Il Dei sepolcri di Ugo Foscolo

 

E' un carme didascalico di 295 endecasillabi sciolti.

 

In una lettera a Sigismondo Trechi, datata 3 febbraio 1816, l’Autore comunica che il carme fu scritto dopo il suo ritorno dalla Francia, e cioè dopo il marzo del 1806. E poiché in un’altra lettera datata 6 settembre 1806 egli annuncia a Isabella Teotochi Albrizzi che “aveva già una epistola sui Sepolcri da stamparsi lindamente”, bisogna dedurre che l’opera fu composta tra il marzo ed i primi di settembre del 1806.

 

Il Foscolo dedicò all’amico Ippolito Pindemonte questo carme (che vide la luce per la prima volta a Brescia nel 1807) e il poeta veronese interruppe il poemetto “I cimiteri”, cui lavorava da qualche tempo, lasciandolo incompiuto: preferì invece scrivere immediatamente una risposta in versi al Foscolo e nello stesso anno 1807  l’editore Gamberetti di Verona pubblicò entrambe le “epistole” col titolo: “I Sepolcri - versi di Ugo Foscolo e d'Ippolito Pindemonte”.

 

Il motivo occasionale

L’occasione del carme fu l'editto di Saint-Cloud, [L’editto imponeva di seppellire i morti in cimiteri extraurbani (per motivi igienici) ed in fosse comuni ed anonime (per rispetto del principio dell’egualitarismo)] emanato da Napoleone Bonaparte in Francia il 12 giugno 1804  ed esteso in  Italia il 5 settembre 1806, cioè quando certamente il Foscolo aveva già ultimata la stesura dell’opera: segno questo che il Poeta dava per certa ed imminente l’estensione in Italia di quell’editto e  che a indurlo a scrivere sui  Sepolcri  dovettero molto influire le discussioni che si accesero - ed alle quali non fu estraneo egli stesso - tra gli intellettuali già dopo il 1804. D’altra parte l’editto napoleonico non faceva altro che riprendere e ripristinare un’analoga disposizione del governo austriaco, che aveva avuto in Lombardia breve applicazione a causa dell’energica opposizione popolare, ma era riuscita tuttavia a valere sulla sepoltura del Parini, morto il 15 agosto 1799, le cui ossa erano andate disperse.

 

I motivi ispiratori

Nel carme confluiscono, in prodigiosa sintesi, tutte le esperien­ze esistenziali del Foscolo, intellettuali, morali e politiche: la concezione materialistica della vita (la forza operosa della Natura affatica tutte le cose di moto in moto, finché l’oblio le inghiotte nella sua notte), la necessità delle “illusioni per superare l’angoscia esistenziale e soprattutto per dare un senso alla vita dell’uomo ed una dignità alla sua opera (perché il mortale deve privarsi di quell’illusione che, dopo la morte, lo trattiene sulla soglia dell’aldilà e gli consente di continuare il suo dialogo con i vivi?), il desiderio di gloria e la tristezza dell'esilio (“E me che i tempi ed il desio d'onore / fan per diversa gente ir fuggitivo”), il disprezzo per la classe dirigente italiana (“Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo, / decoro e mente al bello italo regno, / nelle adulate reggie ha sepoltura / già vivo, e i stemmi unica laude”), il senso della dignità del poeta che non deve asservire la sua Musa ai potenti (gli amici raccolgano da lui non una eredità di tesori, “ma caldi sensi e di liberal carme l'esempio”) e della potenza della poesia che è l’unica forza umana capace di sfidare il tempo, vincendo con l’armonia il silenzio di mille secoli e perpetuando la fama degli eroi “finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”.

 

Sintesi di classicismo e romanticismo

Ma nel carme confluiscono pure e  si armonizzano in mirabile sintesi le sue esperienze artistiche: classicismo e romanticismo non solo convivono insieme ma si realizzano in unità di sentimento e di espres­sione: il culto della storia si sposa al fascino della mitologia, passato presente e futuro si fondono in un'unica dimensione che, come sa librarsi fuori del tempo e dello spazio, così sa calarsi nelle tormen­tose vicende della realtà attuale: Omero, Parini, Alfieri non sono distanti tra loro. 

 

Influenze preromantiche

Né manca il  segno dell’influenza che esercitarono sulla fantasia del giovane Foscolo i cosiddetti poeti “cimiteriali” del Settecento che oggi diciamo preromantici (“Senti raspar fra le macerie e i bronchi / la derelitta cagna ramingando / su le fosse, e famelica ululando; / e uscir del teschio, ove fuggia la luna, / l'upupa, e svolazzar su per le croci / sparse per la funerea campagna, / e l'immonda accusar col luttuoso / singulto i rai di che son pie le stelle / alle obliate sepolture”), anche se il Poeta stesso ci tenne giustamente a precisare che la sua ispirazione, di natura “politica”, era ben cosa diversa. A tal proposito affermò: «Young ed Hervey meditarono sui sepolcri da cristiani: i loro libri hanno per iscopo la rassegnazione alla morte e il conforto d'un'altra vita, e ai predicatori protestanti bastavano le tombe dei protestanti; Gray scrisse da filosofo: la sua elegia ha per iscopo di persuadere l'inutilità della vita e la tran­quillità della morte; quindi gli basta un cimitero campestre. L'autore considera i sepolcri positivamente; ed ha per iscopo di animare l'emu­lazione politica degli Italiani con gli esempi delle nazioni che onorano la memoria e i sepolcri degli uomini grandi: però dovea viaggiare più di Young, d'Hervey e di Gray, e predicare non la resurrezione dei corpi, ma delle virtù».

Il culto della tomba

Resta però che il culto della tomba è il tema centrale del carme attorno al quale gravitano tutti gli altri. Ma la tomba non è qui simbolo di Morte, non è il ricettacolo dei “miserandi avanzi che Natura con veci eterne a sensi altri destina”. E' invece simbolo di Vita, è il sacrario delle memorie domestiche e patrie da cui i posteri attingono messaggi di civiltà.

E la Morte non è più il deludente passaggio dalla vita al “nulla”, né un semplice porto di “quiete” in cui riposare l’animo afflitto: segna il momento in cui lo spirito umano, svincolandosi dai legami con il contingente, si affida alla storia universale, cessa di appartenere al mondo dell’effimero per entrare nell’eternità.

 

L'argomento

Le tombe non servono ai morti che  si  sono dispersi nella notte dell’oblio ed hanno perduto definitivamente ogni rapporto concreto con la vita. Sono utili invece ai vivi perché questi hanno il “dono celeste” di continuare il dialogo con i cari estinti, illudendosi che un giorno, se lasceranno un’eredità di affetti, potranno anch’essi sopravvivere nel ricordo dei vivi. E' però fondamentale, perché possa verificarsi questa ideale “corrispondenza d'amorosi sensi”, che la terra natale offra ai suoi figli l’ultimo asilo, proteggendone le ceneri, e che una lapide conservi i nomi dei morti. E' perciò disumana la nuova legge che sottrae i morti al culto dei vivi e consente che le ossa di un uomo onorato come il Parini possano giacere probabilmente accanto a quelle di un infame. Eppure il rispetto per i morti è stata una delle prime manifestazioni di pietà degli uomini, quando dallo stato ferino tentarono i primi passi sul lungo cammino della civiltà, e questa pietà è stata tramandata di generazione in generazione dalle virtù patrie e dagli affetti familiari.

Vero è che la pratica usata dai cristiani dell’era moderna di seppellire i cadaveri tra le mura della città e nelle chiese, ammorba l’aria e turba il sonno delle giovani madri; ma non è stato sempre così: il culto dei morti ha avuto ben altri riti nel passato: i Greci e i Romani seppellivano i loro morti sotto viali odorosi e coltivavano sulle tombe amaranti e viole, sicché chi andava a “raccontar sue pene ai cari estinti, una fragranza intorno sentia qual d'aura de’ beati Elisi”. Naturalmente le tombe, se confortano l’animo pio, sono però mute presso gli uomini dominati solo dal “tremore” e dalla sete di ricchezza materiale.

Le tombe dei Grandi sono poi un sacrario di glorie patrie e spingono gli animi dei generosi a magnanime imprese, come quelle dei Martiri di Maratona che nutrirono la virtù dei Greci contro l’ira dei Persiani, come quelle raccolte in Santa Croce, a Firenze, che hanno confortato ed ispirato l’Alfieri, il fiero vate, e un giorno offriranno gli “auspici” agl’Italiani, se finalmente rifulgerà loro nuova “speme di gloria”.

Ed anche se le tombe saranno divorate  dalla furia impietosa del tempo, la memoria dei Grandi sarà affidata al canto dei poeti, che vince di mille secoli il silenzio: la fama degli eroi greci che distrussero Troia fu eternata dalla poesia di Omero, grazie al quale anche Ettore, che morì per la difesa della sua città, sarà onorato di pianto, presso coloro che considerano santo il sangue versato per la patria, “finché il sole risplenderà sulle sciagure umane”.

 

Partizione dell'opera e riassunto dettagliato

Testo integrale dell'opera

La poesia

Così espresso l’argomento  del  carme appare niente altro che un ragionamento, sia pure animato dai segni di una calda e sincera passione.

Ma nei versi - com’era naturale che fosse - l’argomento perde ogni connotazione di ragionamento e vive in tante immagini di pura fantasia che sono l’espressione immediata di una lunga serie di emozioni, apparentemente anche non conseguenziali l’una all’altra, ma che hanno la forza vitale di comporsi in un organismo unitario che non consente di decifrare le singole parti se non nella comprensione del tutto. Leggendo i versi non è difficile cogliere il senso tutto sentimentale delle immagini proposte, la cui successione sfugge ad ogni prepotenza della pura logica, non si lascia asservire al pensiero, ma si affida all’onda dei ricordi, dei sogni, delle speranze. Un solo esempio per dare ai giovani una chiave di lettura: nei primi versi del carme il Foscolo vuol dire che, quando sarà morto e la vita della terra non pulserà più per lui, che avrà perduto i giorni futuri e non potrà più né amare né poetare, non gli sarà certo di ristoro una lapide che distingua le sue ossa da quelle degli altri estinti. Ed ecco come questo “concetto” si trasfigura nella fantasia del Poeta:

 

.....................Ove più il sole
per me alla terra non fecondi questa
bella d'erbe famiglia e d'animali,
e quando vaghe di lusinghe innanzi
a me non danzeran l'ore future,
né da te, dolce amico, udrò più il verso
e la mesta armonia che lo governa,
né più nel cor mi parlerà lo spirto
delle vergini Muse e dell'Amore,
unico spirto a mia vita raminga,
qual fia ristoro a' dì perduti un sasso
che distingua le mie dalle infinite
ossa che in terra e in mar semina morte?

 

Tutti i versi sono animati da una vaga malinconia: la vita che si è costretti ad abbandonare è colta nell’incessante lavorio del Sole che quotidianamente sorge per “fecondare” pianure, colline, monti popolati da fiori, da piante, da animali, da uomini: senti nei versi il dolce fragorio della vita e nell’aggettivo “bella” puoi avvertire tutto l’attaccamento del Poeta alla vita, nonostante le pene che gli ha inflitto: avverti il senso di una nostalgia anticipata per la vita che non si è ancora lasciata, ma che si deve pur lasciare. Lo spettro del nulla eterno si trasforma in una interminabile fila di “ore” ammaliatrici e danzanti come sono le speranze degli animi generosi e... sognanti: senti palpitare tutta la tristezza dell’animo perplesso di fronte ad una elementare ma inspiegabile verità. E non meno perplesso lo rende quel fatale addio che pur dovrà dare alle Muse ed all’Amore nei quali sente consistere tutto il significato della sua passata e presente stagione terrena.

E' chiaro che nei versi non c’è l’ “idea” della Vita, ma il “sentimento” della Vita; non c’è l’idea della Morte e del Nulla, ma il sentimento della Morte e del Nulla.

La critica

La prima recensione  al carme è forse quella comparsa lo stesso anno della sua pubblicazione sul “Giornale Italiano” (n. 173 del 22 giugno 1807) ad opera dell’abate francese Amato Guillon. La critica del Guillon fu aspra e malevola ed ebbe toni anche sarcastici che mandarono il Foscolo su tutte le furie. Più marcatamente il Guillon giudicava negativa la seconda parte del carme e soprattutto il finale:

«Sembraci che sia questo un fine ben brusco in un'opera di sentimento. Si direbbe che un simil soggetto avesse troppo  stancato la lira del poeta, per poter avanzare di più. L'andamento del suo poema era già diventato penoso quando la sensibilità non animava più la sua musa; e dessa aveva già cessato di spargere la sua bellezza nei di lui versi, allorché egli dai sepolcri presenti si era trasportato a quelli dei tempi eroici della Grecia. Questa transizione l'ha condotto a dei dettagli d'erudizione; ora l'erudizione inaridisce il sentimento: e quindi ne viene che questa seconda parte della sua elegia, che ha una certa disparità colla prima, interessa molto meno la nostra anima, e conviene molto meno a quella dolce voluttà che essa trova ad intenerirsi sulle ceneri dei nostri simili».

Bastarono quattro giorni al Foscolo per redigere una lunga “Lettera a Monsieur Guillon su la sua incompetenza a giudicare i poeti italiani”. L’autore dei “Sepolcri” annota punto per punto le osservazioni del Guillon ai suoi versi, coprendo di ridicolo il prete francese: tra l’altro gli rinfaccia di non aver nemmeno saputo trascrivere due versi delle “Georgiche” (regalando così a Virgilio due grossolani errori) e di definire elegiaco un carme che è invece lirico. A proposito poi della critica alla seconda parte ed alla chiusa dell’opera, così scrive:

«Recito intero quest'ultimo squarcio dannato da lei come "arido di sentimento", perché a me anzi pare, non "che il soggetto abbia stancato la lira" del poeta, ma che egli abbia fin da principio temperate le forze per valersene pienamente in questo luogo. Per persuaderci delle sue sentenze su la santità e la gloria dei  sepolcri, ei ci presenta  un monumento che superò le ingiurie di tanti secoli. Le Troiane  che pregano scapigliate sul mausoleo de' primi prìncipi d'Ilo, onde allontanare dalla lor patria e da' loro congiunti le imminenti calamità - la vergine Cassandra che guida i nipoti giovanetti a piangere su le ceneri de' loro antenati - che li consola dell'esilio e della povertà decretata dai fati, profetando che la gloria dei Dardanidi risplenderà sempre in quelle tombe - la preghiera alle palme e a' cipressi piantati su quel sepolcro dalle nuore di Priamo, e cresciuti per le lacrime di tante vedove - la benedizione a chi non troncherà quelle piante sotto l'ombra delle quali Omero, cieco e mendìco, andrà un giorno vagando per penetrar negli avelli ed interrogare gli spettri de' re troiani su la caduta d'Ilo onde celebrar le vittorie de' suoi concittadini - gli spettri che con pietoso furore si dolgono che la lor patria sia due volte risorta dalle  prime rovine per far più splendida la vendetta de' Greci, e la gloria della schiatta di Peleo alla quale era riservato l'ultimo eccidio di Troia - Omero che, mentre tramanda i fasti de' vincitori, placa pietosamente col suo canto anche l'ombre infelici de' vinti - tanti personaggi, tante passioni, tanti atteggiamenti, e tutti raccolti intorno a un solo sepolcro, sembrano a lei senz'anima e senza invenzione? E la fine, la fine sopra tutto, sente di languore? Questo squarcio è un vaticinio di una principessa di sangue troiano, sorella d'Ettore, e sciagurata per le sventure che prevedeva. Non può dissimulare  la gloria de' distruttori della sua famiglia, ma ella cerca alcuna consolazione vaticinando  per l'infelice valore d'Ettore una gloria più modesta e più santa; non d'un principe conquistatore, ma d'un guerriero caduto difendendo la patria. Nelle ultime parole di Cassandra: "e finché il sole risplenderà sulle sciagure umane", l'autore s'è studiato di ricorre tutti i sentimenti di una vergine profetessa, che si rassegna alla fatale e inevitabile infelicità de' mortali, che la compiange negli altri perché sente tutto il dolore della sua propria, e che, prevedendola perpetua su la terra, la assegna per termine alla fama del più nobile e del men fortunato di tutti gli eroi.  Ove l'autore avesse mirato al “patetico”, avrebbe amplificati questi effetti; mirava  invece al “sublime”, e li ha concentrati».

Il Foscolo così concludeva la risposta: «Ma così va il mondo, Monsieur Guillon! la colpa è d'altri, pur troppo, e noi n'abbiam l'onta e la pena: ella parlando di ciò che non intende; io rispondendo a chi non può intendermi».

Qualcuno dovette rimproverare al Foscolo il tono troppo aspro della risposta, perché egli, in una lettera del 6 maggio 1808, così scriveva a Giuseppe Grassi: «Quello che fu scritto da me non mi fu dettato, credetelo, dall'albagìa di Autore, ma dal sentimento del nome Italiano. Il Guillon, prete - non - prete francese, compilatore della parte letteraria del Giornale Italiano, mordeva spietatamente tutti gli italiani, e s'avventava a occhi ciechi. E' viltà calare la spada su que' cani, ma è pazienza fratesca il lasciarli abbaiare; quel mio libricciuolo fe' uscire donne, ragazzi e chierici dalle case, da' colle­gi e da' seminari, e lo cacciarono a sassate; da quel giorno in poi lascia in pace gli autori italiani morti e vivi».

Ben diversi, ovviamente, furono i giudizi di quelli che hanno dignità di critici. De Sanctis e Carducci, i due maggiori critici lette­rari dell’Ottocento, pur appartenendo ad indirizzi diversi, espressero giudizi esaltanti. Il De Sanctis affermò che «...questo carme è la prima voce lirica della nuova letteratura, l'affermazione della coscienza rifatta, dell'uomo nuovo... Il carme è una storia dell'umanità da un punto di vista nuovo, una storia de' vivi costruita da' morti. Senti una ispirazione vichiana in questo mondo, che dagli oscuri formidabili inizi naturali e ferini la religione de' sepolcri alza a stato umano e civile, educatrice di Grecia e d'Italia; il doppio mondo caro al Foscolo, che unisce in una sola contemplazione Ilio e Santa Croce»; ed il Carducci: «[I Sepolcri sono] la sola poesia lirica nel significato pindarico che abbia l'Italia».

Dei critici a  noi più vicini citiamo solo alcuni giudizi che ci sembrano utili perché i giovani studenti possano meglio imprimersi nella memoria alcuni concetti fondamentali:

Momigliano:

«I Sepolcri sono la prima data della nostra letteratura patriottica di fondo storico, sono il ritratto ideale del Foscolo, sono - sopra tutto - la consacrazione poetica d'una nobile e triste religione della civiltà e della vita;...sono una breve  e  immensa sinfonia della vita e della morte».

 

 Citanna:

«La religione dei Sepolcri... era in fondo la religione della poesia, l'esaltazione della sua stessa opera ideale di poeta».

 

 Ramat:

«I Sepolcri sono la divina Commedia del Romanticismo, perché vi si canta il dramma dell'anima che dall'inferno del materialismo meccanicistico, attraverso il purgatorio della nobile illusione, giunge al paradiso della certezza stori­ca; certezza che lo spirito vince la materia, la vita trionfa della morte, anzi la morte si trasfigura in vita».

 


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