Sul quotidiano "La Repubblica" e sulla rivista "La Repubblica delle Donne", recentemente, nella rubrica "Lettere a Umberto Galimberti", è apparsa una polemica sull'ora di religione nelle scuole pubbliche. Una socia del nostro circolo ha inviato una lettera per inserirsi in tale dibattito, che però non è stata pubblicata. Lo facciamo noi:

LETTERA A UMBERTO GALIMBERTI


Si è parlato di “religione” e di “religioni”, ma non ho mai sentito parlare di “non religione”.
Ho figli e nipoti, quindi una vita alle spalle e sono tuttora impegnata sia culturalmente che socialmente.
Queste brevi note per far capire che la mia vita ha avuto molti avvenimenti e che quanto mi è accaduto non è mai stato lasciato nella sfera del privato, ma è stato ripensato anche nei suoi riflessi sociali e politici.
Ho ricevuto un’educazione cattolica dalla quale mi sono allontanata fin dall’adolescenza. Oggi mi definisco atea, senza alcun rammarico e senza alcuna presunzione. Ritengo che credere o non credere appartengano entrambe alla sfera di ciò che è extra razionale e che abbracciare una o l’altra posizione non segni né un merito né una colpa. Credenti e non credenti hanno lo stesso diritto di cittadinanza, lo stesso diritto al rispetto. Questo tuttavia non avviene, neppure nel nostro occidente, malgrado le continue dichiarazioni di tolleranza. Chi si dichiara ateo è compatito come un minus habens, la parola stessa è vissuta come provocatoria, tanto è vero che si usano eufemismi o giri di parole quali non credente, laico, agnostico per rendere più accettabile il concetto.
Per questa mia posizione nel passato, quando ho dovuto fare le grandi scelte, ho incontrato molte difficoltà. Non ero sola, mio marito condivideva le mie idee, ma proprio per questo la posizione della coppia risultava più rigorosa. Abbiamo deciso di non sposarci in chiesa quando questo era visto come uno scandalo. Non abbiamo battezzato i figli e li abbiamo esonerati dalla religione quando questo avrebbe potuto essere a rischio di emarginazione. Fortunatamente le cose sono state meno gravi di quanto temevamo, anche perché avevamo la difesa di un certo livello culturale che ci dotava di dialettica e combattività.
Sono state decisioni non facili e molto meditate. Volevamo dare ai figli un insegnamento di coerenza tra pensiero e comportamento, volevamo poter parlare con loro liberamente e apertamente di quelle che erano state le nostre scelte esistenziali. Non abbiamo mai detto che le avrebbero dovute seguire: da adulti avrebbero preso le decisioni che avrebbero creduto di prendere, senza alcuna obiezione da parte nostra, che invece di obiezioni ne abbiamo sentite tante.
Da allora sono cambiate tante cose. In Italia sono comparse altre religioni accanto alla cattolica e la società italiana si è intimamente laicizzata, pur mantenendo tradizioni religiose di facciata, spesso prive di sostegno spirituale. Basti pensare, come esempio, al significato del Natale oggi!
La lentezza e la fatica del cambiamento si riscontrano quando tuttora chi si dichiara ateo è visto come un marziano.
Un vero passo indietro lo si fa, a mio avviso, quando si cerca nella “comune cultura cristiana” il collante per l’identità della nuova Europa.
Anch’io certamente mi riconosco nella cultura cristiana, che però ripercorro anche con sguardo critico. Questa cultura tuttavia appartiene al passato e non al futuro di un’Europa che dovrà essere composta da tanti stati con radici lontane. Il futuro deve puntare sull’accettazione, non sull’esclusione di chi proviene da altre culture.
L’unico valore, a mio avviso, che accoglie e non esclude, è quello della separazione tra quelle che sono le convinzioni esistenziali - religiose e non - che devono contare solo nel privato e quello che è la politica, che deve invece rimanere rigorosamente laica, proprio per lasciare lo spazio alle diverse convinzioni.
È questo valore post cristiano che dovremmo sostenere per noi e magari essere capaci di diffondere e magari esportare.

Gina Sussa          

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