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di Martino Menghi e Massimo Gori
Lo storico Sallustio e l’oratore Cicerone producono due reazioni in apparenza diverse, ma in realtà più vicine di quanto non faccia pensare la loro militanza nei due campi avversi dei populares e degli optimates. Entrambi estranei per provenienza familiare ai centri del potere aristocratico, l’uno, Sallustio, si rifugia nella torre d’avorio della ricerca storica, del moralismo e della moderazione politica del benpensante; l’altro, Cicerone, propone un impegno diretto e generoso dei boni cives per giungere a quell’allargamento di fatto della base del potere che per paradosso si verificherà sotto il regime monarchico di Augusto.
1.IL MORALISMO DI SALLUSTIO
1a. La retrospettiva storica di Sallustio
Tucidide, il grande storico ateniese del V secolo a.C., collocò in apertura della Guerra del Peloponneso una digressione sulla storia greca arcaica, nella quale, in assenza di documenti scritti, dispiega tutto il proprio acume critico e il proprio razionalismo per smontare dalle fondamenta l’impalcatura grandiosa delle costruzioni mitiche. Lo scopo dell'"archeologia" dello storico greco è quello di dimostrare, a scapito delle vicende del passato, l’importanza eccezionale del conflitto in atto tra Sparta e Atene. Anche Sallustio, dopo il proemio del De Catilinae coniuratione e il celebre ritratto del protagonista, apre una retrospettiva sulla storia di Roma: è stato osservato che il fine dello storico romano è del tutto opposto a quello del suo modello greco, in quanto l’esigenza della critica del passato cede nettamente il passo al bisogno di una sua idealizzazione. Entrambi i testi dunque offrono in apertura di libro la chiave di interpretazione dell’opera stessa e sono indice di due tendenze per un certo aspetto divergenti, il pragmatismo razionalista dello storico greco e il moralismo del romano come condizione alla critica etico-politica del presente.
Si può leggere il seguente passo di Tucidide e alcuni capitoli dell’excursus sallustiano sulla storia di Roma dalle origini a Silla.
TUCIDIDE
Anche secondo i poemi di Omero, se pur si deve anche qui prestar fede, dato che essendo poeta è naturale che abbia abbellita e ingrandita l’impresa, pur tuttavia anche così, appare di proporzioni piuttosto limitate [...]. Facendo dunque una media tra le navi più grandi e quelle più piccole, si conclude che non erano molti quelli che andarono a Troia, se si pensa che furono mandati in comune da tutta la Grecia. E questo non già perché mancassero gli uomini, ma perché erano scarsi di mezzi. Per difficoltà di vettovagliamento i capitani condussero un contingente inferiore alle loro possibilità: soltanto quel numero che, speravano, avrebbe trovato di che vivere là sul luogo stesso nel quale guerreggiavano.
(La guerra del Peloponneso I, 10-11; trad. L. Annibaletto)
SALLUSTIO
Si raccolsero entro le stesse mura [...]; così in poco tempo, una moltitudine eterogenea ed errante con la concordia si era fatta città [...]. Ma i romani, sempre vigili in pace e in guerra, non esitavano, si organizzavano, si esortavano l’un l’altro, muovevano contro i nemici, difendevano con le armi la libertà, la patria, la famiglia. Poi, quando avevano col loro valore respinto i pericoli, recavano aiuto ad alleati e ad amici, e si procuravano amicizie più col recar benefici che col riceverne.
(De Catilinae coniuratione VI, 2; 4;
trad. P. Frassinetti)
Quindi in pace e in guerra coltivavano i buoni costumi; massima era la concordia, minima l’avidità. Presso di loro la giustizia e la morale prosperavano più per naturale inclinazione che per forza di leggi. Alterchi, discordie, rivalità, li esercitavano contro i nemici; i cittadini gareggiavano tra loro in virtù. Splendidi nel culto degli dei, erano parsimoniosi nella vita privata, leali verso gli amici.
(De Catilinae coniuratione IX, 1-2; trad. P. Frassinetti)
Pertanto [dopo la distruzione di Cartagine] P crebbe dapprima la bramosia di denaro, poi l’ambizione di potere; e queste due passioni furono l’origine di tutti i mali. Infatti la cupidigia sovvertì la lealtà, la probità e ogni altra virtù, e in loro vece insegnò la tracotanza, la crudeltà, la trascuratezza verso gli dei, l’opinione di una venalità universale. L’ambizione indusse molti uomini a divenire ingannatori, a celare nell'intimo una cosa e l’altra ad esprimere con le labbra, a considerare le amicizie e le inimicizie non secondo giustizia ma in base al proprio interesse, ad aver buono più l’aspetto che l’animo. Mali che dapprima si svilupparono lentamente, e talvolta vennero anche puniti: ma in seguito, quando il contagio dilagò come una pestilenza, la città ne fu trasformata e il governo, da giustissimo e virtuosissimo, divenne crudele e intollerabile.
(De Catilinae coniuratione X, 3-6;
trad. P Frassinetti)
1b. Il legame tra politica estera e politica interna visto in chiave moralistica
Il moralismo dei maggiori storici latini, Sallustio, Livio e Tacito, non è certo un elemento connaturato con il presunto "spirito pratico" del "genio latino", contrapposto al rigore e alla scientificità della storiografia greca: esso è in realtà il portato di una ben precisa ideologia di matrice aristocratica che vede nel mos maiorum il collante dell’intero edificio della società romana, la causa dei suoi successi politici e militari, il fondamento di ogni consenso alla linea politica decisa dai vertici: come si è sottolineato nel punto precedente anche uno storico di parte popolare come Sallustio è fatalmente indotto a vedere nella crisi del mos maiorum l’inizio del declino della società romana. Ma perché questi valori morali fatalmente sfociano nei vizi loro contrari? Proprio per i suoi limiti di impostazione lo storico non va oltre una risposta assai superficiale e deludente: la fortuna con la sua crudeltà «prese a infuriare e a sconvolgere ogni cosa» dopo che dal mondo allora conosciuto venne spazzata via l’unica potenza rivale di Roma, Cartagine. La cessazione del metus hostilis, o metus Punicus, come banco di prova della virtù dell’uomo ha ingenerato la crisi. In questo giudizio lo storico mostra i limiti dovuti al suo moralismo e anche una contraddizione: la virtù degli antichi ha portato all’impero, ma è lo stesso impero, la sua sicurezza, l’eliminazione di ogni nemico, con le ricchezze che ha introdotto in Roma, a generare la crisi morale. Altra conseguenza di questo modo di vedere è che la politica estera e le relazioni con gli altri stati sono giudicati dal punto di vista del potere e della sua gestione in Roma; Sallustio è storico della crisi di un ceto dirigente e non si pone certo il problema dell’imperium di Roma e del modo di governarlo: quando lo fa riconduce immediatamente il discorso alle tematiche morali o alla polemica politica.
Verifichiamo queste idee ripercorrendo alcuni passi di Sallustio; si potrà notare come in entrambe le monografie la politica estera viene riportata ai problemi interni e alla critica della nobilitar al potere: del resto è questa la ragione profonda della scelta dei due argomenti da svolgere, la congiura di Catilina e la guerra in Africa.
SALLUSTIO
Quando però la repubblica si fu incrementata con l’operosità e la giustizia; e potenti re furono sopraffatti in guerra; e genti barbare e popolazioni ingenti furono sottomesse con la guerra; e Cartagine, la rivale della potenza romana, fu distrutta dalle fondamenta; e tutti i mari e tutte le terre si aprivano a Roma, allora la fortuna prese ad infuriare e a sconvolgere ogni cosa. Quegli uomini che avevano saputo sopportare facilmente pericoli, incertezze, avversità, proprio ad essi le ricchezza e la tranquillità, beni desiderabili in altre circostanze, riuscirono gravi e perniciosi.
(De Catilinae coniuratione X, 1-3; trad. P. Frassinetti)
Per la verità questo deplorevole costume dei partiti popolari e delle fazioni dei nobili e, in seguito, di ogni genere di depravazione era iniziato a Roma pochi anni addietro, in seguito all’inerzia e all’abbondanza di quegli agi che gli uomini stimano più importanti di tutto. Infatti prima della distruzione di Cartagine il popolo e il senato romano amministravano insieme la repubblica con la concordia e la moderazione, e tra i cittadini non esisteva antagonismo di prestigio e di potere: il timore dei nemici [metus hostilis] tratteneva i cittadini nel rispetto della virtù.
(Bellum Iugurthinum XLI, 1-3; trad. P. Frassinetti)
Sallustio è ancora più esplicito nei due passi che seguono, in cui il problema dell’amministrazione dell’impero è ricondotto a responsabilità politiche interne ben precise.
SALLUSTIO
Inoltre Lucio Silla, per assicurarsi la fedeltà dell’esercito che aveva comandato in Asia, contrariamente al costume dei padri [contra morem maiorum], gli aveva concesso di vivere nei piaceri e in una eccessiva licenza [...]. Così quei soldati, dopo aver conseguito la vittoria, nulla lasciarono ai vinti. Infatti la propizia fortuna snerva anche l’animo dei saggi; figuriamoci se uomini di così corrotti costumi potevano serbare moderazione nella vittoria!
(De Catilinae coniuratione XI, 5-8; trad. P. Frassinetti)
Mentre quelli [gli antenati] ornavano i templi degli dei col sentimento religioso, le loro case con la gloria, e ai vinti nulla toglievano al di fuori della possibilità di nuocere. Questi, al contrario, esseri sommamente iniqui, rubano agli alleati [sociis] ciò che uomini di grande valore, dopo la vittoria, avevano lasciato ai vinti; come se commettere ingiustizie fosse il solo modo per esercitare il potere.
(De Catilinae coniuratione XII, 4-5; trad. P. Frassinetti)
1c. La posizione politica di Sallustio come si desume dai suoi giudizi storici
Il moralismo di Sallustio sfocia in apparenza in una posizione isolata, disincantata, di constatazione acre e severa dei vizi del presente. A questo sembrano indirizzarlo i proemi delle due monografie, specie della giugurtina, dove il ritrarsi dalla vita pubblica sembra essere il necessario requisito dell’imparzialità e del ruolo importante della storiografia; non sono mancate interpretazioni in questo senso. In realtà la posizione politica di Sallustio è chiara. Da un lato, scontata, la recisa e mai attenuata condanna della nobilitas, il ceto di nobili di nascita che traggono dalla tradizione di governo senatorio e consolare i motivi del loro privilegio; dall’altro una altrettanto decisa insofferenza verso l’illegalità della parte popolare e di tutti coloro che, per reazione alle ingiustizie degli ottimati o per ambizione e cupidigia personali, hanno tentato con le armi di sovvertire i fondamenti dello stato repubblicano. Tutto ciò si trasforma in giudizi storici improntati a moderazione e rivolti a criticare uomini politici e personaggi importanti della storia di Roma; emerge anche, in positivo, una proposta politica moderata volta a limitare le pretese dei ceti inferiori e a valorizzare quei gruppi di possidenti italici, di cavalieri, di uomini nuovi interessati a entrare nel governo dello stato a fianco della nobiltà.
Si può seguire lo storico nei suoi giudizi su Mario, sui Gracchi e sulla plebe di Roma. Non si deve dimenticare che la congiura di Catilina viene attribuita alla degenerazione dei costumi introdotta dall’arbitrio dei nobili, mentre si omettono le compromissioni degli esponenti più in vista dei popolari.
SALLUSTIO
Nel frattempo egli stesso [Mario] arruola i soldati non secondo il
costume degli antenati [more maiorum] né per classi, ma secondo la libera
adesione di ognuno, in maggioranza proletari. Alcuni andavano dicendo che
ciò accadeva per penuria di uomini valenti, altri per la brama del console
di guadagnarsi il favore della plebe, poiché da quella gente era stato
esaltato e innalzato, e all’uomo in cerca di potere torna quanto mai
opportuno chi è più bisognoso; giacché a chi nulla possiede, nulla sta a
cuore, e gli pare onesto tutto ciò che offre occasione di guadagno.
(Bellum Iugurthinum LXXXVI, 2-3; trad. P Frassinetti)
E ammettiamo pure che i Gracchi, per bramosia di vittoria, non abbiano serbata la misura. Ma, per l’uomo probo, è preferibile essere vinto combattendo con armi oneste che trionfare delle offese con la violenza.
(Bellum Iugurthinum XLII, 3; trad. P Frassinetti)
E non soltanto i complici della congiura ebbero la mente tanto sconvolta, ma tutta la plebaglia in massa, avida di pubblici rivolgimenti, favoriva l’iniziativa di Catilina. In questo, appunto, pareva conformarsi al suo costume. In uno stato, infatti, coloro che nulla possiedono, guardano sempre con invidia i facoltosi, esaltano i malvagi, odiano l’antico, aspirano al nuovo; per insofferenza della propria condizione desiderano vivamente sovvertire ogni cosa, si nutrono senza discernimento di torbidi e di sedizioni, poiché la povertà si può facilmente conservare senza pericolo.
(De Catilinae coniuratione XXXVII, I-3; trad. P. Frassinetti)
2. LA POSIZIONE DI CICERONE NELLA CRISI
2a. La concordia ordinum, il consensus omnium bonorum nella proposta di Cicerone
Si è dunque compreso dai giudizi storici sallustiani, anche in negativo, che lo storico è fautore di una svolta moderata nella vita politica di Roma; i moderati, che si identificano tradizionalmente con i boni, i possidenti, devono emarginare i faziosi, i violenti, i demagoghi, a qualsiasi partito appartengano, devono tenere a freno coloro quibus opes nullae sunt, devono ispirarsi alla concordia di un tempo e al mos maiorum secondo le sane tradizioni italiche già esposte da Catone il Censore. Quasi per paradosso è possibile trovare alcune di queste idee, forse in forma meno idealizzata, nelle orazioni ciceroniane degli anni sessanta e cinquanta del secolo nell’ambito di un progetto politico sempre di segno moderato nato dalle prime lotte politiche alle quali l’oratore partecipò e soprattutto dall’esperienza capitale del consolato nel 63 a.C., l’anno della congiura di Catilina; vale la pena di ricordare che nonostante le sue origini equestri e le distanze che in qualche occasione prese dalla nobilitas, Cicerone restò comunque saldamente ancorato alla parte degli ottimati e che quindi anche tra i nobiles si sentiva la necessità di porre fine alle guerre civili e all’illegalità. I cardini di questa proposta politica sono prima la concordia ordinum, cioè l’alleanza tra l’ordine senatorio e quello equestre dopo le loro contese dell’età graccana e sillana e con un primo allargamento della base del potere; in seguito al fallimento della prima proposta per le continue rivalità tra gruppi di potere Cicerone penserà al consensus omnium bonorum (I Catilinaria 32, ma soprattutto a partire dalla Pro Sextio, del 56 a.C.) e all’estensione - che noi diremmo trasversale - della partecipazione alla vita pubblica a tutti i benpensanti, i possidenti a qualsiasi ceto appartengano, come supporto all’operato tradizionalmente "saggio" del senato. Ricorda peraltro che l’ideologia della concordia ha una lunga storia e risale a concezioni aristocratiche greche volte a conferire stabilità a stati in perenne agitazione per rivalità tra nobili o aspirazioni sociali ed economiche; in Roma poi era stata ampiamente sfruttata nei secoli delle lotte fra patrizi e plebei e Furio Camillo le dedicò un tempio nel 367 a.C. Cicerone le conferisce un aspetto più dinamico, di cooptazione di nuovi ceti al governo dello stato.
Si può seguire ora in alcuni passi ciceroniani il progetto di allargare il consenso alla tradizionale concezione classista e aristocratica della politica per allontanare la prospettiva violenta delle guerre civili e il pericolo di soluzioni autoritarie. Si deve ricordare che tra il primo e il secondo testo intercorre un lasso di tempo di sette anni: nella Catilinaria è evidente l’accentuazione istituzionale sugli ordines, mentre nella Pro Sextio si chiamano ottimati addirittura i liberti. Segue poi un passo del discorso del tribuno Memmio, di parte popularis, riportato nel Bellum Iugurthinum: egli mette in guardia la plebe contro le seduzioni della concordia, dimostrandone così la matrice aristocratica.
CICERONE
Devo qui ricordare i cavalieri romani? Essi vi [a voi senatori] cedono il primo posto come ordine e per autorità per gareggiare con voi in amor di patria; separati da tanti anni dal nostro ordine, ritornano alla concordia e all’unione: questo giorno e questa causa fanno di loro i vostri alleati. Se questa alleanza consolidata sotto il mio consolato si manterrà in eterno, vi garantisco che nessuna crisi civile e domestica potrà mai più colpire parte alcuna della repubblica.
(IV Catilinaria XV)
«Chi sono dunque gli ottimati di cui parli?» Il loro numero, se vuoi saperlo, è innumerevole: ché altrimenti lo stato non potrebbe reggersi. Sono ottimati i più autorevoli membri del senato e i loro seguaci, lo sono gli appartenenti alle classi più elevate, cui è aperto l’accesso al senato, lo sono cittadini romani dei municipi e delle campagne, lo sono uomini d’affari, lo sono anche dei liberti [...]: sono ottimati tutti coloro che non sono malfattori né malvagi per natura né scalmanati né inceppati da guai familiari. Ne deriva quindi che coloro che tu hai chiamato "casta" sono i cittadini irreprensibili, assennati e benestanti.
(Pro Sextio 97, trad. G. Bellardi)
L’unica via che porta, credetemi, alla fama, al prestigio e agli onori è l’apprezzamento e l’affetto degli uomini onesti, saggi e dotati da natura di buone qualità, è la conoscenza dell’ordinamento costituzionale dello stato, opera della grande saggezza dei nostri antenati.
(Pro Sextio 137; trad. G. Bellardi)
SALLUSTIO
Quale speranza può esservi infatti di lealtà e di concordia? Spadroneggiare essi vogliono, voi essere liberi. Commettere ingiustizie loro: voi impedirle [...].Può forse, in così disparate concezioni, sussistere tra voi e loro pace o amicizia?
(Bellum Iugurthinum XXXI, 23; trad. P. Frassinetti)
2b. La delusione e la fuga verso l’ideale nel De re pubica e in Sallustio
Che queste proposte fossero irrealizzabili senza il sostegno delle armi è dimostrato dalla fuga verso soluzioni quasi utopistiche, o contemplative, che accomunano il Cicerone posto di fronte al regime triumvirale e all’ultima fase delle guerre civili, al Sallustio che si ritira dalla politica per dedicarsi alla storia; in Cicerone il ricorso alla dimensione ideale vede il ritorno all’epoca aurea dello stato romano, quando splendevano la saggezza e il valore di Scipione Emiliano, e quindi a quella sorta di deus ex machina che è il princeps del De re publica (54-51 a.C.), interprete dei più alti ideali di un ceto che li aveva smarriti: costui dovrà essere rector, gubernator, moderator, tutor, procurator, dovrà quindi reggere il timone dello stato, supplire e sostenere i boni cives e il senato, sostituirsi talvolta a loro, sempre nel rispetto della costituzione tradizionale. Al buon cittadino resta l’otium cum dignitate, una forma di libertà individuale che salvi la pace dello stato e il prestigio della posizione sociale. Non è un caso ancora che in forma più malinconica anche Sallustio si faccia interprete della impossibilità di realizzare il progetto politico moderato, del ritorno al passato, della ricerca di libertà personale al di fuori della vita pubblica.
Il primo testo che proponiamo è tratto dal VI libro del De re publica, il celebre Somnium Scipionis, nel quale Scipione Emiliano racconta dell’apparizione in sogno dell’avo, Scipione Africano, eroe delle guerre puniche, che lo conduce in cielo, nella Via Lattea, e gli mostra la sorte dell’anima dopo la morte: è il suggello platonico all’opera politica nell’indicare come la vera vita sia quella dei cieli che si può raggiungere solo con la virtù. Il secondo testo proviene dalla celebre introduzione al Bellum Iugurthinum, dove Sallustio espone i motivi personali che l’hanno allontanato dalla politica.
CICERONE
Guarda se vorrai guardare in alto e osservare questa sede eterna, non lasciarti limitare dai discorsi del volgo e non riporre le tue speranze in premi terreni; bisogna che la virtù di per sé stessa con le sue attrattive ti volga alla vera gloria [...]; gli impegni più nobili sono infatti quelli che riguardano il bene della patria.
(De re publica VI, 25; 29)
SALLUSTIO
Fra queste attività tuttavia le magistrature e i comandi militari e in genere ogni carica politica non sembrano affatto desiderabili in questi frangenti, poiché gli onori non vengono assegnati ai meritevoli né coloro che raggiunsero il potere con intrighi sono per questo più al sicuro o più onorati [...]. Spesso infatti ho sentito dire che Quinto Massimo [il Temporeggiatore], Publio Scipione [l’Africano] e inoltre molti altri uomini illustri della nostra città erano soliti affermare questo: quando guardavano i ritratti degli antenati l’animo loro si accendeva di ardente amore per la virtù. E chiaro che né quella cera né quelle figure racchiudevano in sé tanto potere, ma quella fiamma si sviluppava in petto a quegli uomini egregi alla memoria delle loro imprese e non si estingueva prima che la loro stessa virtù si fosse adeguata alla fama e alla gloria di quelli.
(Bellum Iugurthinum III, 1; IV55-7; trad. P Frassinetti)
3. UN’IDEOLOGIA PER I CETI MEDI: LA NOVITAS E LA CONCORDIA
Qual è il punto che può accomunare nella prassi politica Cicerone e Sallustio? Come si devono concretamente realizzare i loro ideali? Uno storico francese, il Nicolet, ha indicato nell’apertura alla carriera senatoria agli homines novi soprattutti di provenienza italica la via concreta per promuovere quella mobilità sociale verticale, ma soprattutto orizzontale, italica, nella quale lo storico e l’oratore vedevano la possibilità di pacificazione e di riscatto: era la maniera di premiare il me rito individuale e di incanalare le ambizioni personali al servizio dello stato. L’ideale della concordia invece assunse i contorni di una proposta politica concreti solo in Cicerone, mentre Sallustio è perfettamente conscio che si tratta di un termine dalle chiare connotazioni ideologiche in senso aristocratico (vedi punto 2a.); tuttavia non rinuncia a inserirlo come chiave di volta delle sue descrizioni idealizzate del passato e a imputare ai nobiles ma anche ai populares estremisti la sua scomparsa dallo stato romano. È un ennesimo invito alla moderazione.
Si può confrontare il celebre discorso di Mario nel Bellum Iugurthinum con il quale i generale elenca i valori a cui si ispira la novitas con quanto lo storico Ettore Lepore dice del ruolo dell’homo novus negli ideali politici ciceroniani. Può essere utile rileggere il giudizio di Sallustio sull’arruolamento dei proletari (Bellum Iugurthinum LXXXVI, 2-3, al punto lc.), con le osservazioni su rapporto tra i generali e la plebe arruolata, a cui Lepore si riferisce in conclusione del brano.
LEPORE
Il consensus omnium bonorum rappresenta in fondo appunto il tentativo di legare in un moto di sentimento e di opinione unitaria, oltre che di interessi, gli homines novi e gli strati di medi e piccoli "borghesi", gli omnes boni di tutta Italia, al di fuori ormai degli ordines tradizionali e delle clientele personali [...]. Spetta all’homo novus che dell’optimus civis è il modello, e con gli omnes boni ha in comune le qualità fondamentali della bonitas, virtus, integritas, innocentia, ingenium, frugalitas, modestia, la direzione dell’opinione organizzata dei ceti italici, da cui in generale proviene e che particolarmente contano nell’assemblea centuriata; l’exercitus omnium bonorum et satis bonorum dovrà esercitare una pacifica e non ufficiale pressione sul governo, assicurando la sicurezza e l’esercizio normale delle funzioni politiche, la vitalità della res publica, prescindendo dalle consorterie oligarchiche come dalle clientele armate dei potenti.
(Il princeps ciceroniano e gli ideali politici della tarda repubblica, Napoli 1954, p. 199).
Tratto dal volume Voces. Sallustio, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000, pp. 136 – 145