12 gennaio 2006 |
Gli scrittori perseguitati
Questa storia usa parole come libertà d’espressione, tabù, onore. Ma c’è ben poco di retorico: il protagonista, Orhan Pamuk, le sfodera come scudisciate, le affonda nella carne viva della sua comunità. Il perchè (lo si vedrà bene più avanti) si può però già intuire dalla citazione - dal poeta inglese Robert Browning - che apre il suo romanzo più famoso, Neve: «Ci interessa il versante pericoloso delle cose./ Il ladro onesto, il tenero assassino, /L’ateo superstizioso». Orhan Pamuk è uno scrittore. Di più: a 53 anni, vive a Istanbul, di cui è uno dei prìncipi della buona borghesia ed è, senz’altro, l’autore più famoso (tradotto in 20 Paesi, in Italia ne conosciamo anche Il libro nero e Il mio nome è rosso). Ha rischiato di vincere, tre mesi fa, l’ultimo Nobel della Letteratura: quando il suo nome è stato accantonato, c’è chi ha ipotizzato un complotto. Ordito dal governo di Ankara con la complicità delle pressioni di Washington sui giurati di Stoccolma. Perché se, con i suoi occhiali grandi e l’aria svagata e riservata, non è l’immagine dell’intellettuale scomodo, Pamuk è ora l’inciampo più fastidioso per la Turchia sulla strada dell’ingresso nell’Ue, il simbolo incarnato del fatto che il Paese su questioni come libertà e democrazia non ha ancora adottato criteri «occidentali» («L’Europa è il nostro futuro nell’umanità», dice uno dei suoi personaggi). Comunque vada a finire (la faccenda è in continua evoluzione), il romanziere è diventato una bandiera: quella della libertà di opinione, della lotta di tutti coloro, scrittori, giornalisti, artisti ma non solo (e certo non solo in Turchia) che considerano questo diritto una precondizione a ogni forma di espressione umana.
Niente discorsi teorici. Niente buonismi. Ecco il vero «scandalo». Come spostare in avanti la frontiera? La risposta di Pamuk sta nel mandare materialmente in frantumi i tabù. Uno per uno. E una volta per sempre, come accade, per definizione, con ogni tabù. «Se lo Stato è pronto a far di tutto per impedire che i turchi sappiano che cosa è successo agli armeni ottomani nel 1915, allora si può parlare di un tabù», sintetizza lo stesso autore. Che a febbraio aveva risposto, all’inviato del quotidiano svizzero Tages-Anzeiger che gli chiedeva di cosa non si deve parlare in Turchia: «Qui sono stati uccisi 30 mila curdi e un milione di armeni. E quasi nessuno si preoccupa di dirlo. Provo a farlo io». Pamuk non ha neppure osato la parola «impronunciabile»: genocidio. Ma tanto è bastato per far scattare l’accusa dell’articolo 301 del codice penale: «Offesa all’identità turca». Da sei mesi a tre anni, dice la legge. Le ragioni non sono difficili da spiegare, affondano nelle origini del Paese Moderno. Se Ankara oggi rifiuta il genocidio degli armeni tra il 1915 il il 1916, peraltro compiuto prima ancora dell’avvento del Padre della patria Kemal Ataturk, è perché la Costituzione voluta dai militari nell’82 ha un continuo richiamo alla sua ideologia centralista e laicista, il cui presupposto era la negazione dell’esistenza di minoranze nazionali (gli armeni, appunto, come i curdi) titolari di diritti linguistici, culturali e civili propri. Ammettere il massacro (che gli storici invece non mettono più in discussione) significherebbe aprire una falla nello Stato. Almeno, in Turchia sono in molti a vederlo come il tentativo di un pericoloso revisionismo. Solo che arrivare alla fine del processo a Pamuk non è semplice come scatenarlo.
Altri oltre a lui hanno parlato in Turchia: a settembre tre università di Istanbul hanno organizzato, dribblando vari veti delle autorità, il primo, contestatissimo simposio per discutere in pubblico dell’argomento, e a giudizio sono finiti editorialisti e direttori di giornali che ne hanno preso le difese. Nessuno però è famoso all’estero come Pamuk: e questo per la Turchia è un problema. A metà dicembre, in mezzo a una folla di nazionalisti inferociti, il giudice anti-Pamuk ha preferito «aggiornare l’udienza» al 7 febbraio. E ora il governo si chiede come disinnescare il caso (magari in queste stesse ore): l’immagine della Turchia come Paese dinamico, pronto alle riforme necessarie alla trattativa appena aperta per l’ingresso nell’Ue rischia di restarne macchiata. Al punto che la confindustria locale ha pensato a una campagna d’immagine lunga 10 anni (il tempo del negoziato con Bruxelles) per «convincere i “votanti” europei, e non solo i politici e gli uomini d’affari», spiega l’ideatrice Umit Boyner, direttrice di una catena di negozi di abbigliamento, «a guardare al di là degli stereotipi». «Ciò che macchia l’onore del Paese non è la discussione di eventi tragici della sua storia ma l’impossibilità di discuterne», è la tesi di Pamuk. Ecco il punto. Come Pamuk, altre coscienze nel mondo (per gli scrittori, vedremo nell’articolo che segue) sfidano, a proprio rischio e senza indulgere alla retorica, l’onore consolidato. In Pakistan, la maestra-coraggio Mukhtaran Mai, stuprata in piazza da quattro uomini per ordine dei capi-villaggio che volevano punire la famiglia, ha infranto anche lei un tabù: invece di suicidarsi per la vergogna come il codice sociale richiedeva, ha accusato a viso aperto violentatori e mandanti, chiede alla giustizia una condanna esemplare, parla in piazza seguita da migliaia di altre donne e ha addirittura aperto una scuola nel suo paesino in cui insegna i suoi valori «rivoluzionari». Disonorata è considerata nella sua Arabia Saudita l’ex presentatrice della tv Rania al-Baz (di buona famiglia della Mecca) che, picchiata a sangue dal marito, è fuggita a Parigi: ha appena raccontato la sua storia in un libro (Sfigurata, presto in Italia per Sonzogno) con cui mette in piazza i panni sporchi della sua gente (leggasi: i soprusi sulle donne).
Per aver irriso della verginità («Un uomo moderno non dovrebbe aspettarsi che la moglie sia vergine»), la star di Bollywood Khushboo (sposata con due figli) è stata multata e ad ogni uscita pubblica in India rischia il lancio di pomodori e uova marce, se non peggio. Tabù, onore, libertà d’espressione. In Turchia, Pamuk non è alla testa di un movimento. «Non è uno scrittore politico, ma è cosciente del ruolo che ha come intellettuale», spiega Murat Belge, docente di letteratura comparata a Istanbul. È un solitario. Però non vuol dire che sia solo. Lo «Stato contro Pamuk» è infatti uno dei molti casi aperti dai procuratori turchi ex articolo 301 (l’Ue chiedeva l’abolizione del reato, Ankara, che pure ha riformato di recente molte parti del codice penale, ha lasciato nel comma incriminato una parte del durissimo vecchio articolo 159). Secondo The Publishers Association, in 18 mesi (fino alla scorsa estate) 37 scrittori sono stati portati alla sbarra per reati «commessi» con la pubblicazione di 47 libri. Precisa Erol Onderloglu, responsabile legale dell’osservatorio turco Independent Communications Network: «Nella seconda metà del 2005, 22 giornalisti sono finiti sotto processo».
A rischiare tre anni di carcere è anche Abdullah Yilmaz, l’editore dell’antropologa greca Mara Meimaridi. Le streghe di Smirne, il suo romanzo che in Grecia ha venduto 400mila copie e in Turchia 50mila, «offenderebbe lo stato e l’esercito»: «Certo, descrivo la sporcizia dei loro quartieri nella Smirne ottocentesca dove costituivano un decimo della popolazione, la più povera», ha spiegato la scrittrice al Foglio, «ma non mi sogno di denigrare l’esercito anatolico, al contrario ne celebro il fascino e la fierezza». Nessuno, finora, è davvero finito in cella (anche Pamuk «non crede di andare in prigione»). Il ministro degli Esteri Abdullah Gül dice pure che «le leggi non sono intoccabili, e se necessario si può cambiare anche questo comma», anche se specifica: «Esprimere delle idee non dà diritto di insultare». Il nodo però non è questo: «Il processo Pamuk ci causa gli stessi problemi d’immagine di Fuga di mezzanotte, il film del ‘78 di Oliver Stone (quello ambientato nelle carceri turche, ndr)». Ma la pressione sull’intellighenzia (tutt’altro che embedded col potere) e la stampa, riformiste e decisamente europeiste, da quella parte indistinta di Paese «profondo» (l’establishment di esercito, burocrazia, nazionalisti), che per di più è proprio quella che ha paura di perdere potere con l’adesione all’Ue, si traduce comunque in una censura continua, più o meno esplicita. Pamuk intanto ha segnato un punto incassando il «non luogo a procedere» pronunciato da un giudice di Istanbul che ha bocciato la querela di un gruppo di avvocati nazionalisti per queste parole dello scrittore: «Purtroppo la minaccia principale è rappresentata dall’esercito che spesso nuoce allo sviluppo e alla democrazia». «Ha esercitato il suo diritto alla libertà d’espressione», scrive la sentenza. Anche il disegnatore satirico del giornale di sinistra Evrensel che aveva ritratto il premier Recep Tayyip Erdogan come un destriero cavalcato da uno dei suoi consiglieri è stato assolto l’altro giorno in appello. Ma non sarà facile. I libri di Pamuk, nei mesi scorsi sono stati anche bruciati in piazza per ordine di un governatore locale, come avvenne nella Germania di Hitler. «Per i nazionalisti turchi, il mondo è diviso fra noi e loro», sintetizza (su Le Monde) ancora Murat Belge. «Tutto ciò che può spingere l’Europa a respingere la Turchia, per esempio una sentenza contro Orhan, è altamente auspicata». «La politica in un’opera letteraria è come un colpo di pistola nel bel mezzo di un concerto: una faccenda brutale, ma impossibile da ignorare»: Pamuk, ancora all’avvio di Neve, ha riportato queste parole di Sthendal da La Certosa di Parma. Lui il suo colpo, intanto, l’ha sparato, e niente potrà essere come prima.
Edoardo Vigna