150
155
160
155
170
175
180
185
190
195
200
205
210
215
220
225 |
Nunc age, naturas apibus quas
Iuppiter ipse
addidit, expediam, pro qua mercede canoros
Curetum sonitus crepitantiaque aera secutae
Dictaeo caeli regem pavere sub antro.
Solae communes natos, consortia tecta
urbis habent magnisque agitant sub legibus aevum,
et patriam solae et certos novere penates,
venturaeque hiemis memores aestate laborem
experiuntur et in medium quaesita reponunt.
Namque aliae victu invigilant et foedere pacto
exercentur agris; pars intra saepta domorum
Narcissi lacrimam et lentum de cortice gluten
prima favis ponunt fundamina, deinde tenaces
suspendunt ceras: aliae spem gentis adultos
educunt fetus, aliae purissima mella
stipant et liquido distendunt nectare cellas.
Sunt quibus ad portas cecidit custodia sorti,
inque vicem speculantur aquas et nubila caeli
aut onera accipiunt venientum aut agmine facto
ignavum fucos pecus a praesepibus arcent.
Fervet opus, redolentque thymo fragrantia mella.
Ac veluti lentis Cyclopes fulmina massis
cum properant, alii taurinis follibus auras
accipiunt redduntque, alii stridentia tingunt
aera lacu; gemit impositis incudibus Aetna;
illi inter sese magna vi bracchia tollunt
in numerum versantque tenaci forcipe ferrum:
non aliter, si parva licet componere magnis,
Cecropias innatus apes amor urget habendi,
munere quamque suo. Grandaevis oppida curae
et munire favos et daedala fingere tecta.
At fessae multa referunt se nocte minores,
crura thymo plenae; pascuntur et arbuta passim
et glaucas salices casiamque crocumque rubentem
et pinguem tiliam et ferrugineos hyacinthos.
Omnibus una quies operum, labor omnibus unus:
mane ruunt portis; nusquam mora; rursus easdem
vesper ubi e pastu tandem decedere campis
admonuit, tum tecta petunt, tum corpora curant;
fit sonitus, mussantque oras et limina circum.
Post, ubi iam thalamis se composuere, siletur
in noctem fessosque sopor suus occupat artus.
Nec vero a stabulis pluvia impendente
recedunt
longius aut credunt caelo adventantibus Euris,
sed circum tutae sub moenibus urbis aquantur,
excursusque breves temptant et saepe lapillos,
ut cumbae instabiles fluctu iactante saburram,
tollunt, his sese per inania nubila librant.
Illum adeo placuisse apibus mirabere morem,
quod neque concubitu indulgent nec corpora segnes
in Venerem solvunt aut fetus nixibus edunt:
verum ipsae e foliis natos, e suavibus herbis
ore legunt, ipsae regem parvosque Quirites
sufficiunt aulasque et cerea regna refigunt.
Saepe etiam duris errando in cotibus alas
attrivere ultroque animam sub fasce dedere:
tantus amor florum et generandi gloria mellis.
Ergo ipsas quamvis angusti terminus aevi
excipiat, neque enim plus septima ducitur aestas,
at genus immortale manet multosque per annos
stat fortuna domus et avi numerantur avorum.
Praeterea regem non sic Aegyptus et ingens
Lydia nec populi Parthorum aut Medus Hydaspes
observant. Rege incolumi mens omnibus una est;
amisso rupere fidem constructaque mella
diripuere ipsae et crates solvere favorum.
Ille operum custos, illum admirantur et omnes
circumstant fremitu denso stipantque frequentes
et saepe attollunt umeris et corpora bello
obiectant pulchramque petunt per vulnera mortem.
His quidam signis atque haec exempla secuti
esse apibus partem divinae mentis et haustus
aetherios dixere; deum namque ire per omnes
terrasque tractusque maris caelumque profundum.
Hinc pecudes, armenta, viros, genus omne ferarum,
quemque sibi tenues nascentem arcessere vitas;
scilicet huc reddi deinde ac resoluta referri
omnia nec morti esse locum, sed viva volare
sideris in numerum atque alto succedere caelo. |
Allora, qui descriverò le doti che Giove
stesso attribuì alle api in premio per aver nutrito in una grotta del
Ditte, attratte dai canti selvaggi e dallo strepito di bronzo dei
Cureti, il re dei cielo. Solo loro hanno in comune i figli, un'unica
casa per tutte, e vivono seguendo leggi rigorose, solo loro riconoscono
sempre la patria, il focolare, e sapendo che tornerà l'inverno in estate
si sottopongono a fatica per riporre in comune ciò che si procurano.
Così alcune
provvedono al cibo e secondo un accordo stabilito si affannano nei
campi; una parte, nel chiuso delle case, pone come base dei favi lacrime
di narciso e glutine vischioso di corteccia, poi vi stende sopra cera
tenace; altre accompagnano fuori i figli svezzati, speranza dello
sciame; altre accumulano miele purissimo e colmano le celle di limpido
nettare. Ad alcune è toccata in sorte la guardia delle porte e a turno
osservano se in cielo le nubi minacciano pioggia, raccolgono il carico
delle compagne in arrivo e, schierate a battaglia, cacciano dall'alveare
il branco ozioso dei fuchi: ferve il lavoro e il miele fragrante odora
di timo.
Come fra i
Ciclopi, quando con il metallo incandescente forgiano febbrilmente i
fulmini, alcuni aspirano e soffiano l'aria con mantici di cuoio, altri
fra stridori immergono nell'acqua la lega; sotto il peso delle incudini
geme l'Etna; e quelli alternando lo sforzo sollevano a ritmo le braccia,
voltano e rivoltano il ferro stretto fra le tenaglie; così, se è giusto
confrontare il piccolo col grande, un'avidità istintiva di possedere
spinge le api di Cècrope ognuna al suo compito. Alle anziane sono
affidati gli alveari, l'ossatura dei favi, la costruzione dell'arnia a
regola d'arte; le più giovani invece tornano sfiancate a notte fonda con
le zampe cariche di timo; prendono il cibo in ogni luogo, sui corbezzoli
e i salici grigi, la cassia, il croco rossastro, il tiglio unto e i
giacinti scuri. Per tutte uguale il turno di riposo, per tutte il turno
di lavoro: la mattina sfrecciano fuori, e non c'è sosta; poi, quando la
sera le induce a lasciare campi e pasture, solo allora tornano a casa e
pensano a se stesse; in un brusio crescente ronzano intorno all'arnia
davanti alle entrate. Quando infine dentro le celle vanno a riposare,
cala il silenzio della notte e un giusto sonno pervade le membra
stanche.
Se però
incombe la pioggia, evitano di allontanarsi troppo dalle case, non si
fidano del cielo se irrompe il vento, ma vanno per acqua vicino alla
città protette dalle mura, tentano brevi sortite e a volte, come si
zavorrano le barche in preda ai flutti, portano con sé granelli di
sabbia per reggersi in volo tra le nubi leggere. Un comportamento delle
api ti stupirà: non si accoppiano fra loro, snervando nel piacere fino
all'esaurimento il proprio corpo e non partoriscono i figli con dolore,
ma dalle foglie, dalle erbe profumate raccolgono i piccoli con la bocca:
sostituiscono così il re e la comunità dell'alveare, ricreando la corte
e il reame di cera. Spesso nel loro continuo vagare si spezzano le ali
contro lamine di roccia e così per lo zelo tendono l'anima sotto il
fardello, tanto è l'amore che portano ai fiori e il vanto di produrre
miele.
Ma per quanto
sia breve il limite che a loro destina la vita (non supera di norma i
sette anni), la razza rimane immortale e a lungo negli anni si regge la
fortuna di una famiglia: si può risalire agli avi degli avi. Ancora,
nemmeno in Egitto, in Lidia, fra i Parti o sulle rive dell'Idaspe in
Media è tanto venerato il re. Finché vive, una volontà concorde le
accomuna, morto, rompono il patto di obbedienza e loro stesse
saccheggiano il miele accumulato, sfasciano il graticcio dei favi. Lui
regola il lavoro e le api, attorniandolo in ranghi serrati, con un
ronzio incessante gli rendono onore, lo sollevano sulle spalle, gli
fanno scudo del corpo in battaglia e cercano combattendo morte gloriosa.
In base a
questi segni, a queste prove, qualcuno ritiene che nelle api vi sia
parte della mente divina, un soffio d'infinito, perché la divinità
penetra dovunque, nelle terre, negli spazi di mare, nelle profondità del
cielo; da lei chiunque nasca, greggi, armenti, uomini, ogni specie di
fiere, attinge la sua effimera vita; poi, dissolto, ogni essere ritorna
e si rimette a lei: non esiste la morte, vivo vola nel novero degli
astri assurgendo all'immensità del cielo. |