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Verso la fine dell'XI secolo in Francia era particolarmente sviluppata la società feudale: il ceto dominante era un'aristocrazia di origine guerriera, che possedeva il proprio feudo proprio grazie ai servigi militari prestati al re o ai feudatari maggiori. A tale nobiltà si venne affiancando un'altra classe militare, che utilizzando per lo più il cavallo, venne chiamata cavalleria e con il passare del tempo venne equiparata di fatto alla vecchia nobiltà.
Ad opera di questo ceto si forma l'ideale cavalleresco, costituito dai seguenti fattori:
- la prodezza, cioè il valore nell'esercizio delle armi, il coraggio e lo sprezzo del pericolo;
- il senso dell'onore, che va preservato a qualsiasi costo;
- la lealtà anche nei confronti dell'avversario e la fedeltà al signore.
Proprio in questo momento l'aristocrazia feudale comincia ad esprimere la propria visione eroica della vita e infatti le prime manifestazioni letterarie in volgare che ci interessano si ebbero nei secoli XII e XIII nella Francia settentrionale (in lingua d'oil): nascono i cicli epico-narrativi carolingio e quello bretone.
Il ciclo carolingio rievoca le epiche imprese di Carlo Magno e dei suoi paladini a difesa del suolo patrio contro le invasioni saracene, avvenute alla fine del IX secolo. Si compone di numerose chanson de geste, poemi in versi trasmessi oralmente (il più celebre dei quali è la Chanson de Roland composta intorno al 1100), in cui si riflettono e si esaltano i valori della classe feudale e cavalleresca al suo apogeo.
Il ciclo bretone, che si espresse nei romanzi (sorta di narrazioni epiche miste di prosa e versi), narra invece le imprese di eroi favolosi (re Artù e i cavalieri della Tavola rotonda) che corrono mille rischiose avventure per conquistare una donna, per difendere un debole, per vendicare un sopruso, insomma sempre e soltanto per spirito d'avventura, per affermare cioè un ideale di coraggio individuale che occupa troppo di sé l'eroe per poter essere messo al servizio di un interesse collettivo. Ovviamente questo ciclo incontrò maggior fortuna presso i nobili, tanto più raffinati nel gusto quanto meno sensibili ai sentimenti popolari.
L'ideale cortese
Nel corso del secolo XII si affacciano forme più raffinate ed eleganti di vita e di letteratura, e la vita sociale si concentra nelle corti dei grandi signori feudali. La vita di corte viene codificata in elaborate forme rituali e si definisce l'ideale cortese (da corte appunto), integrazione dell'ideale cavalleresco. Infatti alle virtù militari si aggiungono altre virtù 'civili', che sono
- la liberalità, cioè il disprezzo del denaro e la generosità disinteressata nel donare;
- la magnanimità, la capacità di compiere gesti sublimi di sacrificio e di valore;
- la misura, cioè il dominio di sé, che si riflette nel culto delle forme di vita lussuose e squisite e delle maniere eleganti (in opposizione ai 'villani');
- il culto della donna, simbolo stesso della 'cortesia' e della 'gentilezza'.
In particolare quest'ultimo fattore diventa prioritario nella produzione poetica in lingua d'oc, che si sviluppa nella Francia meridionale fra XII e XIII secolo.
La letteratura provenzale
Più importante, però, per la nostra storia letteraria, è l'influsso esercitato in Italia dalla letteratura provenzale (o "occitanica", perché in lingua d'oc) in quanto esso condizionò notevolmente la più importante delle nostre prime attività letterarie, quella della "scuola siciliana".
Si
tratta di un'abbondante produzione di liriche che svolgono di preferenza il tema
dell'amore. Non però di un amore sincero, genuino e perciò sempre nuovo
da lirica a lirica, ma di un amore stilizzato entro forme convenzionali
costantemente seguite dai rimatori. Di solito il poeta ama una nobile madonna,
una castellana, d'un amore spesso proibito, e a lei fa omaggio d'ogni sua
volontà, dichiarandosene fedelissimo servitore.
A livello stilistico e lessicale si tratta di poesie di altissima dignità
letteraria.
Autori di queste liriche (o "rime") erano i signori nobili e dotti della Provenza (Guglielmo IX d'Aquitania, Jaufrè Rudel, Bernardo di Ventadorn, Bertrando di Born, Arnaut Daniel, e altri), i cosiddetti trovatori, che componevano generalmente anche la musica di accompagnamento ed affidavano poi ai giullari il compito di cantare i loro componimenti di corte in corte e di piazza in piazza. Costoro, poi, non di rado erano essi stessi dei rimatori (come il celebre Marcabruno).
I Provenzali gareggiarono tra loro nello stile e non già nella autenticità dei contenuti, il che spiega quella opacità, se non proprio oscurità, così frequente nei loro versi, dovuta all'eccessivo, esasperato lavoro di cesello che avrebbe dovuto impreziosire il canto.
Fra i generi prediletti dalla poesia provenzale troviamo la canzone, la sestina, il sirventese, il compianto, la tenzone. Due furono gli stili:
- trobar clus, stile elaboratissimo, artificioso e oscuro;
- trobar leu, stile dolce e piano, limpido e facile.
Quando con la crociata contro gli Albigesi (o Càtari) del 1209, voluta dal papa Innocenzo III, la Provenza cadde sotto il dominio della Francia settentrionale e i suoi signori furono costretti a rifugiarsi all'estero, molti di essi vennero in Italia, accolti alle corti dei nostri nobili nell'Italia settentrionale, e qui continuarono la loro attività letteraria. Ciò spiega la fortuna che ebbe da noi la lirica provenzale e il sorgere in Italia di numerosi poeti che imitarono i trovatori d'oltralpe, che anzi con essi gareggiarono, adottando gli stessi temi, lo stesso stile e talvolta la stessa lingua d'oc.
Tra i nostri rimatori provenzaleggianti ci limitiamo a segnalare Lanfranco Cigala e Sordello di Goito, che Dante ci presenta nel sesto canto del Purgatorio.