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di Martino Menghi e Massimo Gori
Tra II e I secolo a.C. i limiti del modello storiografico annalistico per quel che riguarda l’interpretazione dei fatti portano alla nascita di forme nuove del racconto storico: le res gestae, la monografia, il commentario. Tuttavia la particolarità della situazione politica e sociale di Roma conduce gli storici a inquadrare il proprio discorso in finalità di giustificazione e di edificazione civile e a denunciare o a esaltare gli uomini che minano o rafforzano le fondamenta dello stato e della tradizione repubblicana: i due strumenti tradizionali del discorso e del ritratto sono appunto funzionali a questo scopo.
1. I LIMITI DEL MODELLO ANNALISTICO E LE FORME STORIOGRAFICHE NUOVE
1a. Gli annali e i loro limiti
Gli annali sono una forma di registrazione "storica" che ritroviamo in parecchie città-stato del mondo classico. Da parte delle gerarchie sacerdotali venivano messi per iscritto gli avvenimenti più importanti dell’anno, a cominciare dal nome dei magistrati eponimi (dai quali l’anno prendeva nome), riservando una particolare attenzione per i fatti atmosferici, i prodigi o le vicende belliche: la pratica evidentemente rientrava nella sfera del sapere sacro del quale i sacerdoti avevano il monopolio. Queste registrazioni assumevano carattere di ufficialità, venivano esposte in pubblico su delle tavole (a Roma la famosa tabula dealbata, la tavola bianca) e potevano essere raccolte in volumi: a Roma questa documentazione prese il nome di Annales maximi, che vennero pubblicati a opera del pontefice massimo Muzio Scevola intorno al 130 a.C.
La documentazione degli Annales ha influenzato a tal punto la successiva produzione storiografica che essi non solo hanno rappresentato una fonte sfruttata da tutti gli autori che si occuparono di storia ab urbe condita, ma hanno anche fornito un modello di narrazione "anno per anno" che contraddistingue in modo originale la storiografia romana; di contro, il predominio in essi delle tendenze all’edificazione morale o alla giustificazione dell’operato dei magistrati, proprie di una storiografia "ufficiale", fa sì che gli autori romani prendano a prestito dai greci il metodo di indagine sulle cause e le strutture retoriche.
Si considerino le seguenti testimonianze: la prima è di Cicerone, che nel De oratore riserva una particolare attenzione alla storia nella formazione del perfetto oratore; la seconda è un frammento dagli Annali che Fabio Pittore scrisse in greco nella seconda metà del III secolo a.C. (forse per scopi apologetici di fronte alla storiografia greca filocartaginese) e che nella sua concisione può dare un’idea della natura delle scarne registrazioni degli annali arcaici.
CICERONE
La storia infatti non era altro che la compilazione di annali. Per conservare il ricordo degli avvenimenti pubblici dall’inizio della storia di Roma fino al pontificato di P. Muzio Scevola, il pontefice massimo metteva per iscritto i fatti di ciascun anno, li trascriveva sopra una tavola bianca e la esponeva in casa sua, affinché il popolo li potesse conoscere: queste registrazioni anche oggi sono chiamate Annales maximi. Hanno seguito questo modo di scrivere in molti, che ora hanno lasciato senza alcun orpello letterario solo i nomi dei tempi, degli uomini, dei luoghi e delle imprese.
(De re publica Il, 52-53; trad. M. Sartori)
FABIO PITTORE
Perciò allora per la prima volta uno dei due P consoli fu nominato tra la plebe, ventidue anni dopo che i galli presero Roma.
(Annali fr. 23 Chassignet; trad. E. Narducci)
1b. La necessità dell’interpretazione, di un giudizio politico e di una forma letteraria nei nuovi generi
È probabile che già i volumi degli Annales maximi, per non parlare dei primi annalisti, si staccassero dalle nude registrazioni degli eventi propri delle tavole dei pontefici. Viene cioè percepita tutta la debolezza di un modo di raccontare la storia non più adatto a una società diversificata socialmente, in via di rapida espansione e soprattutto già laica, pronta a risolvere i propri problemi con la politica e non con il sapere religioso tradizionale. La storiografia del II secolo a.C. si sforza dunque di superare il modello annalistico tradizionale per una forma di narrazione più distesa e più ricca; in questo senso la polemica di Catone il Censore contro l’annalistica è sintomatica di una utilizzazione politica della storiografia, che in effetti nasce come prodotto del ceto dirigente e come supporto all’attività pubblica, di gran lunga preferibile per un cittadino romano.
Nelle Origines (scritte fino alla data del sua morte, 149 a.C.) Catone riprende modelli ellenistici sulla storiografia delle fondazioni di città (ktìseis), ma romanizza per così dire la trattazione partendo dalla venuta di Enea in Italia per giungere a vicende a lui contemporanee e prescindendo volutamente da qualsiasi elemento di esaltazione personale dei condottieri; la storia è ancora opera collettiva del senato e del popolo di Roma (negli annali non si nominavano i generali vincitori). Catone amplia tuttavia l’orizzonte della storia di Roma all’Italia e dimostra una certa insofferenza per i limiti contenutistici del modello annalistico.
CATONE
Non mi va di scrivere ciò che figura sull’albo del pontefice massimo, quante volte il prezzo delle derrate è rincarato, quante volte l’ombra o qualcos’altro ha fatto schermo alla luce della luna o del sole.
(Origines fr. IV 1 Chassignet; trad. E. Narducci).
La critica all’annalistica tuttavia va oltre l’aspetto puramente contenutistico per investire questioni di metodo e di narrazione letteraria dei fatti. Una società in cui i valori collettivi vengono meno - primo fra tutti il mos maiorum - ha bisogno in storiografia di forme letterarie nuove e di una narrazione che metta in primo piano l’individuo e la sua coscienza di sé. Il carattere dell’edificazione morale o politica e della giustificazione storica non viene meno, ma si adatta alle nuove aspirazioni carismatiche dei nobili (militanti sia tra gli optimates sia tra i populares) e recepisce forme ed elementi letterari dalla storiografia "tragica" ellenistica e dalla biografia. Ecco allora che si affermano, su modello greco, nuovi generi storiografici come la monografia, le res gestae, il commentario; non solo, ma queste innovazioni si accompagnano ad accresciute esigenze letterarie e al formarsi di una coscienza critica più matura. All’inizio del I secolo a.C. lo storico Sempronio Asellione sente il bisogno, sul modello del razionalismo polibiano, di una più matura scienza delle cause come carattere che distingue le res gestae dai vecchi annales, che vengono tacciati di puerilità. Qualche anno prima Celio Antipatro aveva invece dato un taglio netto all’uso tradizionale di partire ab urbe condita nella narrazione, e si era concentrato, non evitando peraltro il ricorso al fantastico, sulla storia della seconda guerra punita: meritò per il suo stile a effetto le lodi di Cicerone e aprì la strada alle monografie di Sallustio. Nello stesso secolo alcuni dei maggiori esponenti del mondo politico romano, da Silla a Cicerone, da Cesare ad Augusto, scrivono commentari apologetici nei quali narrano le proprie vicende illuminandole di una luce tale che possano rispondere alle accuse loro indirizzate: si tratta sempre della difesa della dignitas del magistrato romano che nelle intenzioni partigiane di questi uomini coincide con la dignitas dello stato. La veste letteraria, dissimulata, è invece funzionale a questo scopo.
Leggiamo dunque il passo di Sempronio Asellione di cui abbiamo parlato e una orgogliosa affermazione di Sallustio sull’importanza del lavoro dello storico.
SEMPRONIO ASELLIONE
Ma tra coloro che hanno voluto lasciare degli annali e coloro che hanno cercato di scrivere compiutamente una storia romana, questa è la differenza capitale. I libri "annali" si limitavano a esporre i fatti e la loro cronologia, alla stregua, più o meno, di chi scrive un diario, quello cioè che i greci chiamano "efemeride". Io osservo invece che a noi sta bene non solo riferire i fatti, ma anche le intenzioni e i moventi delle imprese. Infatti i libri annali non riescono per nulla a suscitare alacrità nella difesa dello stato o a imporre remore alla sovversione. Scrivere sotto quale console cominciò la guerra e sotto quale finì e chi fece il suo ingresso trionfale, ma non mettere in evidenza lo svolgimento della guerra né i decreti nel frattempo emanati dal senato o le leggi e le rogazioni votate, e non riferire le intenzioni che promossero gli avvenimenti, tutto ciò è contar favole ai bambini, non scrivere storia [res gestae].
(Rerum gestarum libri fr. 1 e 2 Peter; trad. G. Bernardi Perini)
SALLUSTIO
Lodevol cosa è tornar utili allo stato con
l’azione, ma è cosa altrettanto egregia illustrarne le imprese con la
parola; si può meritar fama in pace o in guerra, e fra quanti operarono e
quanti narrarono le imprese altrui, molti si procurano lodi.
(De Catilinae coniuratione III, 1; trad. P. Frassinetti).
2. IL DISCORSO E IL RITRATTO COME STRUMENTI DI INTERPRETAZIONE, DI ACCUSA E DI APOLOGIA
2a. Il discorso: critica e interpretazione
L’uso dei discorsi è un elemento caratterizzante, costitutivo si potrebbe dire, della storiografia classica fin dalle sue origini. Se infatti la storiografia rappresenta un tentativo di salvare «le imprese meritevoli di memoria» (Sallustio, De Catilinae coniuratione IV, 2), «perché gli eventi umani non svaniscano con il tempo e le imprese grandi e meravigliose [...] non restino senza fama» (Erodoto, Storie I, 1), e in questo senso lo scopo coincide con quello dell’epica, essa deve anche trovare forme letterarie per narrare i fatti e sopperire alla mancanza di archivi e di fonti orali o scritte che sostituiscano la visione personale, e nel contempo criteri di razionalità per distinguere il vero dal falso. Il discorso è lo strumento che consente di aderire alla realtà e di interpretarla nel suo senso generale e nello stesso tempo, essendo la modalità comunicativa più usata nella politica antica, di riprodurre in forma dialettica due o più idee contrapposte. In quanto strumento letterario e poiché in genere pone dei problemi di veridicità, ecco tuttavia che gli storici lo usano con grande accortezza collocando i discorsi in punti cruciali della vicenda e in svolte significative. Naturalmente la storiografia moderna ha ripudiato questo mezzo di espressione perché non giustificabile di fronte alla critica delle fonti, ma così ha certamente perso uno strumento di rappresentazione sintetico ed efficace, e soprattutto adatto alla concezione della storia come opera letteraria.
Il passo che segue è la famosa teorizzazione tucididea dell’utilizzazione dei discorsi; nell’opera dello storico greco queste parole vengono dopo la sezione "archeologica" della Guerra del Peloponneso, nella quale egli ha potuto ricostruire la storia greca dell’età arcaica soltanto con la speculazione razionale; la stessa esigenza di razionalità presiede alla scelta di uno strumento retorico come l’orazione, facendone una chiave di interpretazione delle differenti posizioni politiche del tutto "naturale" per l’uomo antico.
TUCIDIDE
Per quanto riguarda i discorsi che ciascuno r pronunciò, o mentre si preparava la guerra o durante la guerra stessa, era difficile ricordare con esattezza le parole quali erano state dette, sia per quello che io stesso avevo udito, sia per coloro che, da una parte e dall’altra, a me le riferivano. Ma sono state riportate così come mi sembrava che ciascuno avesse potuto dire, di volta in volta secondo le circostanze che si presentavano, le cose più opportune, tenendomi il più vicino possibile al concetto generale dei discorsi veramente pronunciati. Riguardo invece ai fatti verificatisi durante la guerra, non ho creduto opportuno descriverli per informazioni desunte dal primo venuto, né a mio talento; ma ho ritenuto di dover scrivere i fatti ai quali io stesso fui presente e quelli riferiti dagli altri , esaminandoli, però, con esattezza a uno a uno, per quanto era possibile.
(La guerra del Peloponneso I, 22; trad. L. Annibaletto)
Si può mettere ora a confronto il testo tucidideo con le parole che in Sallustio precedono due celebri discorsi, quello di Cesare e quello di Memmio, e le parole che precedono e commentano un altrettanto celebre discorso di Catilina.
SALLUSTIO
Ma Cesare, giunto il suo turno, richiesto dal console di esporre il suo parere, tenne press’a poco questo discorso: [...]
(De Catilinae coniuratione L, 5; trad. P. Frassinetti)
Ma poiché a quei tempi era in Roma notissima e influente l’eloquenza di Memmio, ho ritenuto doveroso riferire una delle tante sue orazioni, e precisamente riporterò ciò che egli, dopo il ritorno di Bestia, espose nell’adunanza press’a poco con queste parole.
(Bellum Iugurthinum XXX, 4; trad. P. Frassinetti)
Condusse [i congiurati] in un luogo appartato della sua casa e quivi, allontanato ogni testimone, tenne loro un discorso di questo tenore: [...]. Taluni ritenevano che questo particolare (1) e molti altri ancora fossero frutto di invenzione da parte di coloro che, con l’atrocità scellerata del delitto, di cui i congiurati avevano pagato il fio, tendevano a placare l’odiosità sorta più tardi contro Cicerone. A me personalmente un fatto così grave non risulta sufficientemente provato.
(De Catilinae coniuratione XX, 1; XXII,
3; trad. P. Frassinetti)
(1) questo particolare: dopo il
discorso i congiurati avrebbero bevuto sangue umano.
2b. Il ritratto "paradossale"
Sallustio, così come i suoi contemporanei Cesare e il biografo Cornelio Nepote (De viris illustribus), ha lasciato parecchie pagine che si possono definire veri e propri ritratti dei protagonisti delle vicende narrate. La tecnica del ritratto viene elaborata nel IV secolo a.C. dalla storiografia "tragica" seguendo da un lato modelli retorici isocratei, dall’altro i canoni e le schematizzazioni morali che la scuola peripatetica andò costruendo e di cui i Caratteri di Teofrasto (IV-III secolo a.C.) sono l’esemplare. Il genere della biografia, che gli antichi distinguevano dalla storia, trae origine proprio da queste esperienze culturali; a Roma i modelli biografici greci giungono nel II secolo a.C. e si innestano su una tradizione indigena legata al culto familiare degli antenati e fondata sul rispetto delle virtù del mos maiorum. Questo confluire di modelli rese immediatamente spendibili le biografie anche sul piano politico.
Ecco come Plutarco (50-120 circa d.C.), autore della più celebre raccolta di biografie dell’antichità, le Vite parallele di condottieri greci e romani, esplica le ragioni di fondo della scelta del genere biografico.
PLUTARCO
Io non scrivo storia, ma biografia; e non è che nei fatti più celebrati ci sia sempre una manifestazione di virtù odi vizio, ma spesso un breve episodio, una parola, un motto di spirito, dà un’idea del carattere molto meglio che non battaglie con migliaia di morti, grandi schieramenti d’eserciti, assedi di città. Come dunque i pittori colgono le somiglianze dei soggetti dal volto e dall’espressione degli occhi, nei quali si avverte il carattere, e pochissimo si curano delle altre parti, così mi si conceda di interessarmi di più di quelli che sono i segni dell’anima, e mediante essi rappresentare la vita di ciascuno, lasciando ad altri la trattazione delle grandi contese.
(Vita di Alessandro I, 2-3; trad. D. Magnino)
Segui ora nelle parole di uno storico della letteratura moderno come il modello greco della biografia condotta secondo schemi precostituiti di vizi e virtù si incontri con la tradizione della ritrattistica romana e dia luogo, prima in senso aristocratico ma poi come arma polemica su entrambi i fronti della lotta politica, a una vivace produzione di ritratti fisici e morali.
FEDELI
A Roma il ritratto compare ben presto nei rituali del patriziato: durante il corteo funebre il nobile veniva accompagnato dalle imagines degli antenati. Ciò costituiva un diritto che era esclusivamente riservato alle famiglie gentilizie, a quelle cioè che potevano vantare alti magistrati fra i propri antenati [...]. Di qualunque corrente artistica i ritratti risentissero [...] essi furono fin dall’inizio realistici. L’interesse preminente degli artisti era rivolto, oltre che alla somiglianza, a dare un effetto globale di austerità, di gravitas, di orgoglio e di ponderazione, in breve a rendere con l’immagine un’idea di moralità e di compostezza di costumi.
(Letteratura latina, Napoli 1990, p.111)
Leggi queste parole dell’autoritratto di Mario - un altro leader dei populares -: nel suo discorso, egli elenca le virtù che dice di aver ereditato dai padri e ponile accanto a quelle di Catone - uno dei capi della fazione della nobilitas. Nota che le virtù dell’homo novus vengono a coincidere con quelle del vir romanus della tradizione.
SALLUSTIO
Per contro ho approfondito quelle conoscenze che sono di gran lunga più utili allo stato: colpire il nemico, montar la guardia, nulla temere se non il disonore, sopportare parimenti il freddo e il caldo, dormire sulla nuda terra, tollerare fame e fatica insieme [... ]. Mi definiscono rozzo e ineducato perché ignoro l’arte di imbandire la mensa e non possiedo alcun attore né cuoco che valga più del mio fattore [...]. È vero, o Quiriti, e lo ammetto volentieri. Il fatto è che mio padre ed altri personaggi integerrimi mi hanno insegnato che la raffinatezza si addice alle donne e la fatica agli uomini; che ogni galantuomo deve poter vantare più gloria che ricchezza; che le armi, non i mobili, sono il suo ornamento [...] lascino a noi, che le preferiamo ai loro festini, sudore polvere e altre cose del genere [... ].
(Bellum Iugurthinum LXXXV, 33; 39-41; trad. 1 Frassinetti)
Uno dei passi più celebri di Sallustio è il ritratto di Catilina, come egli lo descrive nel cap. V della sua monografia. Si tratta di un classico caso di ritratto paradossale, vale a dire la descrizione "ambigua", che oscilla tra l’ammirazione e la condanna morale di un personaggio storico, tra l’elogio della sua energia e il rimpianto perché tale energia è sostegno della sua scelleratezza. Tale ambiguità serve all’autore per dare maggiore incisività e più numerose sfaccettature al ritratto letterario del personaggio, ma nel contempo vuole indicare, anche solo per estendere le accuse ad altri, che la realtà non è così semplice come un ritratto a una sola faccia dimostrerebbe: come disse ironicamente Cicerone: «questo genere di virtù [quelle degli antichi romani] non solo non si trovano più nei nostri costumi, ma nemmeno nei nostri libri» (Pro Caelio 40). Per esempio proprio nel testo citato su Catilina lo storico vuole sottintendere che l’erompere dei vizi del capo della congiura, e dei suoi accoliti, è stato prodotto da una situazione sociale ed economica in via di degenerazione per la crisi morale della classe dirigente romana. Un ritratto paradossale altrettanto famoso è quello di Petronio sul punto di suicidarsi (Tacito, Annales XVI, 18), dove la mollezza e la raffinatezza della vita si fondono con il vigore dimostrato nell’espletamento delle sue funzioni pubbliche e con la dignità con cui affronta la morte. Si potrebbero aggiungere i nomi di Sallustio minore, nipote e figlio adottivo dello storico (Annales III, 30), sostituto di Mecenate come consigliere di Augusto, oppure di Mecenate stesso e di Sciano, il potente prefetto di Tiberio (Velleio Patercolo, Storia romana II, 82, 2 e II, 127, 3 e ss.).
Per l’età repubblicana confronta e sottolinea la paradossalità dei ritratti di Silla in Sallustio e di Catilina stesso in Cicerone, il quale rimarca il fascino che questo personaggio esercitò anche sui suoi nemici.
SALLUSTIO
Silla dunque era di nobile stirpe patrizia, ma di un ramo ormai quasi completamente decaduto per l’indolenza degli antenati: ugualmente erudito, e con estrema raffinatezza, nelle lettere greche e latine: d’animo insaziabile, avido di piaceri ma più avido di gloria: benché dissoluto nei periodi d’ozio, il piacere non lo distolse mai dalle pubbliche occupazioni, eccettuato il fatto che, nei legami coniugali, avrebbe potuto comportarsi più decorosamente; efficace nel dire, astuto, condiscendente verso gli amici; incredibile la profondità della mente nel celare i suoi disegni; prodigo di molte cose e in particolare di denaro.
(Bellum Iugurthinum XCV, 2-4; trad. P. Frassinetti)
CICERONE
In Catilina erano non già chiaramente espressi, ma appena accennati numerosissimi indizi delle più nobili virtù. Aveva rapporti con molti scellerati, ma pure fingeva di essere devoto a dei gran galantuomini; vivere accanto a lui era un continuo incentivo al vizio, ma vi erano pure degli stimoli all’attività e al lavoro; portava con sé il fuoco di passioni viziose: ma vivo era pure il suo interesse per la vita militare. A mio parere non è mai esistito sulla terra un portento di tal fatta, una tale mescolanza di passioni e appetiti innati così contrari, opposti e contraddittori.
(Pro Caelio 12; trad. G. Bellardi).
Tratto dal volume Voces. Sallustio, Paravia Bruno Mondadori Editori, 2000, pp. 145 - 151