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La retorica è rivolta essenzialmente alla formazione dell'uomo politico, perché deve essere in grado di persuadere ad un fine in assemblea.
A) Il De oratore (56-55 a. C.)
i tratta di un dialogo ambientato nel 91 a. C. nella villa di Licinio Crasso;
si scontrano i due protagonisti: Antonio, portatore di una concezione cinica, pensa che l'abilità oratoria sia frutto dell'ars e della pratica sul campo, e Crasso, alter ego di Cicerone, che sposa una concezione umanistica e che, quindi, pensa che l'abilità oratoria sia frutto di studi vasti e grandi esperienze umane e civili;
non si può scindere il dicere dal sapere, cioè il discorso dal pensiero, quindi lo studio della parola non va separato dalla ricerca della verità: l'oratore deve anche essere filosofo.
B) Il Brutus (47-46 a. C.)
è un dialogo breve (avente per protagonisti l’autore stesso, l’amico Attico e Bruto, cui è dedicato) ambientato in epoca contemporanea a quella della composizione;
è un profilo insieme storico e critico della figura dell'oratore romano, dalle origini fino allo stesso Cicerone. Vi si combattono gli "atticisti" (un gruppo di giovani oratori, fautori di uno stile piano, conciso, incisivo, come quello del loro modello, il greco Lisia); ma forse - più correttamente - si prende una posizione intermedia tra quelli e gli "asiani" (più attenti, invece, agli effetti plateali del discorso, e dunque al suo ritmo, alla sua sonorità e alla sua ampollosità), teorizzando, per così dire, una sorta di duttilità situazionale, cioè legata alla specifica situazione processuale o assembleare, dell’oratore stesso, che privilegiasse comunque uno stile dagli effetti potenti e grandiosi, tali da scuotere davvero in profondità le coscienze.
Cicerone non si dichiara né asiano, né atticista, ma rodiese. Con stile rodiese o rodio si intende una prosa più temperata rispetto all'Asianesimo, ma priva dell'asciuttezza dell'Atticismo. Cicerone chiama così lo stile della scuola di retorica di Apollonio Molone da lui stesso frequentata nell'isola di Rodi, durante il suo soggiorno in Grecia e Asia Minore fra il 79 e il 77 a.C. In seguito a tale insegnamento, si sarebbe spogliato della sua "frondosità giovanile" (iuvenilis redundantia) - che lo portava ad un'oratoria imparentabile con quella degli asiani - per volgersi alla vera oratoria della "scuola rodiese".
Il vero oratore, infatti, non è l'atticista che punta ad uno stile scarno e privo di forza, né l'asiano che esagera nel patetismo e nell'ampollosità. È invece colui che sa usare bene tutti e tre i diversi livelli stilistici, mescolandoli nella loro varietà anche all'interno di una stessa orazione, a seconda che occorra spiegare, dilettare o commuovere il pubblico con forti emozioni. Questa triplice varietà è stata quella che ha saputo usare il più perfetto degli oratori attici, che però gli atticisti tendono a mettere in disparte: Demostene. Ne consegue che la vera oratoria è quella che guarda a Demostene e alla sua compiuta padronanza di registri, cioè quella della "scuola rodiese", cioè quella di Cicerone stesso.
Quintiliano definirà questo stile una via di mezzo fra asianesimo ed atticismo, non sovrabbondante come il primo, né troppo stringato come il secondo (Institutio oratoria, XII, 10, 18).
Il Brutus è tuttavia percorso da una fortissima vena di pessimismo sulle sorti future dell’eloquenza romana, dal momento che la dittatura di Cesare, secondo C., ormai inibiva la libera espressione politica e precludeva ogni spazio ai nuovi talenti.
C) L'Orator (46 a. C.)
è una lettera a Bruto in forma di trattato. Parla della dottrina degli stili, che sono tre correlati ad efficacia.
secondo Cicerone bisogna dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così l'oratore potrà svolgere i tre compiti suoi propri: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire, convincere), i quali vengono ben ordinati e descritti (76-99). Cicerone parla anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della dispositio (50) ma tratta soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e sulla costruzione ritmica del periodo.