L'Eneide: i testi

 

1. La "catabasi"

 

Ulisse scende agli Inferi (Odissea, XI, vv. 43-61)

(traduz. di E. Maspero - 1906)

 

Enea scende agli inferi (Eneide, VI)

Io scannai su la fossa; e mentre il caldo

Sangue sgorgava, uscìan l’ombre de’ morti

Fuor dell’Erebo in frotta. Erano spose,              45

Eran garzoni imberbi, e vecchi infermi,

E verginelle tenere, coi segni

Del fresco lutto su le guance impressi;

Eran alme d’eroi caduti in guerra,

Con le membra dall’aste vulnerate                   50

E gli usberghi cruenti, che alla fossa

Vagolavano intorno, sollevando

Un immenso clamor. Fredda paura

Mi strinse il core, ed affrettai gli amici

A scuoiare, a bruciar l’ostie svenate,               55

E porger voti agl’infernali Dei,

Al forte Pluto, alla crudel sua moglie;

Ed io, sedendo con la spada in pugno,

Impedìa che i vaganti simulacri

S’accostassero al sangue, anzi che avessi         60

Tiresia udito.

C'era un'enorme caverna dalla vasta apertura
tagliata nella roccia, difesa da un lago nero
e dal buio dei boschi. Nessun uccello poteva
volarvi impunemente al di sopra, per gli aliti
che salivano al cielo convesso, sprigionandosi
dalla sua scura bocca. Qui la sacerdotessa
fa condurre anzitutto quattro giovani tori
dal dorso nero; versa sul loro capo del vino,
taglia un ciuffo di peli tra le corna e li getta
sui fuochi sacri, prima offerta, chiamando a gran voce
Ecate potente nel cielo e nell'Erebo.
Alcuni guerrieri affondano i coltelli
nelle gole dei tori e raccolgono il sangue
tiepido nelle tazze. Lo stesso Enea ferisce
con la sua spada un'agnella dal vello nero, immolandola
alla Notte, che è madre delle Eumenidi, e a Gea
sua grande sorella, ed una vacca sterile
a te, Proserpina. Poi, di notte, leva altari
al re dello Stige e pone sul fuoco interi quarti
di carne, versando olio sulle viscere ardenti.
Ed ecco, al chiarore dell'alba e al sorgere del sole,
la terra mugghiò sotto i piedi, le cime dei boschi
cominciarono a muoversi e cani parvero urlare
traverso l'ombra, man mano che si avvicinava la Dea.
"Profani, via di qui! - grida la profetessa.
- Andate via dal bosco! E tu, Enea, sguainando
l'acuta spada, avviati sulla strada dell'Ade:
adesso è necessario aver coraggio, un cuore
risoluto!" Ciò detto furiosa si slanciò
nell'aperta caverna, ed egli la raggiunse,
seguì con passi fermi i passi della sua guida.
Dei che avete l'impero sulle anime, Ombre
silenziose, Caos e Flegetonte, luoghi
che vi estendete muti in un'immensa notte:
mi sia lecito dire quel che ho udito, svelare
col vostro consenso le cose sepolte
nella terra profonda e nell'oscurità!
Andavano senza luce nella notte solitaria,
attraverso la tenebra, attraverso le case
vuote, i regni deserti di Dite: come fosse
un viaggio per boschi con una luna incerta
che filtri appena i suoi raggi avari tra il fogliame,
quando Giove ha sommerso il cielo d'ombra opaca
e la notte ha privato di colore le cose.
Nel vestibolo, proprio all'entrata dell'Orco,
hanno i loro giacigli il Lutto ed i Rimorsi
vendicatori, e vi abitano le pallide Malattie,
la Vecchiaia tristissima, la Paura e la Fame
cattiva consigliera, la turpe Povertà
- fantasmi tremendi a vedersi -, la Morte
e la Sofferenza, i Piaceri colpevoli
ed il Sonno, fratello della morte. Di fronte
c'è la Guerra assassina, con le stanze di ferro
delle terribili Furie, e la folle Discordia,
cinta di bende cruente la chioma viperina.
In mezzo un olmo immenso, ombroso, stende i rami
e le braccia annose: dicono che questa sia la casa
dove stanno di solito i vani Sogni, appesi
sotto ciascuna foglia. Ma ancora tanti mostri
d'apparenza selvaggia bivaccano sulle porte:
i Centauri e le Scille biformi, Briareo
immane, dalle cento braccia, Chimera armata
di fuoco, l'Idra di Lerna che stride orribilmente,
le Gorgoni, le Arpie e Gerione, fantasma
di tre corpi. Qui Enea, trepido d'improvvisa
paura, sguainò la spada presentandone
l'acuta punta ai mostri che avanzavano: e se
non l'avesse frenato la sua compagna, conscia
che quelle vite leggere volano senza corpo
e sono mera apparenza, si sarebbe slanciato
a percuotere invano con la spada le Ombre.
Di là parte la strada che conduce alle onde
del tartareo Acheronte. Il suo gorgo è un'immensa
voragine, che bolle fangosa e si riversa
nel Cocito. Custode di questi fiumi è Caronte,
spaventoso nocchiero dall'orrenda sporcizia:
bianco foltissimo pelo gli pende incolto dal mento,
gli occhi pieni di fiamme stan fissi, stralunati;
ha un sudicio mantello legato sulle spalle.
Spinge lui stesso la barca con un palo, e governa
le vele, traghettando i morti sul bruno scafo:
vecchio ma Dio, di fiera e vegeta vecchiezza.
Tutta una folla immensa correva verso le rive:
uomini e donne, corpi di magnanimi eroi
usciti di vita, fanciulli e vergini fanciulle,
giovani posti sui roghi davanti ai genitori;
come le foglie, che cadono a milioni nei boschi
staccate dal primo gelo d'autunno, o come gli uccelli
che si ammucchiano a schiere fittissime sulla spiaggia
venendo dall'alto mare, quando la fredda stagione
li spinge oltre l'oceano in paesi assolati.

Si capisce chiaramente che Ulisse non scende in nessuna grotta, ma si limita a sgozzare animali, perché le anime dei defunti sono attratte dal sangue. Vuole parlare con l'indovino Tirèsia, per sapere il suo futuro.

Al contrario Enea si fa strada, aiutato da vaticini e da segni soprannaturali, per entrare in un luogo misterioso e pericoloso

 

 

2. L'ultimo colloquio (Eneide IV, 296-392)

 

At regina dolos (quis fallere possit amantem?)
praesensit, motusque excepit prima futuros
omnia tuta timens. eadem impia Fama furenti
detulit armari classem cursumque parari.
Saevit inops animi totamque incensa per urbem              300
bacchatur, qualis commotis excita sacris
Thyias, ubi audito stimulant trieterica Baccho
orgia nocturnusque vocat clamore Cithaeron.
Tandem his Aenean compellat vocibus ultro:
'dissimulare etiam sperasti, perfide, tantum                    305
posse nefas tacitusque mea decedere terra?
nec te noster amor nec te data dextera quondam
nec moritura tenet crudeli funere Dido?
quin etiam hiberno moliri sidere classem
et mediis properas Aquilonibus ire per altum,                   310
crudelis? quid, si non arva aliena domosque
ignotas peteres, et Troia antiqua maneret,
Troia per undosum peteretur classibus aequor?
Mene fugis? per ego has lacrimas dextramque tuam te
(quando aliud mihi iam miserae nihil ipsa reliqui),               315
per conubia nostra, per inceptos hymenaeos,
si bene quid de te merui, fuit aut tibi quicquam
dulce meum, miserere domus labentis et istam,
oro, si quis adhuc precibus locus, exue mentem.
Te propter Libycae gentes Nomadumque tyranni               320
odere, infensi Tyrii; te propter eundem
exstinctus pudor et, qua sola sidera adibam,
fama prior. Cui me moribundam deseris hospes
(hoc solum nomen quoniam de coniuge restat)?
quid moror? an mea Pygmalion dum moenia frater             325
destruat aut captam ducat Gaetulus Iarbas?
saltem si qua mihi de te suscepta fuisset
ante fugam suboles, si quis mihi parvulus aula
luderet Aeneas, qui te tamen ore referret,
non equidem omnino capta ac deserta viderer».               330
Dixerat. ille Iovis monitis immota tenebat
lumina et obnixus curam sub corde premebat.

Tandem pauca refert: «Ego te, quae plurima fando
enumerare vales, numquam, regina, negabo
promeritam, nec me meminisse pigebit Elissae                  335
dum memor ipse mei, dum spiritus hos regit artus.
Pro re pauca loquar. Neque ego hanc abscondere furto
speravi (ne finge) fugam, nec coniugis umquam
praetendi taedas aut haec in foedera veni.
Me si fata meis paterentur ducere vitam                         340
auspiciis et sponte mea componere curas,
urbem Troianam primum dulcisque meorum
reliquias colerem, Priami tecta alta manerent,
et recidiva manu posuissem Pergama victis.
sed nunc Italiam magnam Gryneus Apollo,                       345
Italiam Lyciae iussere capessere sortes;
hic amor, haec patria est. Si te Karthaginis arces
Phoenissam Libycaeque aspectus detinet urbis,
quae tandem Ausonia Teucros considere terra
invidia est? et nos fas extera quaerere regna.                  350
Me patris Anchisae, quotiens umentibus umbris
nox operit terras, quotiens astra ignea surgunt,
admonet in somnis et turbida terret imago;
me puer Ascanius capitisque iniuria cari,
quem regno Hesperiae fraudo et fatalibus arvis.                355
Nunc etiam interpres divum Iove missus ab ipso
(testor utrumque caput) celeris mandata per auras
detulit: ipse deum manifesto in lumine vidi
intrantem muros vocemque his auribus hausi.
Desine meque tuis incendere teque querelis;              360
Italiam non sponte sequor».

Talia dicentem iamdudum aversa tuetur
huc illuc volvens oculos totumque pererrat
luminibus tacitis et sic accensa profatur:
« Nec tibi diva parens generis nec Dardanus auctor,            365
perfide, sed duris genuit te cautibus horrens
Caucasus Hyrcanaeque admorunt ubera tigres.
Nam quid dissimulo aut quae me ad maiora reservo?
Num fletu ingemuit nostro? num lumina flexit?
Num lacrimas victus dedit aut miseratus amantem est?      370
quae quibus anteferam? Iam iam nec maxima Iuno
nec Saturnius haec oculis pater aspicit aequis.
Nusquam tuta fides. Eiectum litore, egentem
excepi et regni demens in parte locavi.
Amissam classem, socios a morte reduxi                          375
(heu furiis incensa feror!): nunc augur Apollo,
nunc Lyciae sortes, nunc et Iove missus ab ipso
interpres divum fert horrida iussa per auras.
Scilicet is superis labor est, ea cura quietos
sollicitat. Neque te teneo neque dicta refello:                  380
i, sequere Italiam ventis, pete regna per undas.
Spero equidem mediis, si quid pia numina possunt,
supplicia hausurum scopulis et nomine Dido
saepe vocaturum. Sequar atris ignibus absens
et, cum frigida mors anima seduxerit artus,                     385
omnibus umbra locis adero. Dabis, improbe, poenas.
Audiam et haec Manis veniet mihi fama sub imos ».
His medium dictis sermonem abrumpit et auras
aegra fugit seque ex oculis avertit et aufert,
linquens multa metu cunctantem et multa parantem  390
dicere. Suscipiunt famulae conlapsaque membra
marmoreo referunt thalamo stratisque reponunt.
At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem
solando cupit et dictis avertere curas,
multa gemens magnoque animum labefactus amore
  395
iussa tamen divum exsequitur classemque revisit.
Tum vero Teucri incumbunt et litore celsas
deducunt toto navis. natat uncta carina,
frondentisque ferunt remos et robora silvis
infabricata fugae studio.                                            400
Ma la regina (chi può ingannare chi ama?)
presentì tutto e s'accorse per prima di ciò che accadeva:
timorosa com'era di tutto, persino di quello che più pareva sicuro. L'empia Fama in persona disse che si allestiva la flotta per la partenza.
Folle d'amore, l'anima smarrita, dà in ismanie, erra per la città fuori di sé, baccante eccitata come una Menade quando infuria la festa, quando al grido di Bacco la stimolano le orge che vengono soltanto ogni tre anni, quando il Citerone a notte la chiama con molto clamore. Infine parla ad Enea per prima, così:
« Perfido, e tu speravi persino di nascondere tanto male e partire dalla mia terra in silenzio? Non ti trattiene il nostro amore, la mano che un giorno ti fu concessa, Didone che sta per morire di morte crudele? E invece tu sotto le stelle invernali prepari la flotta e ti affretti a solcare l'alto mare, tra i venti terribili, o malvagio. E perché? Se corressi non verso terre straniere, verso paesi che ignori, ma fosse ancora in piedi l'antica Troia, andresti a Troia con la flotta per l'ondoso mare?
Fuggiresti da me? Per questo mio pianto e per la tua mano, per gli Imenei incominciati e per la nostra unione, se ho meritato di te in qualche modo, se cara ti fu qualcosa di me, abbi pietà della casa che crolla, lo vedi, e abbandona questo pensiero, ti prego, se si può ancora pregarti.
Le genti di Libia mi odiano a causa di te,
i tiranni numidi mi odiano a causa di te,
persino i Tiri mi odiano a causa di te;
a causa di te il pudore è morto, è morta la fama
per la quale soltanto arrivavo alle stelle. A chi moribonda mi lasci? O Enea, ospite! Ospite! Soltanto questo nome posso dare a colui
che un tempo chiamavo marito. Ma allora? Forse attendo il fratello Pigmalione che bruci le mie mura, o il re Jarba che mi porti in Getulia schiava? Oh, se prima della tua fuga avessi avuto almeno un figlio da te, un piccolo Enea che per le sale giocasse e ti ricordasse all'aspetto! Oh, che allora, non mi parrebbe del tutto
d'essere abbandonata e d'essere stata ingannata!"
Diceva così. Ma lui per gli ammonimenti di Giove
teneva immobili gli occhi e con sforzo premeva
dentro al cuore l'affanno.
Alla fine risponde con poche frasi: "Regina, non sarò io a negare che hai tanti meriti quanti puoi contarne a parole, e non mi scorderò di te finché mi ricorderò di me stesso. Ma ascolta. Io non sperai di nasconderti questa fuga, credilo pure, e del resto mai ti tenni discorsi di nozze o pensai di sposarti.
Se i Fati permettessero che conducessi la vita
come vorrei, secondo i veri miei desideri,
sarei rimasto a Troia vicino alle dolci reliquie
dei miei, gli alti tetti di Priamo starebbero ancora
in piedi e con le mie mani avrei costruito ai vinti
una rinata Pergamo. Ma adesso Apollo grineo
mi comanda di andare in Italia: in Italia
mi ordinano di andare gli oracoli di Licia.
Questo è il mio amore, questa la mia patria. Se tu che sei fenicia ami tanto le rocche di Cartagine, questa tua bella città della Libia, perché impedisci che i Teucri abbiano alfine riposo nella terra d'Italia? È lecito anche a noi cercare lidi stranieri. Tutte le volte che la notte circonda le terre di umide ombre, tutte le volte che sorgono gli astri infuocati, in sogno l'ombra del padre Anchise, turbata, mi rimprovera e mi spaventa, con lui mi rimprovera Ascanio, povero bimbo, del torto che faccio al suo futuro, poiché lo frodo del regno d'Esperia, dei campi fatali.
E proprio adesso Mercurio, messaggero dei Numi,
mandato da Giove (lo giuro per le nostre due vite) m'ha portato per l'aria rapida questo comando: - Naviga! - Ho visto il Dio in una luce chiarissima entrare per le mura e con queste mie orecchie ne ho sentito la voce: - Naviga! - Dunque cessa di infuocare me e te con questi lamenti, io non vado in Italia di mia volontà».
Mentre diceva così lei lo fissava bieca
già da un poco, volgendo gli occhi qua e là, misurandolo
tutto con taciti sguardi; alfine furente
prorompe: "Tua madre non è una Dea, la tua stirpe non viene da Dardano, ma il Caucaso selvaggio aspro di rupi ti fece, ircane tigri allattarono te da bambino. Ah, perché m'illudo, che cosa mi aspetto più di questo? Lui forse s'è commosso al mio pianto?
Non ha battuto ciglio: non ha emesso un sospiro:
non ha avuto pietà dell'amante! Che cosa immaginare di peggio? Ormai nemmeno la grande Giunone e il padre Saturnio guardano con giustizia a quanto avviene. Non c'è più alcuna buonafede, in nessun posto. Lo presi morto di fame, gettato sul lido dalla tempesta, lo misi a parte del regno, pazza! Strappai la sua flotta dispersa all'estrema rovina insieme ai suoi compagni.
Ah, che furia m'avvampa! Proprio adesso l'augure Apollo e gli oracoli lici gli portano per l'aria questi ordini tremendi!
Certo è stato mandato da Giove in persona il fulmineo
messaggero dei Numi! Oh, davvero gli Dei non hanno da occuparsi d'altro, se un tale pensiero turba la loro quiete! Ma non voglio ribattere le tue parole, non voglio neppure trattenerti.
Parti, va' via col vento in Italia, cerca il tuo regno
attraverso le onde. Io spero soltanto, se i pietosi Celesti hanno qualche potere, che me ne pagherai il fio tra gli scogli, chiamando
spesso a nome Didone. Didone! Ma io lontana ti perseguiterò con i fuochi infernali: e quando la fredda morte spoglierà delle membra l'anima, in ogni luogo dove tu andrai ci sarò, pallido spettro, fantasma venuto a turbarti. Sconterai la tua pena, empio, ed io lo saprò: questa bella notizia mi giungerà tra le Ombre».
Così dicendo tronca a mezzo il discorso, affranta fugge la luce del giorno, scappa via e si leva dagli occhi d'Enea, lasciandolo dubitante, pauroso, desideroso di dirle molte cose. Le ancelle accorrono e la portano al suo marmoreo talamo; svenuta, le membra rigide, la posano sulle coltri. Ma, sebbene desideri alleviarle il dolore e consolarla, calmandone con parole l'affanno, benché sia intenerito dall'amore, dolente il pio Enea obbedisce all'ordine divino e ritorna alla flotta. I Troiani s'affannano a trarre le navi in mare dall'alto lido. Nuotano le chiglie spalmate di pece, gli uomini dalle foreste portano rami fronzuti e quercie non lavorate, han fretta di fuggire...

 

3. La discendenza di Enea (Eneide VI, 752 - 807)

Dixerat Anchises natumque unaque Sibyllam
conventus trahit in medios turbamque sonantem,
et tumulum capit unde omnis longo ordine posset
adversos legere et venientum discere vultus.                755
« Nunc age, Dardaniam prolem quae deinde sequatur
gloria, qui maneant Itala de gente nepotes,
inlustris animas nostrumque in nomen ituras,
expediam dictis, et te tua fata docebo.
Ille, vides, pura iuvenis qui nititur hasta,                      760
proxima sorte tenet lucis loca, primus ad auras
aetherias Italo commixtus sanguine surget,
Silvius, Albanum nomen, tua postuma proles,
quem tibi longaevo serum Lavinia coniunx
educet silvis regem regumque parentem,                      765
unde genus Longa nostrum dominabitur Alba.
Proximus ille Procas, Troianae gloria gentis,
et Capys et Numitor et qui te nomine reddet
Silvius Aeneas, pariter pietate vel armis
egregius, si umquam regnandam acceperit Albam.           770
Qui iuvenes! Quantas ostentant, aspice, viris
atque umbrata gerunt civili tempora quercu!
Hi tibi Nomentum et Gabios urbemque Fidenam,
hi Collatinas imponent montibus arces,
Pometios Castrumque Inui Bolamque Coramque;              775
haec tum nomina erunt, nunc sunt sine nomine terrae.
Quin et avo comitem sese Mavortius addet
Romulus, Assaraci quem sanguinis Ilia mater
educet. Viden, ut geminae stant vertice cristae
et pater ipse suo superum iam signat honore?                 780
En huius, nate, auspiciis illa incluta Roma
imperium terris, animos aequabit Olympo,
septemque una sibi muro circumdabit arces,
felix prole virum
: qualis Berecyntia mater
invehitur curru Phrygias turrita per urbes                        785
laeta deum partu, centum complexa nepotes,
omnis caelicolas, omnis supera alta tenentis.
Huc geminas nunc flecte acies, hanc aspice gentem
Romanosque tuos. Hic Caesar et omnis Iuli
progenies magnum caeli Ventura sub axem.                     790
Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,
Augustus Caesar, divi genus, aurea condet
saecula qui rursus Latio regnata per arva
Saturno quondam, super et Garamantas et Indos
proferet imperium; iacet extra sidera tellus,                     795
extra anni solisque vias, ubi caelifer Atlas
axem umero torquet stellis ardentibus aptum.
Huius in adventum iam nunc et Caspia regna
responsis horrent divum et Maeotia tellus,
et septemgemini turbant trepida ostia Nili.                       800
Nec vero Alcides tantum telluris obivit,
fixerit aeripedem cervam licet, aut Erymanthi
pacarit nemora et Lernam tremefecerit arcu;
nec qui pampineis victor iuga flectit habenis
Liber, agens celso Nysae de vertice tigris.                        805
Et dubitamus adhuc virtutem extendere factis,
aut metus Ausonia prohibet consistere terra? ».
Ciò detto Anchise condusse il figlio e la Sibilla
in mezzo alla folla rumorosa delle anime,
guadagnando un'altura da cui veder passare
tutti in fila, uno a uno, distinguendone il volto.
« Ascolta, ti dirò la gloria futura
della stirpe di Dardano, ti mostrerò i nipoti
che ci darà l'Italia: grandi anime fatali
destinate a portare un giorno il nostro nome.
Quel giovane lontano (lo vedi?), che s'appoggia
a un'asta senza ferro, è Silvio, nome albano,
il tuo ultimo figlio. La sorte gli ha assegnato
i luoghi più vicini alla luce, verrà
per primo al mondo, di sangue italico e troiano.
Nascerà da te vecchio e da tua moglie Lavinia,
sarà allevato nei boschi, re e padre di re,
la stirpe da lui sorta dominerà Alba Longa.
L'anima più vicina a lui è Proca, gloria del popolo troiano; e poi ci sono Capi, Numitore, Enea Silvio che avrà il tuo stesso nome, illustre per pietà e per valore quando potrà regnare su Alba.
Guarda che giovani, guarda come appaiono forti! Guarda le loro tempie come sono ombreggiate dalla corona civica!
Ti fonderanno sui monti la città di Fidene,
Nomento e Gabi, le rocche Collatine, Pomezia
e la fortezza d'Inuo, le grandi Bola e Cora:
oggi luoghi deserti, ma un giorno avranno un nome.
Fa compagnia al suo avo Romolo, figlio di Marte,
che nascerà da una madre tenera del sangue d'Assaraco.
Vedi come due creste gli oscillano sull'elmo,
come lo stesso Padre lo consacra divino?
Sarà lui a fondare quella Roma famosa
che estenderà il suo impero sopra tutta la terra,
che innalzerà la sua anima grande sino all'Olimpo,
circondando di mura ben sette colli
. Madre fortunata d'eroi! Così la berecinzia Cibele, incoronata di torri, trasportata sul suo carro, attraversa le città della Frigia, lieta della sua prole divina, felice di abbracciare i suoi cento nipoti, tutti Celesti, tutti abitanti delle alte regioni dell'aria.
Ora guarda laggiù, osserva i tuoi Romani. I tuoi Romani! C'è Cesare e tutta la progenie di Iulo, che un giorno uscirà sotto la volta del cielo. Questo è l'uomo promessoti sempre, da tanto tempo: Cesare Augusto divino. Egli riporterà ancora una volta nel Lazio l'età dell'oro, pei campi dove un tempo regnava Saturno; estenderà il suo dominio sopra i Garamanti e gli Indi,
dovunque ci sia una terra, fuori delle costellazioni, fuori di tutte le strade dell'anno e del sole, dove Atlante che porta il cielo fa roteare sulla sua spalla la volta ornata di stelle lucenti.
Già sin d'ora, in attesa del suo arrivo, la terra meotica e i regni del Caspio tremano per i responsi degli Dei, e si turbano le trepide foci del Nilo dai sette rami. Nemmeno Ercole ha percorso tanto spazio di terra, sebbene trafiggesse la cerva dai piedi di bronzo e rendesse sicuri i boschi d'Erimanto e atterrisse con l'arco Lerna; nemmeno Bacco che vittorioso guida il carro con le redini intrecciate di pampini, calando con le sue tigri dall'alta vetta di Nisa.
E tu esiti ancora a accrescere di tanto
la nostra forza, temi di fermarti in Italia? »

 

4. Il duello fra Turno ed Enea (Eneide XII, 919 - 952)

Cunctanti telum Aeneas fatale coruscat,
sortitus fortunam oculis, et corpore toto                        920
eminus intorquet. Murali concita numquam
tormento sic saxa fremunt nec fulmine tanti
dissultant crepitus. Volat atri turbinis instar
exitium dirum hasta ferens orasque recludit
loricae et clipei extremos septemplicis orbis;                   925
per medium stridens transit femur. Incidit ictus
ingens ad terram duplicato poplite Turnus.
Consurgunt gemitu Rutuli totusque remugit
mons circum et vocem late nemora alta remittunt.
Ille humilis supplex oculos dextramque precantem             930
protendens « Equidem merui nec deprecor » inquit;
« utere sorte tua. Miseri te si qua parentis
tangere cura potest, oro (fuit et tibi talis
Anchises genitor) Dauni miserere senectae
et me, seu corpus spoliatum lumine mavis,                      935
redde meis. Vicisti et victum tendere palmas
Ausonii videre; tua est Lavinia coniunx,
ulterius ne tende odiis». Stetit acer in armis
Aeneas voluens oculos dextramque repressit;
et iam iamque magis cunctantem flectere sermo              940
coeperat, infelix umero cum apparuit alto
balteus et notis fulserunt cingula bullis
Pallantis pueri, victum quem vulnere Turnus
straverat atque umeris inimicum insigne gerebat.
Ille, oculis postquam saevi monimenta doloris                   945
exuviasque hausit, furiis accensus et ira
terribilis: « Tune hinc spoliis indute meorum
eripiare mihi? Pallas te hoc vulnere, Pallas
immolat et poenam scelerato ex sanguine sumit ».
Hoc dicens ferrum adverso sub pectore condit                 950
fervidus; ast illi solvuntur frigore membra
vitaque cum gemitu fugit indignata sub umbras.
Enea, mentre egli indugia, agita in aria il lampo della lancia fatale: colto con gli occhi il punto preciso, vibra il colpo da lungi, a tutta forza.
Mai stridono così i macigni lanciati da macchine d'assedio, mai così fragorosa scoppia la folgore. L'asta volando come un turbine porta con sé la morte: sibilando attraversa gli orli della corazza e dello scudo fatto di sette strati di cuoio, si pianta nella coscia.
Il grande Turno cade, piega il ginocchio a terra.
Balzano in piedi i Rutuli gridando, la montagna tutt'intorno ne echeggia, le profonde foreste ripercuotono il suono per lungo tratto.
Turno supplichevole, umile, rivolgendosi a Enea con gli occhi e con le mani in atto di preghiera, gli dice: "Ho meritato la mia sorte e non chiedo perdono: segui pure il tuo destino. Solo, ti prego, se hai pietà di un infelice padre (come Anchise lo fu) sii misericordioso della vecchiaia di Dauno, restituisci ai miei me vivo od il mio corpo privato della vita, come ti piace. Hai vinto, gli Ausoni hanno veduto Turno sconfitto tenderti le mani: già Lavinia è tua, non andar oltre nella vendetta!" Enea fiero nelle sue armi ristette, pensieroso,
guardando l'avversario e trattenendo il colpo.
E quasi le preghiere riuscivano a commuoverlo, già dubitava, quando gli apparve, sulla spalla del vinto, il disgraziato cinturone, fulgente tutto di borchie d'oro, del giovane Pallante, che Turno aveva ucciso con un colpo mortale e di cui indossava come trofeo la spoglia.
Vista quella cintura, ricordo d'un dolore terribile, infiammato di rabbia, acceso d'ira: "Tu forse, che hai indossato le spoglie dei miei amici, vorresti uscirmi vivo dalle mani? Pallante - disse - solo Pallante ti sacrifica, e vendica la sua fine col sangue tuo scellerato." Pianta furibondo la spada nel petto avverso. Il corpo di Turno si distende nel freddo della morte, la sua vita sdegnosa cala giù tra le Ombre.

 


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