Le unità aristoteliche di tempo, luogo e azione

 

Se il corpo estetico imita la natura, assumendone in primo luogo la legge dell'unità e della misura, dell'ordine e della proporzione, non può non essere prodotto che in modo coerente con questa legge generale: anche nei suoi dettagli più minuti.

 

La letteratura (e l‘arte) del Rinascimento funziona così: almeno a partire dal momento della sua fondazione come sistema integrato, di lingua e di modelli, di generi e di funzioni. La nascita della nuova letteratura volgare, sotto il segno di un compiuto e consapevole Classicismo (una ri-nascita, pertanto: imitando gli Antichi, i loro generi e la loro poetica), può essere datata con sicurezza agli anni trenta del Cinquecento: tra la prima edizione delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (1525) e la traduzione in italiano della Poetica di Aristotele (1538), passando per la prima edizione del Libro del Cortegiano di Baldassar Castiglione (1528).

 

Questa nuova letteratura non è fatta solo di teoria e di regole: è soprattutto ricca di opere, che si uniformano, però, al paradigma normativo da tutti accettato (pur con differenti opzioni e sfumature). A metà Cinquecento, per esempio, tutte le opere che praticano i generi della poesia fondati sulla favola (il poema, la tragedia e la commedia) mettono in atto l'esecuzione, più o meno rigorosa, di alcuni dispositivi che conseguono direttamente dalla legge generale dell’arte mimetica della natura: in primo luogo adottano la norma che prescrive che la storia proposta dalla loro favola sia verisimile e unitaria, nelle vicende, nei protagonisti, nei luoghi e nei tempi. E precisamente, che tratti di argomenti storici (o storicamente verisimili) e non fantasiosi e arbitrari, che i protagonisti siano storici (o storicamente verisimili) e appropriati, eccetera.

 

Così fan tutti gli scrittori. Tanto per restare al poema eroico, tutto si sperimenta, verso e materia: Giovan Giorgio Trissino nell'Italia liberata dai Goti (edita nel 1547), Giambattista Giraldi Cinzio nell'Ercole (edito nel 1557), Bernardo Tasso nell'Amadigi (in prima edizione nel 1560), Luigi Alamanni nell’Avarchide (edito postumo nel 1570), e soprattutto Torquato Tasso, nel travagliato percorso, tutto interno agli statuti del Classicismo, che lo porta dalla Gerusalemme liberata (edita più volte, ma sempre senza l'autorizzazione dell'autore, a partire dal 1580) alla Gerusalemme conquistata (pubblicata dall'autore nel 1593).

 

Proprio perché l'arte (la poesia) funziona (e comunica) come se fosse natura, la creazione (inventio) di un poema, di una tragedia, di una commedia, ha bisogno di leggi: per convenzione, e per convinzione, tutte naturali e tra loro solidalmente coerenti. A cominciare dalla più nota (e famigerata), quella che prescrive l'unità d'azione alla favola: per secoli parametro obbligato di riferimento per tutti gli scrittori di opere narrative o teatrali.

 

Così la descrive Aristotele nella Poetica (precisamente nella quinta particella della terza parte principale, sempre per utilizzare le suddivisioni di Castelvetro: corrisponde alla parte finale del capitolo settimo nelle edizioni moderne):

 

"Ora la favola è una non come alcuni estimano se si rigira intorno ad una persona, percioché molte e infinite cose alla maniera avengono, d'alcune delle quali non può essere punto una cosa, e così ancora sono molte azzioni d'una persona, delle quali punto non si fa una azzione. Per che tutti que' poeti paiono prendere errore li quali hanno composte Ercoleida e Teseida e così fatti poemi, percioché si danno ad intendere, poiché Ercole è una persona, dovere ancora la favola essere una. Ma Omero, sì come nell'altre cose avanza gli altri, così pare che vedesse, o per arte o per natura, quello che in ciò stava bene. Percioché compilando l'Odissea, non poetò di tutte le cose che a lui avennero, come dell'essere fedito [rivolto] nel Parnasso e dello 'nfingere d'essere pazzo nella ragunanza dell'oste, delle quali cose non era punto di necessità o verisimile che, fatta l'una, fosse fatta l'altra; ma di quelle cose che si rigirano intorno ad una azzione, quale diciamo essere l'Odissea, dispose e similmente ancora l'Iliada. Bisogna dunque che così come nell'altre parti rappresentative una è la rassomiglianza d'azzione, sia d'una, e di questa tutta, e che le parti delle cose sieno disposte così che, trasportata una parte o levata via, si trasformi e si muti il tutto. Percioché quella particella che, essendo o non essendo presente, non opera cosa notabile, non è particella del tutto".

 

Il notevole impegno dispiegato da Castelvetro nel commento a questa parte strategicamente decisiva della Poetica di Aristotele (che propone la più 'famigerata' di tutte le sue regole) insiste sulla necessità di intenderla correttamente: Castelvetro riconosce che il problema resta aperto, e che le indicazioni aristoteliche non profilano soluzioni universalmente applicabili nei diversi generi della comunicazione letteraria, nelle loro stesse mutazioni storiche e culturali. Il che vuol dire che nell’esperienza culturale e letteraria del Classicismo il rapporto con i presupposti teorici e normativi (le regole, appunto) si compie in termini precisamente sperimentali, senza particolari forme di passiva sudditanza, che non siano quelle proprie del paradigma culturale.

 

Sul punto dell’unità della favola Castelvetro ha ben presente, infatti, l'intensità del confronto critico e teorico del secondo Cinquecento, il suo tormentato interrogarsi sugli statuti, soprattutto, del poema epico e della forma conveniente e propria della sua favola necessariamente nuova (perché antica), rispetto alla gloriosa tradizione del romanzo di cavalleria (quello di Boiardo e di Ariosto). Una tradizione impresentabile, ormai, alla luce almeno dell'Aristotele redivivo, ma di difficilissima reinvenzione secondo il nuovo codice classicistico: come emblematicamente testimonia - in termini anche drammatici - l'esperienza di Torquato Tasso).

 

Di notevole rilievo sono alcune considerazioni di Castelvetro sul testo aristotelico:

Attenzione, non si tratta di noiose quanto inutili distinzioni di un pedante: qui è in gioco la forma stessa della poesia narrativa e di quella rappresentativa nell’esperienza del Classicismo a partire dalla metà del Cinquecento. Con le sue risolute obiezioni alla ristrettezza dei precetti di Aristotele, Castelvetro dà voce teorica, autorevole, alle nuove vie della ricerca letteraria per risolvere, a esempio, il problema più acuto: quello della forma del nuovo poema. Il problema, cioè, che impegnerà la poesia di Torquato Tasso, per tutta la sua vita: quale storia racconta la sua Gerusalemme, prima "liberata" e poi "conquistata", e come la racconta, e con quali personaggi, e con quali episodi? Più azioni d'una sola persona, azione di un soggetto collettivo, più azioni di più persone?

 

Le indicazioni di Castelvetro per la soluzione di questi problemi sono davvero rilevanti: proprio perché è "rassomiglianza dell'istoria", la favola della poesia non sarà obbligata a seguire tassativamente le indicazioni particolari di Aristotele sulla favola, dal momento che "ostinatamente comanda che l'azzione riempiente la favola sia una e d'una persona sola, e se pure sono più azzioni, che l'una dipenda dall'altra". Si potranno invece sperimentare le forme e i modi di una favola che racconti una storia (ma integrata) di molti protagonisti, o più azioni d'una sola persona, o una azione di un soggetto collettivo, o più azioni di più persone: esattamente il quadro, mobilissimo, del poema eroico nella ricerca letteraria di secondo Cinquecento, dall'Italia liberata dai Goti di Trissino, all'Ercole di Giraldi Cinzio, dall'Amadigi di Bernardo Tasso all'Avarchide di Luigi Alamanni; un percorso si sperimentazione e ricerca tutto rappresentato da Torquato Tasso, dalla Gerusalemme liberata alla Gerusalemme conquistata. E che poi celebrerà nell'Adone (in prima edizione nel 1623) di Giambattista Marino il trionfo dei Moderni sulla tradizione più conservativa del Classicismo: le favole antiche non sono forse lo straordinario racconto di tante storie?

 

L’unità di azione della favola rappresentativa (quella dei generi teatrali) richiede altri criteri di esecuzione, pur sempre imitativi dell’ordine della natura e della verisimiglianza. Esiste un vincolo, nel patto comunicativo che lega lo spettatore alla scena rappresentata: la "strettezza di tempo e di luogo" nei quali si compie lo spettacolo. Osserva Castelvetro: "lo spazio del tempo, al più di dodici ore, nel quale si rappresenta l'azzione, e la strettezza del luogo nel quale si rappresenta l'azzione, non permettono moltitudine d'azzioni, o pure azzione d'una gente, anzi bene spesso non permettono tutta una azzione intera, se l'azzione è alquanto lunga".

 

Andare oltre questi vincoli, comporta la rottura del patto comunicativo e lo spiazzamento dello spettatore, che a teatro vuole assistere a una storia che rispetti le coordinate spazio-temporali che fondano la credibilità stessa dell’evento spettacolare. E nella tradizione classica e classicistica queste coordinate di tempo e di spazio sono tre: il tempo e il luogo proprio della scena e della storia che si rappresenta (i cronotopi costitutivi della favola); il tempo e il luogo dello spettatore (i cronotopi dello spazio teatrale); il tempo e il luogo esterni allo spettacolo, cioè naturali. Tra tutte queste coordinate non può che esserci sincronizzazione e coerenza: ancora una volta per ragione imitativa (la scena dell'arte come se fosse la realtà della natura).

La regola dell'unità di tempo e di luogo per la favola teatrale (la stessa che solleciterà Manzoni a una feroce requisitoria) è tutta in questa ragione pratica.

 

Le famigerate regole di unità di tempo/luogo/azione conseguono tutte, dunque, dalla primaria istanza del verisimile (la favola, dice Aristotele, "è rassomiglianza d'azzione"), diversamente operativa, però, nei generi della comunicazione letteraria (rappresentativi o narrativi): quello che conta, in ogni caso, è che la favola eviti ogni rischio di possibile contraddizione (anche parziale) del patto che regola e scandisce il rapporto tra scrittore e lettore (o spettatore), cioè, ancora una volta, l'assoluto rispetto della necessaria corrispondenza tra arte e natura. La forma della favola, la sua unità nell'intreccio e nei cronotopi, è strettamente funzionale a garantire che questa convenzione continui a essere la pietra angolare di tutto il Classicismo (della sua estetica e della sua etica: del bello e del buono, insomma), perché in ogni prodotto, cioè in ogni evento comunicativo formalizzato in testo o rappresentazione, l'arte possa funzionare come se fosse natura.

 

Queste regole sono il presidio dell'esecuzione artistica classicistica fondata sulla convenzione primaria del verisimile e dell'imitazione: perché garantiscono all'autore la comunicazione nel tempo e nello spazio della sua opera (fintanto che queste regole durino), perché assicurano al lettore (o spettatore) una parte attiva nel circuito comunicativo, in termini di piacere e utile, e di impiego della propria competenza culturale. Regole tanto più forti ed efficaci quanto più diffuso è il loro uso: perché sono il rassicurante contrassegno della continua validità del patto estetico che le ha plasmate e le convalida di opera in opera.

 

Per quanto risulti ancora difficilmente accettabile da parte della nostra cultura, questi dispositivi normativi sono, per secoli e in tutta Europa, l'affidabile intelaiatura che rende possibile l'esecuzione di ogni progetto comunicativo: lo scheletro che struttura e articola i diversi corpi testuali, le fondamenta e i muri maestri di ogni edificio.

 

A ciascun autore la responsabilità di impiegare - in modo conveniente e appropriato, con ordine e misura - l'intelaiatura, lo scheletro, le fondamenta, i muri maestri: a ciascun autore, insomma, l’esercizio responsabile e autonomo della inventio e della dispositio, e quindi della elocutio, la ricerca, cioè, della forma individuale e originale per l'opera che vuole produrre, perché la propria identità e la propria originalità possono, e debbono, essere conquistate sul campo: nell'esercizio pieno di quell'economia dell'imitazione e dell'emulazione garantito soltanto dall'esistenza di regole certe e stabili, universalmente condivise.


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