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NOMADISMI ITEM

Un articolo-intervista con Hakim Bey, costruita assemblando liberamente quanto emerso dalle conversazioni a Radio Onda Rossa, Radio Città Futura e Forte Prenestino nella giornata di Venerdì 6 giugno.
Testo di MarziAno, traduzione di Syd Mygx.

"Il caos è vita. Tutto il disordine, la rivolta di colori, tutta l’urgenza protoplasmatica, tutto il movimento è caos. Da questo punto di vista, l’ordine appare come morte, cessazione, cristallizzazione, silenzio alieno".
Bastano poche parole per sintetizzare l’anarchismo ontologico, radicale di Hakim Bey. Il pensatore americano che si è servito fino ad oggi di uno pseudonimo per rimanere nell’ombra (il suo vero nome è Peter Lamborn Wilson), per sottrarsi alla spettacolarizzazione dei mass-media, è in questi giorni in Italia. Hakim Bey è autore di Taz (Zone Temporaneamente Autonome), un testo base per afferrare il concetto di "nomadismo psichico", inteso come abbandono delle appartenenze familiari, nazionali geografiche, di gruppo politico, alla ricerca di nuove possibilità nella costruzione dei rapporti umani e nei confronti del potere. Il pensiero di Hakim Bey prende corpo alla metà degli anni 80 con l’espandersi della rete telematica e l’uscita dei primi testi Cyberpunk. Dalle "Isole nella rete", il salto alle isole nella realtà è breve.
Secondo Bey, in un mondo interamente occupato dai confini degli stati-nazione, il potere ha bisogno di "cartografare" il territorio, di tracciare delle mappe per esercitare il suo dominio. Ma le mappe, per quanto esatte non sono mai perfette. Tra queste e la realtà si aprono così dei buchi, delle falle, dei quid-spazio temporali incontrollati in cui le Taz possono fiorire. Sono questi momenti di festa, di gioiosa convivialità, in cui riscoprire il gusto della gratuità e del dono reciproco, ma anche azioni improvvise di rottura e sabotaggio. Per questo la Taz è sempre in movimento e scompare con la stessa facilità con cui appare, prima di essere tracciata dagli apparati psico-polizieschi. Accanto e intrecciata a questo tipo di riflessione, scorre la critica del Media (plurale, ma declinato al singolare), come strumento che oggettivizza la realtà, e la costruisce su una sola dimensione, impedendo un accesso diretto all’esperienza e alla comunicazione interpersonale. Alla comunicazione verticale, Media-ta e alienata, Bey soprattutto nei Saggi sull'immediatismo (Shake Underground, 1995) contrappone una comunicazione orizzontale, immediata, basata sul contatto fisico diretto.
L'immediatismo come pratica, come gioco che rifiuta di essere Media-to non rischia di essere oggi anti-storico? In altri termini, il rifiuto radicale di una tecnologia falsamente neutra, non rischia di portarti fuori strada in un mondo che si serve sempre più della tecnologia per comunicare, anche orizzontalmente?
In un certo senso sì, ma in un altro, no. Non ho mai detto che i media siano sempre cattivi, sarebbe una semplificazione eccessiva. Tutto è mediato; la stessa conoscenza che abbiamo del mondo è mediata dai sensi. La questione è se la mediazione può essere utile per arrivare all’esperienza diretta o se al contrario ci allontana da essa. L’immediatismo era un’idea sperimentale di studio, non un dogma, che proponeva di usare i media contro la mediazione. Il problema con cui dobbiamo convivere oggi è quello della tirannia esercitata dalle immagini; dopo la caduta dei muri il capitale è diventato il suo stesso media e tutto ciò che avviene è sussunto istantaneamente nella mediazione globale delle immagini mercificate. E indispensabile allora sviluppare una critica dell’immagine in difesa dell’immaginazione. Non potremo mai avere un’immaginazione completamente pura e incontaminata (neanche mi interessa), ma ci sono vari gradi di sussunzione nel Media. Tra la purezza e la sussunzione totale, ci sono dei livelli intermedi in cui sperimentare il piacere dell’autonomia, delle cosiddette libertà empiriche, come le chiamano gli zapatisti. Quando suggerisco di scomparire dai media, non intendo avviare un processo di auto-cancellazione. Credo piuttosto nel potere del non-visto, che non è l’invisibile o lo scomparso, ma potrebbe essere qualcosa che non è ancora stato visto, che si potrebbe vedere se si prestasse attenzione; qualcosa che forse sta aspettando il momento giusto per ricomparire. E quindi paradossalmente il potere del non-visto, si potrebbe trasformare nella forza della ricomparsa.
Nei saggi sull'immediatismo tu dividi i media in diversi settori e stabilisci una gerarchia in base al grado di libertà e di immaginazione consentito da ciascuno di essi. Secondo un giornale come Torazine invece (la rivista che ha invitato Bey a Roma, ndr) ogni forma comunicativa può essere ugualmente espressiva a seconda di come viene impiegata. Anzi solo attraverso la creazione di un flusso fortemente contaminato tra i diversi linguaggi si può superare la paralisi...
Sì, teoricamente è possibile lavorare dall'interno dei media, per sconvolgerli, magari scivolando ambiguamente tra il linguaggio di un media e un altro. Ma la mia esperienza storica, mi dice che questo finora non è mai avvenuto, almeno in America, dove i mass-media hanno sempre recuperato ogni impulso creativo, persino quelle tecniche di deturnamento, inventate a scopo rivoluzionario dai dadaisti o dai situazionisti. Lo ha fatto recentemente anche la Pepsi ricoprendo un cartellone pubblicitario con della vernice finta, mentre in basso campeggia una scritta simile a un graffito che recita l’immagine è nulla. Questo è proprio il mio messaggio, il che è terrificante, perché significa che l’agenzia pubblicitaria capisce perfettamente quello che voglio dire. E una specie di incubo alla Lewis Carroll di Alice nel Paese delle Meraviglie, dove qualche strana bestia ti cammina dietro ansimandoti sul collo...
Ma io non mi riferivo alla possibilità di conquistare dall’interno i grandi media, che appartengono per definizione al Capitale, ma di utilizzarne il linguaggio per lavorare orizzontalmente, servendosi delle tecnologie avanzate a basso costo che il Capitale stesso diffonde sempre più su larga scala...
Se parliamo dei nuovi media, ti rispondo che anche questi media, che io chiamo intimi, non ti consentono di lavorare su larga scala. Guardiamo alla storia del cinema ad esempio. Oggi per produrre, ma soprattutto per distribuire un film hai bisogno di raggiungere un certo grado di perfettibilità tecnica. Il che ci impedisce di fare film che siano visti da un pubblico ampio. Negli anni 60 c’erano a New York diverse sale che proiettavano film sperimentali, anche europei, oggi tutto questo è finito. Se poi guardiamo ad Internet, forse possiamo dire che esiste ancora uno spazio vuoto, tattico, entro cui muoversi, mentre i Titani dell’informatica si scontrano. Ma quello che all’inizio era uno spazio pubblico viene a poco a poco privatizzato e lo spazio tattico adesso si è trasformato in una specie di rovina romantica in mezzo alla città cyberspaziale. Oggi ho seriamente ridimensionato l'ottimismo che nutrivo dieci anni fa rispetto a Internet. La Rete, la Tela e la Contro-Rete.
In Taz definivi con questi tre termini, la Rete ufficiale, quella contro-culturale a basso costo e le azioni di pirataggio e saccheggio della Rete ufficiale. Come si sono evoluti oggi questi tre strumenti?
Quel tipo di analisi era completamente sbagliata. Il web, che doveva essere la rete contro-culturale si è trasformata in quella ufficiale, la Rete si è trasformata invece nella Contro-Rete e così via. Quella fu la parte meno riuscita del libro, che si potrebbe tranquillamente cestinare. Non dobbiamo dimenticarci che molti dei nuovi media trovano la loro origine nella tecnologia militare. Una tecnologia che viene prodotta per non essere consumata. Il costosissimo progetto dello scudo stellare ad esempio, è stato realizzato per non essere usato, ma a scopo di deterrente. Questo tipo di metafora può essere utile anche a descrivere Internet. Come mai non ci sono soldi in Internet? Come mai i soldi finiscono sulle Intranet, come la Swift, la rete telematica usata dalle banche? Quel rimasuglio di spazio pubblico che non può essere cancellato dalle Reti, verrà così incluso nelle Cyber-cities e ridotto a un semplice mercatino di quartiere cyberspaziale, economicamente impotente e quindi invisibile, scomparso. Nei rave si raggiungono momenti di forte interazione e di ritorno a una comunicazione primitiva, molto semplice, attraverso una musica prodotta da un computer e dalla moderna tecnologia.
Cosa pensi dei rave illegali contemporanei?
C’è una frontiera che ci si pone davanti ogni volta che si guarda alla tecnologia da un punto di vista legale e che è impossibile attraversare. La persona che si trova davanti a questo problema diviene un significante galleggiante. Nel momento in cui è possibile praticare l’illegalità si vive una forte gioia. Quello che mi preoccupa è quello che avviene il giorno dopo o un mese dopo, quando arriva la Pepsi-Cola. Cosa fare allora? Continuare a ritirarsi, seguendo il punto di fuga di questa frontiera che si allontana sempre di più, un’infinita ritirata tattica? Oppure a un certo punto arriva il momento in cui è necessario fermarsi e difendere la posizione che si è conquistata? Credo che la questione che il movimento dei rave illegali si troverà ad affrontare sia proprio questa, se continuare a ritirarsi o se scontrarsi col muro di mattoni della legge. Del resto non possediamo alcuna arma atomica per affrontare uno scontro in campo aperto.
Per te la libertà è un processo cinetico di liberazione, un continuo sollevamento che attraversa vari stadi. Che cosè per te il nomadismo, a livello fisico e psichico?
Nel momento in cui è il Capitale stesso a divenire una forza nomadica, ci sono due maniere di riteorizzare il nomadismo. Si può rispondere con una strategia nomadica, attraverso organizzazioni che riuniscono i profughi ad esempio (come sta avvenendo in Europa, se non sbaglio). O, al contrario, si può rispondere con una strategia non-nomadica. Gli zapatisti desiderano essere indiani Maya, non cyberpunk o profughi, e rifiutano la globalizzazione. Questo è ciò che chiamo diversità non-egemonica. E se consideriamo che l’anno scorso gli zapatisti hanno chiamato a raccolta persone da tutto il mondo nel convegno contro il neo-liberismo, vediamo come le due tattiche in realtà possono essere combinate, costruendo una federazione di diversità non egemoniche. Un concetto questo estremamente interessante, su cui intendo lavorare molto. Peraltro mi sembra che la maggior parte delle cose interessanti prodotte su Internet vengano da popoli indigeni. Negli anni 60 discutevamo se ci fosse per questi popoli la possibilità di saltare a piè pari gli orrori della civilizzazione per costruire direttamente una civiltà post-industriale. Forse è proprio quello che, stranamente, sta avvenendo oggi... Molte persone - artisti e non - considerano il proprio corpo come testo, che può essere liberamente modificato attraverso la tecnologia.
In una recente intervista rilasciata a Decoder tu invece sembri voler ricondurre il corpo alla sua purezza. Per essere autonomi - sostieni - è indispensabile avere un corpo fisico, materiale, mortale, che sia libero dalla tecnologia e dall’immortalità spuria del cyberspazio. Qua’è il rapporto che si istituisce oggi tra corpo e tecnologia?
La purezza non mi interessa in nessun caso. Non c’è modo di riportare il corpo alla sua purezza originaria, bisognerebbe tornare al neolitico e abbandonare anche le pietre a quel punto. Non propongo un neo-primitivismo, tutto ciò che è estensione del corpo è già tecnologia. Se ci interroghiamo sul data-body, sul corpo-informazione, dobbiamo chiederci innanzitutto su chi sia il proprietario di questo corpo. Se potessimo realizzare un data-body libero dal capitale, si potrebbe discuterne, ma non mi sembra che la storia vada in questa direzione. Se il corpo scompare nella tecnologia, riappare in forma di merce. Il corpo-data è completamente trasparente rispetto alle tecniche di sorveglianza e alle modificazioni. Anzi è stato progettato proprio per questo. Si torna così alla vecchia, polverosa domanda, su chi sia il proprietario dei mezzi di produzione. Per gli artisti, per la piccola elite che può trasformarsi in data-body, si pone dunque il problema della scomparsa nel Capitale globale. E il passo seguente è quello della bio-tecnologia, dove le grandi aziende possiedono il copyright del Dna umano. Una sentenza di un tribunale americano ha già sancito che non ci si può proclamare proprietari dei diritti sul Dna del proprio corpo. Quello che ancora non si sa è se esso possa appartenere alle grandi corporation. Ma le popolazioni del Terzo mondo sono già costrette ad acquistare i semi delle multinazionali, altrimenti infrangono i diritti sul copyright. Se questo è l’unico futuro per il corpo umano, mi chiedo se ci sia da far festa.
Il tuo ultimo libro, Utopie Pirate (Shake, 1996) studia anche l’esoterismo rinascimentale e sviluppa una visione libertaria del rosacrocianesimo. L’esoterismo può avere ancora oggi una capacità di liberazione?
Una risposta netta non è possibile, è necessario distinguere prima diversi tipi di esoterismo. L’esotersimo delle origini coincide ad esempio con lo sciamanesimo. Lo sciamano non è un prete, non è un mediatore tra l’uomo e il Paradiso, ma sperimenta direttamente un rapporto con spiriti e forze, rendendoli presenti al resto della tribù. Possiamo ipotizzare che esista una sorta di tradizione segreta che prosegue da quel tempo e che ha che vedere con i veri desideri umani, con l’esperienza empirica diretta. Questo tipo di conoscenza continua a riapparire nel corso dei secoli anche se non c’è una trasmissione diretta di maestro in maestro. In questo senso possiamo parlare di un rosacrocianesimo di sinistra, che rifiuta la mediazione cristiana e protestante in favore dell’esperienza diretta. Da un punto di vista antropologico potremmo dire che lo sciamanesimo continua a tornare nella storia, sebbene noi lo associamo a qualcosa di pre-storico. E secondo me continua a tornare anche oggi, il che è estremamente importante.

Monday 9 June 1997 21.47.22
From: Marzi Ano
Subject: Intervista a Bey


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