione dell'essere, e quindi uno scadere verso il basso, verso i gradi inferiori del reale, infraumani: che cosa certi storici della filosofia ci trovino di così prometeico in questo non è facile capirlo. E il fatto di salire verso il divino, la metamorfosi positiva, sarebbe prometeica solo se dipendesse da un esclusivo sforzo umano, se fosse un carpire violentemente il segreto e la potenza di Dio, come invece per Pico non è.

 

3) Cosmo e microcosmo

Da ultimo possiamo accennare alla percezione della natura nell'umanesimo cristiano. Di cenno necessariamente si tratta, dato che l'indirizzo filosofico prevalente in questo tipo di umanesimo è di matrice platonica, poco interessato perciò al versante oggettivo-mondano del reale, e più concentrato su quello soggettivo-spirituale.

Sarebbe certo interessante dire qualcosa a questo riguardo sul Campanella (1568/1639), che però già deborda dai limiti della cultura umanistico-rinascimentale. Accenniamo però almeno al dato positivo di una considerazione non oggettivistica del mondo naturale: permeato e plasmato da una forma strutturante affine all'anima umana, l'anima del mondo, tutto il creato è dotato di capacità sensoria. Al di là della apparente bizzarria del significato più epidermico di questa tesi, il suo senso profondo è affermare la non riducibilità del cosmo a materia bruta, a pura oggettività indefinitamente manipolabile dal progetto umano: il reale, anche infraumano, è permeato di vita, di anima, e quindi di senso, di bellezza, di "forma" nella valenza più pregnante. Di fronte ad esso quindi l'uomo non può avere anzitutto un atteggiamento unilateralmente dominatore, manipolatore, e meno ancora di sfruttamento, dato che egli è originariamente immerso nella sua avvolgente comunione.
Ciò che Campanella svilupperà è comunque già presente implicitamente in Pico, col suo tema del microcosmo. L'uomo, avendo una natura "dinamica" e in qualche modo indefinita può divenire le diverse bestie; ma egli lo può perché già in qualche modo le contiene in sè: è questo il tema dell'uomo come microcosmo, come piccola sintesi del reale, come concentrato del grande mondo, lui che racchiude in sè, in modo certo "abbreviato" e implicito tutte le essenze naturali del cosmo.
Ecco allora che tra uomo e cosmo non vi è un rapporto di abissale alterità, come sarà nella modernità laicistica; questo, concepirà il primato del progetto attivistico, progetto portato avanti da una soggettività distaccatamente dominatrice nei confronti di un mondo ridotto a una pura res extensa (terminologia di Descartes)
. Intendiamo dire che è tipico di un atteggiamento antropocentrico guardare alla natura esclusivamente in termini di progetto e di manipolazione, non vedendola anzitutto come segno dell'Altro. Questo concetto fà da correlativo all'autocoscienza del tipo umano antropocentrico come soggettività svincolata, assoluta, padrona di sè e di tutto, tendenzialmente non responsabile davanti ad alcuno, non dipendente, ma dominante. Notiamo tra l'altro che il passo dal dominio sulla natura infraumana al dominio su altri esseri umani è breve: questo atteggiamento infatti sfocierà, in età contemporanea, nei grandi progetti politici totalitari, in cui le stesse umanità degli altri saranno trattate come malleabile plastilina, priva di forma strutturante, e perciò di dignità intrinseca. Vi è invece parentela e affinità, vorremmo dire comunione. Non nel senso che l'uomo sia sullo stesso piano di valore della natura, ché anzi l'umanesimo tiene proprio a sottolineare l'irriducibilità e la superiorità dell'uomo rispetto alla natura: ma superiorità non è altezzoso dispotismo, cieco sfruttamento, totale separazione e incomunicabilità.


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