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L'ULTIMO SPETTACOLO
Il divenir mondo della merce, che è anche il divenire merce del mondo
La celebre previsione di Guy Debord

Per il senso comune socialdemocratico attualmente al potere, la storia dell'ultimo secolo appare divisa approssimativamente in tre periodi. Dalla democrazia a base ristretta dell'inizio secolo si sarebbe passati alla terribile regressione dei totalitarismi di massa, per poi approdare alla felice sintesi dialettica della democrazia diffusa e pienamente realizzata. Questa visione suppone l'idea di un progresso di cui ora staremmo cogliendo i frutti maturi nell'euforia del libero mercato mondializzato. Essa accentua tutti gli elementi di discontinuità fra i tre momenti, come se l'uno fosse il "superamento" dell'altro, e ognuno realizzasse un salto di qualità rispetto al precedente. In particolare, la democrazia post-bellica è stata rappresentata come antitesi del totalitarismo da essa vinto. Siamo venuti al mondo con la convinzione che un abisso ci separasse dal mondo dei nostri padri, in un'epoca nuova. E' merito di Guy Debord aver posto in discussione questa lettura illusionistica e mediatica della storia. Le sue considerazioni e quelle di Walter Benjamin delineano una diversa cronologia. All'inizio del secolo la fantasmagoria delle merci degrada ogni valore d'uso di fronte all'essenza immateriale e soprasensibile del denaro, trasforma ogni vita in immagine fascinatoria, buona a esibirsi sul mercato. Segue l'epoca dello spettacolare totalitario, con la sua scenografia di massa, la sua ebbrezza collettiva, il rapporto sciamanico col capo: "Nel suo spettacolo... ciascuno deve identificarsi magicamente a questa vedette assoluta, oppure scomparire" (Debord). E infine lo "spettacolare democratico" con le sue tecniche raffinate di manipolazione e consenso e la compiuta trasformazione della realtà in simulacro, messa in scena, virtualità senza corpo: "Lo spettacolare diffuso accompagna l'abbondanza delle merci, lo sviluppo non perturbato del capitalismo moderno... è in questa lotta cieca che ogni merce, seguendo la sua passione, nell'incoscienza realizza in effetti qualcosa di più elevato: il divenir mondo della merce, che è altrettanto il divenire merce del mondo" (Debord). Accettando questa periodizzazione e le sue categorie di riferimento, non è possibile postulare nessun salto qualitativo, nessuna differenza essenziale fra i tre momenti: essi sono fenomeni diversi di una stessa matrice originante, apparizioni successive del medesimo essere della merce. La società dello spettacolo si prefigura a cavallo tra Ottocento e Novecento nell'uso della pubblicità, della moda, delle esposizioni universali, dei giornali; afferma la sua piena potenza nelle tecniche mediatiche e rappresentative dei regimi totalitari; porta a compimento l'estetizzazione e l'immaterialismo della vita nella democrazia postbellica. Certo, è importante comprendere la differenza tra i meccanismi di dominio e di produzione economica dominanti negli anni Trenta e quelli attuali. Il postfordismo e l'automazione elettronica hanno introdotto modifiche decisive nel modo di produzione delle merci e nel modo di essere dei soggetti; il che però non autorizza a parlare di un'epoca post-moderna, o post-capitalistica, o post-storica. In un saggio di qualche anno fa, il collettivo della rivista "Luogo Comune" ha indicato affinità e differenze tra il fascismo storico e quello che esso definisce "nuovo fascismo". Il primo è stato caratterizzato da un'intromissione dirompente dello Stato nell'economia e nella quotidianità; il secondo, "è una risposta patologica alla progressiva dislocazione extrastatale della sovranità e all'evidente obsolescenza che contraddistingue ormai il lavoro sotto padrone". Il nuovo fascismo è una risposta alla liberazione possibile dal lavoro e all'uso comunitario delle tecniche e delle risorse. Il suo ambito proprio non è lo Stato, né la fabbrica, ma la terra sempre più vasta in cui l'uomo si forma (o si deforma) nel non lavoro, in una socialità fatta di "attitudini, competenze, saperi, gusti, inclinazioni maturati nel vasto mondo, al di fuori del tempo specificamente dedicato al 'travaglio'". Questa immensa potenziale libertà viene sottomessa e deviata nelle forme di dominio del nuovo fascismo. Tuttavia è proprio qui che questo ritrova ideologie, miti e figure di quello storico: "Il fascismo di fine secolo... dà un'espressione diretta alla 'cooperazione eccedente': ma un'espressione gerarchica, razzista, dispotica. Della socializzazione extralavorativa fa un ambito sregolato e ferino, predisposto all'esercizio del dominio personale; vi insedia i miti dell'autodeterminazione etnica, della radice ritrovata, del 'suolo e sangue' da supermarket; ripristina tra le sue pieghe vincoli familisti, di setta o clan, destinati a conseguire quel disciplinamento dei corpi cui più non provvede il rapporto di lavoro". Pur nell'immensa differenza di funzioni e forme, è però legittimo dire che tra i due fascismi esiste una comune ispirazione totalitaria e mitica; ed è proprio per questo che a entrambi i casi calza il termine "fascismo". In più di un ambito, la visione della vita intravista e progettata dai totalitarismi ha trovato la sua realizzazione moderata ma universale nella società dello spettacolo del dopoguerra. Finita la guerra fredda, lentamente è emersa la consapevolezza che i campi di sterminio e i gulag (il loro "trattamento" verso i corpi e l'identità degli internati) sono stati la prova condensata ed estrema di una concezione del vivente poi diffusasi su scala planetaria e quotidiana. Non sono dunque l'orrore finale di un'epoca in declino: ma l'atto centrale, fondativo del nostro secolo e del suo rapporto col cosmo. I profughi del Kosovo (come i Kurdi deportati a Istanbul, o i Serbi fuggiti dalla Krajna), perseguitati dai fascisti di Milosevic, utilizzati come carne da cannone spettacolare dai regimi socialdemocratici europei, sono sempre più simili ai "musulmani" dei campi di sterminio, gli internati giunti a perdere ogni residuo di dignità umana. Un "terzo regno" tra vita e morte viene oggi riproposto dalla cronaca: migliaia di profughi sono stati fermi a lungo, in una terra di nessuno tra Serbia e Macedonia. Non potevano tornare in Kosovo; non gli veniva permesso di andare avanti; per giorni senza cibo, senza vestiti, hanno perso, tra le due polizie di frontiera, l'ultimo resto di dignità umana, macellati contemporaneamente dal fascismo etnico e dall'"umanitarismo" dell'Alleanza occidentale. Ma non è forse vero che la tecnica può portarci da sola in un luogo edenico, post-capitalistico, post-moderno, o addirittura post-storico? Questa vecchia utopia si affida di recente alle "comunità virtuali elettroniche", che aprirebbero uno spazio di democrazia assoluta e una rete di intelligenza collettiva. Qui non ho a che fare con le immagini eterodirette dello spettacolo. L'altro interviene qui direttamente e autonomamente, inserendo, per così dire, una sua "marca" specifica, che viene a contribuire al pensare comune; può rispondere e reagire - quasi in tempo reale - al mio messaggio, modificando incessantemente l'assetto attuale della rete. Una struttura comunicativa relativamente stabile si coniuga a una costante apertura, a una metamorfosi incessante in nuovi possibili e nuove figure. La comunità virtuale può addirittura essere paragonata a un'intelligenza angelica, a un intelletto agente, come quello descritto dalla filosofia araba del medioevo: "Immergendo il mio o i miei corpi diafani nel mondo virtuale, io percepisco con uno stesso movimento non solo quello che già so, ma anche il ventaglio dei saperi possibili che mi sono ancora estranei e lo resteranno forse per sempre: i saperi, le idee e le opere degli altri. Il mio corpo angelico nel mondo virtuale esprime il mio contributo all'intelligenza collettiva..." (P. Levy). Nella "comunità virtuale" - si dice - sono esposto continuamente alle potenzialità del discorso e dell'essere degli altri. Non mi è possibile comprenderle e attualizzarle tutte: ma vivrò continuamente nel mezzo di un essere-in-potenza, sulla cresta del mare dei possibili, eternamente al punto d'incrocio di percorsi multipli. La mia identità non è fissa, unilaterale, in atto una volta per tutte; non imita più un modello unilaterale e un cliché univoco. L'Io si apre a un plesso di identità possibili, alla varietà dei sentieri, che sceglierò di percorrere nel mare comunicativo dell'intelligenza collettiva. Sarò disponibile a un'esperienza interminabile dell'altro, che concorre a orientare la mia "navigazione" e interferisce attivamente con essa: "Nello spazio emanato dall'intelligenza collettiva, io incontro così l'altro essere umano, non più come un corpo di carne, una posizione sociale, un proprietario di oggetti, ma come un angelo, un'intelligenza in atto - in atto per lui ma in potenza per me" (P. Levy). La potenza e il possibile accompagnano intimamente ogni mio atto singolo, ne sono per così dire l'interfaccia permanente e liberatoria. La comunità virtuale potrebbe tendere a divenire reale, se il suo modello non fosse il movimento delle merci e del danaro alla velocità della luce. Per ora, l'intelligenza collettiva effettivamente agente è quella dei mercati finanziari globali, il cui funzionamento recente sarebbe impensabile senza di essa. Tuttavia ci si può chiedere se l'altro con cui entro in questo caso in rapporto non sia preventivamente amputato o un fantasma, piuttosto che un angelo. Il corpo può davvero essere così indifferente e superfluo alla mia comunicazione? Nella comunità finanziaria elettronica, ognuno inserisce la marca della sua intelligenza, ma svanisce ogni espressione della natura mimetica, gestuale, fisiognomica, dell'uomo: si oscura la tensione del linguaggio verso il non espresso, il mimetico e l'inconscio, che circondano come un alone ogni atto linguistico. Perfino nella prosa scritta - diceva Benjamin - il ritmo della frase sembra rinviare a quello del respiro, alla fisiologia profonda dell'autore: e nel linguaggio si deposita un patrimonio di metafore e di "somiglianze immateriali", che lo legano all'esperienza mimetica del corpo. Una comunicazione autentica conduce sempre alla soglia in cui s'incontrano la coscienza e la corporeità. Il fantasma virtuale è invece splendidamente parziale, sempre attivabile, incontaminato dall'assenza e dalla privazione, assolutamente aderente all'astrattezza del danaro e del credito. L'esperienza in tempo reale abolisce l'esperienza reale dell'altro: "Se il pensiero collettivo è lacunoso poiché essi dormono, sono malati, affaticati o in vacanza, l'intellettuale collettivo non si spegne mai. Quando uno spirito scivola nel sonno, cento altri vegliano e prendono il suo posto. In questo modo il mondo virtuale è perennemente illuminato..." (Levy). Ed è questa l'immagine teologica, soprasensibile, con cui il mercato finanziario guarda a se stesso. Ha forse bisogno di penosi supporti filosofici come quelli di Fukuyama o degli apologeti del postmoderno? Per nulla. L'intellettuale collettivo si pensa come un assoluto realizzato e ormai del tutto immanente. Questa presenza abbacinante annienta piuttosto che valorizzare la singolarità irripetibile. L'ossessione della veglia e della luce, l'ipertrofia dello spirito nella cultura dell'Occidente, sembra qui trovare la sua estrema realizzazione. Certo, si può attenuare la radicalità di una simile conclusione: "Perché, bisogna sottolinearlo, il mondo virtuale è solo il supporto di processi cognitivi, sociali e affettivi che si sviluppano tra persone reali... Dovrebbe consentire alle persone che lo desiderano di rintracciarsi a vicenda e di allargare il cerchio delle proprie relazioni di amicizia, professionali, politiche o altro" (P. Levy). Qui vengono pacificamente sovrapposti due modi conflittuali di intendere la comunità virtuale e la comunicazione elettronica. Il modello attualmente più importante - quello legato alla velocità delle transazioni finanziarie - impone la sua tendenza più o meno direttamente a ogni altro uso possibile e si muove univocamente verso la trasformazione di ogni rapporto materiale in segno virtuale. L'intelletto agente del mercato non si trasforma docilmente nel supporto di "processi sociali e affettivi"; il funzionamento ottimale del mercato finanziario e delle carte di credito tende piuttosto a smaterializzarli sempre più compiutamente. L'uso critico della rete tenderebbe invece in direzione opposta, verso la riconversione possibile del dialogo virtuale in relazione sociale concreta. La prima tendenza è tanto più efficace quanto più consuma il nesso sociale a favore di quello virtuale; la seconda, quanto più è capace di tradurre il linguaggio virtuale nella costruzione di un nuovo rapporto sociale. Nel primo caso l'incremento della velocità comunicativa è il valore assoluto e primario; nel secondo, è misurato e limitato dalla sua possibilità di convertirsi ad ogni passo in esperienze di relazione. L'intelligenza critica collettiva ha una logica e una temporalità diverse da quella finanziaria, e usa in modo opposto gli stessi strumenti tecnici.
Che prevalga l'una o l'altra, non dipende in ultima analisi dalla tecnica stessa, ma da chi ha il potere di disporne.

Mario Pezzella


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