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L'uso
del paesaggio nei Promessi Sposi è un elemento tecnico molto importante che
porta alla soluzione di un problema fondamentale: come far capire al lettore in
profondità l'anima dei personaggi dando nel contempo una collocazione spaziale
in campo aperto alla vicenda (il campo aperto si contrappone al campo chiuso
rappresentato da una casa o addirittura una stanza), ed è descritto sempre con
molta sobrietà. Rappresenta spesso il commento alle vicende e lo specchio
dello stato d'animo dei personaggi. La celebre descrizione di Quel ramo del
lago di Como offre al lettore le coordinate spaziali della vicenda e la
inquadra in un alone di poesia. I segni della carestia, che ha aggredito anche
gli abitanti delle campagne, sono evidenziati all'inizio del capitolo
IV con la rappresentazione dei contadini che seminano con parsimonia e
preoccupazione, con la ragazzetta che conduce una mucca magra e le sottrae erbe
commestibili, da portare alla famiglia. L'Addio ai monti, a conclusione del capitolo
VIII sottolinea la struggente nostalgia di Lucia che si allontana da luoghi
cari, prendendone congedo con strazio, mentre il cielo luminoso, che accoglie
Renzo dopo aver guadato l'Adda all'alba e aver conquistato la libertà (cap.
XVII), sembra la promessa di un futuro sereno. La valle cupa e le montagne
brulle su cui incombe il castello dell'innominato sono un'introduzione alla
comprensione della sua violenza, mentre il cielo che lo sovrasta pare fungere
da interlocutore, quasi da coscienza per il tiranno (cap.
XX). E quando egli, dopo la notte drammatica in cui le parole di Lucia gli
hanno suggerito una possibile soluzione al disagio della sua vita, si affaccia
alla finestra, vede la valle chiara allietata dallo scampanio e il cielo
grigiastro percorso da nuvole leggere: paiono simboleggiare il suo passato che
si va sfaldando, per lasciar spazio alla luce della Provvidenza Divina (cap.
XX).
Molte sono le indicazioni di paesaggio che sembrano configurare aspetti della
vita degli uomini. Quando Renzo torna al suo paese, devastato dalla peste e
dalla calata dei lanzichenecchi, trova la sua vigna distrutta e infestata dalle
erbacce: segno tangibile del disordine morale dei tempi (cap.
XXXIII). Invece il paesaggio greve, oppresso dall'afa nella Milano
distrutta dalla peste e l'acquazzone gioioso che toglie il contagio (cap.
XXXVI), non soltanto sottolineano un'atmosfera, ma traducono in termini
concreti un diffuso stato d'animo: al languore e alla spossatezza della
disperazione si sostituisce una gioiosa speranza, quasi un senso di
purificazione e di rinnovamento. In alcuni casi, più che di paesaggio si può
parlare di ambientazione. Lo notiamo nelle scene di villaggio, nella
descrizione dell'interno delle case, in quel "brulichio" che riempie
le strade al crepuscolo e dà la misura della vita, la sera in cui Renzo
organizza il matrimonio a sorpresa (cap.
VII). Anche il palazzotto di don Rodrigo, cui si arriva per una stradetta
che attraversa il villaggio dei bravi, pare visualizzare il male come frutto di
mediocrità, egoismo, opacità intellettuale, piattezza morale e staticità
spirituale. A guardia della massiccia costruzione stanno due bravi e due
carcasse di corvi, mentre le finestre sbarrate, l'urlo dei mastini all'interno
e il vociare dei convitati al banchetto del padrone non sono meno volgari
dell'aspetto degli abitanti del villaggio: "omacci tarchiati e arcigni
[...] vecchi che, perdute le zanne, parevan sempre pronti [...] a digrignar le
gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia nerborute
[...]" (cap.
V). Non è propriamente una descrizione di paesaggio, ma rimanda a un
ambiente con una precisa connotazione spirituale e, dunque, è coerente col
modo in cui il Manzoni intende il paesaggio, come riflesso e elemento per
capire le alterne vicende umane.
Il
paesaggio nei Promessi Sposi svolge una duplice funzione: oltre a quella solita
di localizzazione dei fatti del romanzo, in quest'opera esso serve anche a
sottolineare e specificare gli stati d'animo, i sentimenti e il carattere dei
vari personaggi. Il romanzo si apre con una presentazione molto efficace
dell'ambiente in cui si svolgono i fatti, l'abilità del Manzoni è grande
anche in questo caso, infatti, le descrizioni sono così vive che sembra quasi
di trovarsi in quei luoghi, di poterli toccare!
Nel II capitolo lo scrittore ci immerge subito nella vita dei suoi personaggi,
descrivendoci le vie del paese e le case dove essi vivono. Proprio in questo
capitolo l'ambiente comincia ad entrare a far parte dello spazio psicologico
del romanzo: ne è un esempio la descrizione della passeggiata di don Abbondio
che cerca di evitare i sassi che incontra sul suo cammino, da queste poche
parole ci è già possibile capire il carattere del personaggio.
Proseguendo nella lettura il Manzoni ci preannuncia quello che sarà uno dei
temi principali della seconda parte del romanzo, la peste: notevole è la
descrizione del paesaggio che accompagna fra Cristoforo dal convento di
Pescarenico alla casa di Lucia. Uno dei passi più noti del romanzo è
"l'addio monti": Lucia, allontanandosi dal suo paese su una barca,
ripensa al paesaggio che sta abbandonando e, data la grande malinconia di
Lucia, anche l'ambiente sembra malinconico, triste e nostalgico, sottolineando
così lo stato d'animo di Lucia.
La descrizione del "palazzotto di don Rodrigo" e del
"castellaccio dell'Innominato" è assolutamente indispensabile al
profilo psicologico dei due personaggi: al primo si giunge attraversando un
"mucchio di casupole" all'interno delle quali si possono intravedere
attaccati al muro schioppi, tromboni, zappe, rastrelli, cappelli di paglia,
reticelle e fiaschetti da polvere, che paragonati a moschetti, sciabole e
partigiane del castellaccio sono un po' ridicoli.Il comico paragone tra le due
residenze continua ancora, infatti, il palazzotto, che si trova sulla cima di
un poggio, si raggiunge tramite una viuzza a chiocciola, mentre al castellaccio
sito a cavallo di una valle angusta e uggiosa si arriva percorrendo una
terribile strada tutta a gomiti e a giravolte.
Infine da notare è la descrizione che il Manzoni fa della natura durante il
viaggio di Renzo da Milano a Bregamo, sul suo percorso egli si addentra in un
bosco, locus orridus della letteratura di tutti i tempi; il bosco è come una
metafora della situazione in cui si trova Renzo, è, infatti, il labirinto del
suo carattere. I caratteri predominanti del bosco sono la paura, la confusione,
l'abbandono, e questi sono anche i sentimenti che Renzo prova in questo
momento.
Nel romanzo possiamo individuare sei descrizioni di paesaggi:
Capitolo I: apertura della vicenda sul lago di Como.
Capitolo IV: il paesaggio desolato sotto gli occhi di fra Cristoforo.
Capitolo V: Il palazzo di don Rodrigo.
Capitolo VI: la casa di Tonio.
Capitolo VIII: Don Abbondio lancia l'allarme nella Notte degli imbrogli e il paese scende in piazza.
Capitolo VIII: la scena dell'Addio dal paese.
Apertura
del romanzo sulla scena in cui inizia la vicenda: "Quel ramo del lago
di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di
monti...". L'infelicità dell'apertura del romanzo si riduce al ritmo
un po' pesante e solenne delle primissime linee: ben presto si riconosce in
questa descrizione lo stile riposato, attento, un po' minuto che già si era
notato nell'Introduzione. Ma questa topografia della scena dei Promessi
Sposi ha un andamento lento come non si troverà in nessun'altra parte del
libro. Come inizio di romanzo può sembrare poco attraente; eppure c'è in
esso una doppia giustificazione: la familiarità affettuosa dello scrittore
che, per aver passato tanto tempo in quei luoghi, vi vedeva tanta parte di sé;
e, dietro alla sua, la famigliarità abitudinaria di don Abbondio che, fino
a questo fatale 7 novembre, aveva sempre posato pacatamente lo sguardo su
ogni angolo di quel paesaggio nella sua passeggiata serale. Queste pagine
sono già l'ultima pagina serena della vita di don Abbondio, in un romanzo
tutto turbamenti e mutamenti.
La costruzione del periodo è notevole per la distribuzione armonica delle
singole parti ricongiungendo chiaramente la fine ("in nuovi golfi e
nuovi seni") all'inizio ("tutto a seni e a golfi") e lascia
l'impressione di un motivo pittorico musicalmente compiuto.
Descrizione della passeggiata abitudinaria di don Abbondio, subito dopo la descrizione del paesaggio: "dopo la voltata, la strada correva dritta, forse una sessantina di passi, poi si divideva in due viottole, a foggia d'un ipsilon...". Qui la descrizione della passeggiata si ferma in un'attentissima descrizione topografica prima, ritrattistica poi. La sosta ha una sua ragione poetica: questo è lo scenario dell'avvenimento capitale della vita di don Abbondio, che gli rimarrà nella mente per sempre.
Apertura del capitolo con l'immagine di carestia tanto frequente a quei tempi: comunica immediatamente l'animo triste del frate che osserva la scena "Il cielo era tutto sereno: di mano in mano che il sole si alzava dietro al monte, si vedeva la sua luce scendere giù per i pendii. La scena era lieta; ma ogni figura d'uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il pensiero...". La descrizione di questo mattino d'autunno ha l'andamento di un'osservazione oggettiva, di una fedele pittura. Il Manzoni non mira ad altro che a mettere il quadro sotto gli occhi: forse i paesaggi sono il miglior esempio della convinzione del Manzoni che l'arte è lo studio e la riproduzione del vero. Il passo degli uomini nei campi segna il passaggio dall'intonazione riposata a quella malinconica: i periodi si susseguono staccati, con pause fra l'uno e l'altro e interne, che danno un'impressione di silenzio e di pena. Con questo occhio quieto e triste il Manzoni fa sentire la malinconia e l'oppressione attraverso gli atteggiamenti e la modulazione del periodo. Lo stesso effetto ha su padre Cristoforo: "Questi spettacoli accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate...".
Fra Cristoforo giunge al paese di don Rodrigo e ne osserva lo squallore: "Appiè del poggio giaceva un mucchietto di casupole, abitate dai contadini di don Rodrigo. La gente che si incontrava erano omacci tarchiati ed arcigni, con un gran ciuffo arrovesciato sul capo; vecchi che, perdute le zanne, parevano sempre pronti a digrignar le gengive...". In tutta questa descrizione d'ambiente, quello dei vecchi è il particolare più efficace; c'è dentro tutto il ribrezzo verso la malvagità degli anziani. In questo paesaggio solo guardando i volti dei contadini traspare la cattiveria e la violenza dei seguaci di don Rodrigo. "Le rade e piccole finestre che davan sulla strada, chiuse da imposte sconnesse, erano però difese da grosse inferriate. Due grand'avvoltoi, con l'ali spalancate, e co' teschi penzoloni, erano inchiodati ciascuno sur un battente del portone; e due bravi, sdraiati sur una delle panche facevano la guardia...". Il Manzoni non fa il ritratto di don Rodrigo; ma questa vile fortezza ne tiene vantaggiosamente le veci: particolarmente la porta, contrassegnata da due avvoltoi (e non aquile) e guardata da due bravi sdraiati - un misto di minaccioso e volgare, dove si vedono la boria e la prepotenza ed insieme la sua bassezza -. Ma il quadro si impone anche per se stesso, per quel pennelleggiare largo e potente, per quella simmetria tra macabra e volgare.
"Andò addirittura alla casetta di un certo Tonio; e lo trovò in cucina, che, con un ginocchio sullo scalino del focolare, e, tenendo, con una mano, l'orlo d'un paiolo, messo sulle ceneri calde, dimenava, col matterello ricurvo, una piccola polenta bigia...". È la più ampia scena domestica, anzi paesana, incontrata finora. Si svolge con una linea affettuosa, pittoresca, ma sopra tutto pensosa. Sono descritti tutti i particolari - Tonio nell'atteggiamento di far la polenta-, la vivacità delle figure - "tre o quattro ragazzetti con gli occhi fissi"-, il gusto del colore che traspare dall'immagine della polenta scodellata - "e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori"-. Ma il quadretto è immerso nell'aria del tempo, e quindi impregnato di mestizia: come quello del principio del capitolo quarto, che è anch' esso fatto di particolari modesti, ma tutto velato di malinconia. Sono, l'uno in un interno famigliare, l'altro nell'aperta campagna, i riflessi della miseria del secolo. Il passo "Ma non c'era quell'allegria. Sopravvivere..." ha la stessa intonazione dei tratti del capitolo IV "La scena era lieta; ma ogni figura d'uomo che vi apparisse, rattristava il pensiero" . In questi brani troviamo quell'intonazione di malinconia raccolta e meditativa che ritorna ogni volta che il Manzoni si deve fermare sulle tribolazioni o sulle sciagure degli uomini.
"Ton, ton, ton: i contadini balzano a sedere sul letto; i giovinetti sdraiati sul fienile, tendono l'orecchio, di rizzano. Molte donne consigliano, pregano i mariti,di non moversi, di lasciar correre gli altri." La scena si allarga e si popola, rapidissima; il ritmo cambia. Anche qui un senso vivissimo della vita del villaggio: i giovani nel fienile, i mariti a letto, i più animosi con le forche e gli schioppi. E, insieme, una psicologia veloce ma accorta, intonata alla concitazione della scena: le donne timorose, i poltroni che sembrano compiacenti.
"e la luna, entrando per lo spiraglio, illuminò la faccia pallida, e la barba d'argento di padre Cristoforo, che stava quivi ritto in aspettativa...". La luna fornisce al Manzoni in questo capitolo il motivo fondamentale della dominante quiete disturbata, gli ispira quadri d'incanto (anche la faccia di fra Cristoforo imbevuta di pallore lunare) e pensose tristezze, e finisce per restare l'unica, solitaria, sovrana nota del paesaggio, per distendere il suo silenzio su tutto ed accompagnare con la sua malinconia quella della giovane fuggiasca che, posato il braccio sulla sponda della barca, posata sul braccio la fronte, come per dormire, piange segretamente.
"il lago giaceva liscio e piano, e sarebbe parso immobile, se non fosse stato il tremolare e l'ondeggiar leggiero della luna, che vi si specchiava dal cielo.Si distinguevano i villaggi, le case, le capanne...". Questa pagina dell'Addio è una sommessa armonia di suoni e di tinte: ne viene un'impressione di silenzio e di lenta, malinconica pace. Tutto sembra traduzione della realtà in parole: è il solito Manzoni, sempre fedele al vero, la solita precisione che chiude il varco al sentimentalismo e sembra lasciar parlare le cose.
"il palazzotto di don Rodrigo.": adagio, naturalmente, il motivo si è accostato all'anima della protagonista. I passeggeri sono silenziosi, dopo tanti spaventi: ma stanno con la testa voltata indietro, e guardano i monti ed il paese. La notte è chiara, tutto si distingue; e il pensiero, senza parole, corre sui luoghi da cui è nata la vicenda: il palazzotto di don Rodrigo, che sembra ancora minacciare, e via via, con una dolcezza e tristezza crescente, il paesello, la casetta, la chioma folta del fico e la finestra della camera da cui Lucia sarebbe andata a sposarsi. Sotto tutto c'è una nota di dolore che continua nell'atteggiamento finale di Lucia - posò il braccio sulla fronte - finchè due sole parole scoprono il sentimento: e pianse segretamente. Le parole dell'Addio non appartengono a Lucia, ma il ritmo è il suo, della sua anima semplice e pura, dolente ma rassegnata e serena; e sua è la trepidazione dell'ignoto e il religioso sospiro di promessa.
È notevole come il Manzoni riesca, con un paesaggio, a comunicare al lettore i sentimenti ed i particolari visivi come se anche egli fosse proprio lì, ad osservare la triste scena di povertà e carestia insieme a fra Cristoforo nel quarto capitolo, o sulla sponda del lago, spettatore della partenza di Lucia dal suo paese. Non si limita però a mettere sotto gli occhi una attenta descrizione, ma aggiunge aggettivi o parole che evidenziano il sentimento predominante nella scena. In questo studio del vero c'è qualcosa di "santo". Nei passi salienti il paesaggio, a prima vista, ha un aspetto domestico, ma sottintende un animo semplice e più elevato: conservando un preciso disegno, libero da ogni infiorettatura (come ha sottolineato nell'Introduzione), evidenzia il sentimento dei personaggi sullo sfondo della natura, che sembra sempre in armonia col loro pensiero.