BOLIVIA

Stati Uniti elogiano l'ex-Presidente assassino (rifugiato a Miami)

La Casa Bianca loda il presidente in fuga: «Un vero democratico»
Bolivia, elogio del massacro
Si «rammarica» il Dipartimento di Stato Usa «per le circostanze che hanno portato alle dimissioni del presidente Sanchez de Lozada» e lo «loda per il suo impegno per la democrazia e al bene del suo Paese». Washington non si entusiasma per il l'interim affidato dal parlamento al vice del fuggiasco, l'affidabilissimo Carlos Mesa, ma dice di comprendere che, d'altra parte, «questo prevede la Costiuzione boliviana».

Si spertica in congratulazioni con il vecchio proprietario di miniere che dalla sua residenza privata ha ordinato all'esercito di sparare sulla folla disarmata. Non conta i centoquaranta morti di piazza. Gli offre asilo a Washington.

L'elicottero presidenziale si alza in volo verso gli States (prima stazione Miami) e una squadra di esperti
del Pentagono arriva a la Paz. Compito ufficiale: valutare se l'ambasciata statunitense ha bisogno di maggiore protezione o se deve essere sgomberata. Fatto sta che gli inviati sono sei, militari esperti ai quali curiosamente Rumsfeld avrebbe affidato una perizia sulla tenuta dei portoni blindati. I cittadini statunitensi residenti in Bolivia scrivono una lettera aperta all'amministrazione Bush: evitate un intervento diretto a la Paz.

Il Parlamento boliviano affida l'interim al vicepresidente Carlos Mesa, stesso partito di de Lozada, meno amici del predecessore, qualche perplessità sull'esercito in piazza, ma nessun riconoscimento politico alla straordinaria mobilitazione sociale che, opponendosi al progetto dell'esportazione e privatizzazione del gas naturale, ha fatto precipitare la crisi politica. Non risponde al movimento che chiede «assemblea costituente subito», né alla centrale operaia che gli invia un decalogo da rispettare (pubblicato qui a lato n. d. r. ) «altrimenti lo sciopero ricomincia». Propone però di convocare elezioni anticipate, come chiesto da Morales, leader del movimento indio. «La Bolivia non è ancora un paese egualitario. Dobbiamo capire i nostri popoli, le nostre popolazioni indigene» è stata la sua frase di debutto. I carri armati non sono più in strada, ma l'esercito è all'erta. Il nuovo presidente parla di elezioni e ma nella sostanza annuncia alla popolazione in rivolta la stessa misura proposta da de Lozada e già rifiutata: un referendum contro il gasdotto. Rischiosissimo in un Paese che due anni fa ha visto ribalatre il risultato delle presidenziali con una truffa benedetta dall'ambasciata di Washington.

In Parlamento il presidente della commissione sui diritti umani si alza e giura che la Bolivia saprà processare i suoi genocidi anche se riparati all'estero, ma intanto De Lozada fa recapitare un'interessante lettera ai deputati: «Vi avverto che i pericoli che minacciano questo paese restano intatti».

Ang. N.  
http://www.liberazione.it/giornale/031019/default.asp