INDONESIA La solita novella del pericolo comunista | |
Il 20 maggio del 1998 il segretario di stato americano, Madeleine Albright, ha chiesto al presidente Suharto di rassegnare le dimissioni per aprire la strada a una "transizione democratica". Poche ore dopo il generale trasferiva i poteri al vice-presidente, che lui stesso aveva designato. Anche se i due eventi non sono in uno stretto rapporto di causa-effetto, illustrano bene la natura delle relazioni tra gli Stati uniti e l'Indonesia negli ultimi cinquant'anni. Quattro mesi prima delle dimissioni, una pubblicazione australiana aveva riportato la seguente scena: davanti al "direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi), Michel Camdessus, in piedi con le braccia conserte, alla coloniale, Suharto firmava un nuovo accordo con il Fmi". La foto che illustrava "l'umiliazione di Suharto" fu "pubblicata l'indomani dalla stampa indonesiana". La sua valenza simbolica non sfuggì a nessuno. Suharto ha potuto contare sull'appoggio degli Stati uniti e degli altri governi occidentali da quando ha preso il potere, nel 1965. Per sostenere il suo regime fondato sulla violenza, la Casa bianca ha costantemente aggirato le restrizioni del Congresso americano agli aiuti militari e all'addestramento delle forze armate. L'amministrazione Clinton ha pure sospeso il monitoraggio delle spaventose condizioni di lavoro nelle fabbriche indonesiane che producono per gli Stati uniti. Anzi, si è complimentata con Jakarta per avere reso tali pratiche "più conformi alle norme internazionali"! La caduta del generale Suharto si inserisce nel solco di una tradizione ormai familiare: Mobutu Sese Seko, Saddam Hussein, Ferdinando Marcos, Anastasio Somoza, la famiglia Duvalier. In generale, gli americani abbandonano i loro protetti perché disobbediscono o perdono il controllo della situazione. Nel caso di Suharto le due spiegazioni convergono: prima il rifiuto di obbedire agli ordini del Fmi, che imponevano un nuovo giro di vite alla popolazione. Poi, l'incapacità di contenere la rivolta sociale. Il dittatore aveva semplicemente smesso di essere utile.
L'obiettivo fu raggiunto quando, con l'appoggio americano, il generale Suharto prese il potere nel 1965. I massacri, organizzati dall'esercito, liquidarono il Pki e sfociarono su "una delle peggiori stragi del XX secolo", come ammise la stessa Cia, paragonabile alle atrocità di Hitler, Stalin e Mao. Un rappporto dell'agenzia di spionaggio americana ricordava che "il colpo di stato in Indonesia" fu "sicuramente uno dei principali eventi del secolo" (4). In pochi mesi circa 500.000 persone furono massacrate.
"Secondo ex-diplomatici americani il governo USA giocò un ruolo importante (nel massacro NdC) fornendo i nomi di migliaia di dirigenti del Partito Comunista all’esercito indonesiano, che li ricercò e li uccise… furono dati ai militari almeno 5.000 nominativi e più tardi gli americani, secondo funzionari Usa, controllarono i nomi di coloro che erano stati uccisi o catturati... Gli elenchi - dichiaro [il funzionario del Ministero degli Esteri Robert Martens - erano veri e propri organigrammi della leadership del partito di tre milioni di iscritti. Quelle liste comprendevano i nomi dei membri di comitati provinciali, cittadini e locali del Pki, e dei leader delle "organizzazioni di massa", quali la federazione nazionale dei lavoratori del Pki, le associazioni delle donne e quelle giovanili". Gli elenchi venivano trasmessi ai militari che li usavano come una "lista dei condannati a morte", sostiene Joseph Lazarsky, all'epoca vice capo della Cia a Giakarta, secondo il quale alcuni erano trattenuti per essere interrogati o per mettere su dei "processi-farsa" solamente perché gli indonesiani "non avevano abbastanza squadre della morte per eliminarli tutti". Kathy Kadane scrive poi che alti funzionari dell'ambasciata Usa avevano ammesso, nel corso di alcune interviste, di aver approvato la consegna delle liste. William Colby (capo della Cia) paragono l'operazione indonesiana al Programma "Phoenix" in Vietnam, nel tentativo di giustificare quest'ultima campagna di assassini politici (quale era, nonostante le sue smentite, l'operazione "Phoenix"). "A nessuno importava che fossero macellati, fintanto che si trattava di comunisti", disse Howard Federspiel, allora esperto sull'Indonesia per i servizi del Dipartimento di Stato. "Nessuno se la prese poi molto". "In tal modo demmo un grosso aiuto all'esercito", aggiunse Martens. "Probabilmente hanno ucciso molta gente, e mi sono macchiato di molto sangue, ma non è tutto così negativo". "A volte bisogna colpire duro al momento giusto".
La notizia fu ripresa da alcuni giornali, ma nessuno ebbe molto da dire: era la solita storia. Dopotutto, l'ambasciata Usa dieci anni prima aveva agito nello stesso modo in Guatemala, dove ebbe luogo un'altra "utile" strage. Pur causando qualche breve irritazione, il documento fu presto dimenticato. Il giornale delle verità ufficiali, il New York Times, aspetto quasi due mesi prima di occuparsene, il tempo sufficiente per raccogliere le smentite necessarie. Il giornalista Michael Wines riporto tutti gli usuali luoghi comuni sull'accaduto della propaganda governativa, per quanto poco credibili fossero, come dati di fatto incontestabili. L'ambasciatore Green respinse il rapporto Kadane definendolo "immondizia". Secondo lui ed altri, gli Usa non ebbero nulla a che fare con le liste dei nomi, che comunque non erano importanti. A questo proposito Wines cita una lettera di Martens al Washington Post secondo la quale quei nomi si potevano ottenere facilmente dalla stampa indonesiana, tralasciando pero la sottolineatura dell'autore sull'importanza della consegna delle liste; Martens sostenne infatti di "non veder niente di male nel dare una mano" agli indonesiani, e così pensa ancora, perché "il terrore pro-comunista che porto al golpe... contro i capi militari anticomunisti... aveva impedito la raccolta sistematica di dati sui membri del Pki"; una storia fantasiosa, ma poco importa. Wines non dice nulla a proposito della celebrazione del massacro fatta dal Times, né dell'orgoglio dei suoi principali commentatori politici sul ruolo americano che l'aveva favorito. Stephen Rosenfeld, del Washington Post, fu uno dei pochi nella stampa nazionale a turbarsi per le rivelazioni di Kadane. Anche la sua reazione e molto istruttiva. In seguito alle rivelazioni di Kadane, il Post pubblico una lettera di Carmel Budiardjo, 1 attivista indonesiano per i diritti umani, secondo il quale la complicità diretta Usa nella strage era già emersa dai cablogrammi, pubblicati da Gabriel Kolko, tra l'ambasciata Usa a Giakarta ed il Dipartimento di Stato, ed in particolare dal carteggio Green-Rusk del quale abbiamo già parlato. Un mese più tardi, Rosenfeld manifesto una certa preoccupazione per il fatto che "nell'unico resoconto che ho letto" - cioè, quello di Kolko - vengono sollevati dei dubbi sul coinvolgimento dei comunisti nel presunto tentativo di golpe servito come pretesto per i massacri. Notevole l'aggiramento della questione principale, un colpo da maestro. Ma, continua Rosenfeld, "il tipico punto di vista revisionista dai-la-colpa-all'America [di Kolko] mi fa diffidare delle sue conclusioni". Rosenfeld sperava che "qualcuno dalle idee politiche più centriste setacci il materiale e dia un resoconto obiettivo". La sua invocazione di aiuto appari sotto il titolo, "Indonesia 1965: un anno vissuto cinicamente". Per sua fortuna, i soccorsi stavano già arrivando. Una settimana dopo, con il titolo "Indonesia 1965: l'anno dell'estraneità Usa", Rosenfeld scrisse di aver ricevuto per posta "il resoconto indipendente" di uno storico "senza pregiudizi politici" - cioè, in altre parole, qualcuno capace di rassicurarlo che lo stato da lui amato non aveva fatto niente di male. Questo rimedio era "pieno di delizie e sorprese", e concludeva che gli Usa non erano responsabili delle morti o del rovesciamento di Sukarno. "Il documento scagiona gli americani dal sospetto dannoso e persistente di essere responsabili del golpe e dei massacri indonesiani" e, conclude felice Rosenfeld: "Per me, il caso del ruolo americano in Indonesia e chiuso". Com'è facile la vita dei credenti. L'articolo che chiuse il caso, con immenso sollievo di Rosenfeld, fu la ricerca di Brands di cui abbiamo parlato prima. Del resto sul fatto che Brands sia un commentatore "indipendente" "senza pregiudizi politici" non vi sono dubbi: per lui la guerra Usa in Vietnam fu un tentativo "di salvare il Vietnam del Sud"; l'informazione arrivata a Washington secondo la quale "l'esercito ha praticamente distrutto il Pki" con un enorme massacro era una "buona notizia"; "il difetto più serio della guerra sporca" e "la sua inevitabile tendenza ad avvelenare il pozzo dell'opinione pubblica", cioè, di coprire gli Usa di "false accuse", etc.
L'Indonesia ritrovò i favori della Banca mondiale. I governi e le società occidentali si precipitarono nel "paradiso degli investitori", ostacolati soltanto dalla rapacità della famiglia Suharto al potere. Per vent'anni il presidente indonesiano sarà descritto dal settimanale britannico The Economist come "un moderato, in fondo un uomo benevolo", nel momento in cui accumulava un numero record di omici e generalizzava le pratiche del terrore e della corruzione a sistema di governo. il "pragmatismo" dell'Occidente L'Occidente si è anche complimentato con Suharto per i risultati economici del regime. Ma Clive Hamilton, uno specialista australiano che ha contribuito a elaborare i modelli macroeconomici dell'Indonesia, definisce le statistiche ufficiali "gravemente inesatte". Hamilton spiega, ad esempio, che il tasso di crescita annua ufficiale del 7% è stato inventato di sana pianta su ordine del governo, e non risponde affatto ai calcoli degli economisti (7). La crescita economica c'è stata davvero, ma grazie alle riserve di petrolio e alla rivoluzione verde, due cose che "neppure la grande inefficienza del sistema di corruzione ha potuto impedire". Tali vantaggi si sommano a quelli derivanti dall'estrazione di altre risorse naturali e dal basso costo della mano d'opera, sottoposta a livelli di sfruttamento che hanno impressionato persino gli Stati uniti. Gli altri risultati economici sono un puro miraggio, evaporato con la fuga degli investitori stranieri.
http://www.tmcrew.org/archiviochomsky/indonesia.html http://www.oikos.org/Politica/indonesia.htm
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