Diario di un soldato al fronte Russo.

Italia - Russia  Andata e ritorno

La guerra di Armando  raccontata da un nipote 

parte terza

E poi la guerra che non dava respiro. Guardie su guardie. Si dormiva per modo di dire perché i colpi di cannone non smettevano mai di rimbombare.Le granate, racconta, cadevano cosi vicina che la terra che alzavano ci colpiva dappertutto. Il nostro gruppo, in Russia, combatteva nella famigerata “ ANSA DEL DON”. Una grande insenatura appunto, dove i Russi riuscirono a spingerci non senza difficoltà. Eravamo come topi in gabbia. Avevamo il DON davanti a noi largo, il più delle volte gelato da temperature polare che mieterono forse più vittime delle pallottole stesse. Alle nostre spalle i cannoni dell’artiglieria Russa che ci respingevano sempre più verso il fiume. 

La situazione divenne in breve tempo disperata. Cominciarono ben presto a scarseggiare i viveri, per  la verità già esigui. Ma la cosa più grave fu che le munizioni iniziarono ad essere razionate. I rinforzi non riuscivano a bucare il fronte nemico, che ci circondava. Fu in questa situazione, ormai disperata che il nostro comandante di gruppo, il Maggiore Simeone Filiberto  di Campobasso prese una decisione che ai più apparve di totale insensatezza. Ordinò agli alpini l’assalto alla baionetta. In verità nessuno si tirò indietro, l’ordine fu rispettato dal corpo senza battere ciglio, cosi dopo 11 assalti all’arma bianca, guidati dallo stesso maggior che si offri volontario, riuscimmo a venire fuori da quella maledetta “ SACCA”.

Non saprei dire quanti persero la vita in quella battaglia, dice Armando, ma quando attraversammo il campo i morti erano veramente tanti. A tutti demmo sepoltura senza che nessuno desse l’ordine di farlo. In fondo quei ragazzi che avevano la nostra età si erano sacrificati per permettere a noi di tornare a casa e solo per puro caso noi non eravamo al loro posta.  Uscimmo dalla “ Sacca” il 17 Dicembre 1942. 

Fu quello lo stesso giorno in cui inizio “La Grande Ritirata dei soldati Italiani”. Personalmente durante la ritirata presi parte a molte battaglie, quella di Kalimena,  Miller Riv ,Dniepropetrosca, Napolovka, e altre di cui non ricordo il nome. 

Dico che presi parte a queste battaglie personalmente perché quando iniziò la ritirata i reparti si sbandarono e ci fu un vero e proprio “ Si salvi chi può”. Io fui fortunato, mi misi in fuga con pochi altri meno di dieci, e riuscimmo non senza pochi problemi, a ritornare in Italia. Ma detto così non ci si rende conto di cosa effettivamente significò la ritirati per noi soldati Italiani. Non saprei dire se ci decimò più il freddo o la fame o la stanchezza o il piombo dei cannoni. 

In più c’era il reale pericolo di essere catturato dai Russi ed essere trasportati nei campi di concentramento. Molti di noi ci finirono. Mi ricordo un nome su tutti: Tambow vicino Mosca.

Quei pochi che riuscirono a scappare e si unirono a noi, ci raccontavano di corpi sotterrati in fosse comuni a strati coperti di calce. Non ricordo quanti Km facemmo a piedi per tornare in Italia, ma una cosa la ricordo.

I miei amici furono costretti a portarmi su una rudimentale barella per molta ma molta strada a causa di una mia febbre improvvisa. Se sono ritornato in Italia lo devo a CARLO PODAVITI di Milano e GEREMIA EDMONDO di Pietra Vairano i quali non solo si preoccuparono di portarmi in barella, ma provvidero anche a procurarmi il cibo già insufficiente per loro stessi. 

Quando rimettemmo piede in Italia ( Aprile 1943) eravamo irriconoscibili, provati dagli stenti: Ci lanciarono fiori quando il convoglio, che ci caricò ci accompagno fino a Gorizia.

 Qui ci tennero per 21 giorni in contumacia. Ci rivesti,  nel vero senso della parola, il “ Fascio Femminile” della città. Ma la mia preoccupazione non era quella degli abiti, mi premeva trovare al più presto un sacerdote per la confessione e lo trovai in caserma ad Acqui in provincia  di Asti dove fui assegnato al 2° Reggimento di Artiglieria di Corpo D’Armata. Era il cappellano militare. Più di una confessione, fu un racconto alla fine del quale piansi. Era il 7 maggio del 1943. Difficilmente dimenticherò le parole di quel sacerdote. In fondo, pensai, anche il suo non doveva essere stato un bel mestiere in quel periodo. Il giorno 8 settembre mi trovavo a Serra di Rapolano ( Firenze) per bombardare Siena.

L’ordine, dissero, viene da molto in alto, ma le operazioni stranamente ritardarono. Ad un certo punto ci fu ordinato di inquadrarci, il Colonnello ci doveva parlare. Sulle prime pochi di noi capirono che il comandante con quel parlare difficile ci stava dicendo che l’armistizio era stato firmato e che la guerra era finita. Effettivamente una parola come “Armistizio” la si usava poco nel parlare comune e fu cosi al “ Rompete le righe” . Ci fiondammo dal capitano a chiedere spiegazioni. Non ricordo se piansi o risi e non ricordo neanche se ero felice.

Forse pensai a quello che avevo passato e alla fortuna che avevo avuto ad essere li quel giorno. Pensai sicuramente a casa e a come arrivarci. Da quel momento in poi lo sbando delle forze Armate Italiane, fu totale ed incontrollato. Ognuno pensò al modo più facile e breve per tornare ai propri cari. Io rientrai a casa di mio padre la mattina del 3 ottobre. E qui si ferma il suo racconto. Partirono per il fronte Russo 230.000 soldati, tornarono la metà, 43000 furono i feriti, 100000 i morti, 64000 i dispersi molti dei quali rimasero in Russia, tra il 45 ed il 54 furono poco più di diecimila gli Italiani tornati dalla Russia. La temperatura di – 30°, le granate nemiche e la fatica e la fame furono le cause di questa tragedia.

Un reggimento intero, il mio, fu decimato a tal punto che in Italia  rientrarono  solo in undici, io ero uno di questi. Armando conclude nel suo racconto, i giudizi non tocca a me darli. Per me fu solo una guerra e una guerra non è mai giusta, una cosa è certa, tutti, e non solo quelli che andammo in guerra, ci sentimmo partecipi di un’unica grande illusione: quella di essere una potenza invincibile capace di dettare legge anche fuori dei nostri confini. Non fu cosi ed è inutile dare colpe.

  “ Il diario manoscritto è custodito gelosamente dalla moglie”

Giuseppe Lombardi

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