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In origine l’aggettivo pius indicava in latino ogni oggetto che ricadesse nella sfera di influenza della divinità (è il caso del pius lucus, la radura sacra che si apre nei boschi e in cui venivano celebrati i culti più antichi), in particolare qualora le spettasse di diritto come offerta sacrificale (come nel caso del pium far, il grano offerto al dio come primizia del raccolto). Di qui si è sviluppato l’astratto concetto di pietas come religioso rispetto che l’uomo prova di fronte a quanto appartiene esclusivamente alla divinità; successivamente la progressiva spiritualizzazione del sentimento religioso ha condotto anche la pietas a estendere il proprio significato, da rispetto di fronte alle cose divine a rispetto più in generale dei propri doveri e impegni verso la divinità. L’uomo pius è divenuto quindi qualcosa di simile al nostro “devoto”, in quanto assolve scrupolosamente tutti quanti gli obblighi che lo legano al mondo delle divinità.
Proprio a partire da questa sottolineatura dell’aspetto legato all’assolvimento degli obblighi, nel I secolo a. C. il termine pietas subirà un’evoluzione ulteriore, questa volta in senso laico. Cicerone già parla di pietas erga deos cui si affiancano la pietas erga parentes e la pietas erga patriam, la devozione cioè che il civis deve nutrire verso dèi, patria e famiglia, assolvendo con scrupolo religioso i propri doveri verso queste tre realtà che debbono costituire il cardine della vita collettiva e individuale.
Con Virgilio per la prima volta il termine pietas sembra confluire nella sfera dell’humanitas, fino a indicare il sentimento di solidarietà che ci lega a tutti gli altri uomini, sentimento che si fortifica soprattutto nelle avversità e nelle sofferenze. L’uomo che ha fatto personalmente l’esperienza della sofferenza (nell’Eneide è il caso in particolare di Enea, ma anche della regina Didone) acquisisce una sensibilità particolare che lo mette in condizione di percepire la fragilità e la mortalità del prossimo; è quanto il mondo pagano abbia concepito di più vicino a quello che diverrà il concetto cristiano di pietas, riferito questa volta alla virtù teologale della carità: nei padri della Chiesa la “pietà” diviene definitivamente l’attenzione verso il fratello sofferente, bisognoso, indifeso, e in primo luogo verso il peccatore il quale, membro egli pure della Chiesa di Dio, deve essere salvato, perché la sua personale salvezza è preoccupazione e dovere di tutti i fratelli. Il Medioevo cristiano eredita questa idea generale della pietà verso i fratelli come misericordia, e l’accezione compare ancora in Dante, che dopo avere riportato il racconto di Francesca annota: “Mentre che l’uno spirto questo disse, | l’altro piangea; sì che di pietade | io venni men così com’io morisse” (Inferno V, 139-141); mentre Pier delle Vigne fatto .. gran pruno”, cui il poeta pellegrino ha appena strappato un rametto, protesta con forza: “Perché mi scerpi? l non hai tu spirto di pietade alcuno?” (Inferno XIII, 35-36).
Non è raro tuttavia ritrovare negli autori dell’età moderna il termine concepito ancora nel senso primo di “devozione a Dio”; il caso più noto è quello dell’altro grande eroe “pio” della letteratura occidentale dopo Enea, e cioè Goffredo di Buglione, protagonista della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, poema che esordisce con il verso famoso: .. canto l’armi pietose e ‘l capitano ... Per uno dei non rari paradossi della lingua, nella letteratura moderna e contemporanea, così come nel linguaggio comune, il termine “pietà” continua a essere genericamente connesso alla solidarietà umana, spesso anche laicamente intesa, mentre l’aggettivo “pio” tende a conservare l’originario valore latino di “uomo dedito a pratiche di devozione religiosa”.
(brano tratto dal volume Di Sacco - Serìo, Il mondo latino, volume 3, Bruno Mondadori 2001, p. 213)