Premessa dell'insegnante


Non è una novità quando per eccesso di semplificazione si individuano in Newton e Maxwell le due più grandi figure della cosiddetta fisica classica. E’ noto che i frutti del loro lavoro sono da ricercare in una semina che precede le loro scoperte. E’ risaputo che i due grandi scienziati sono all’origine dei due più importanti segmenti conoscitivi della scienza fisica, cosiddetta classica. Da questo punto di vista, si può istituire una diretta ed euristica analogia tra i due grandi. In particolare, si può dire che nel mentre Newton unificò i moti celesti con quelli terrestri, Maxwell operò, alla stessa maniera, unificando i fenomeni elettromagnetici e luminosi. Entrambi lo fecero alla grande, sintetizzando il tutto con lo stesso numero di equazioni che costituiscono il senso della loro teoria.

Ci chiediamo, tuttavia, se questo grande risultato è stato possibile per solo genialità e intuito oppure se essi si sono appoggiati ad altre grande figure della scienza. Se la storia della scienza non ci inganna la continuità delle scoperte degli studi tra i vari scienziati è una costante delle grandi conquiste e ciò si può verificare solo ed esclusivamente se ogni grande figura si è potuta appoggiare “sulle spalle” di altri giganti, che con i loro studi e le loro ricerche hanno potuto aiutarli.

Possiamo giustificare quanto introdotto mediante un parallelo, molto probabilmente audace, che riguarda questi giganti che hanno potuto aiutare Newton e Maxwell: essi sono Galileo e Faraday. A me sembra che parlare di queste due figure e ricordare il loro ruolo e il loro apporto è importante quanto il discutere di Newton e di Maxwell stessi. Da questo punto di vista, dunque, mi sembra doveroso che la riflessione storica e quella concettuale ricordi l’importanza di queste due grandi figure della scienza moderna. Il lavoro che segue comprende pochi esperimenti su Faraday (otto) e molti di più su Galileo (esattamente il doppio, cioè sedici). In particolare, viene messo l'accento sulla possibile analogia tra i loro due fondamentali esperimenti (intesi come *esemplari* kuhniani) del *piano inclinato* e dell'*anello toroidale*, quest'ultimo relativo al fenomeno dell'induzione elettromagnetica.

Su Galileo Galilei quasi certamente si è detto tutto. Penso che né la ricostruzione storica, né la critica epistemologica possano aggiungere altro. Non mi sembra possibile trovare ulteriori aspetti della vasta opera galileiana che possano permettere di aggiungere ancora qualche altra considerazione di particolare valore in grado di interessare ancora la critica storica galileiana. Da un punto di vista  poliziesco si potrebbe dire che “il caso è chiuso”. Ma allora, perché si è scelto di parlare di nuovo di Galileo? E’ possibile che si possa ancora dire qualcosa di nuovo o, meglio, di interessante su Galileo? E, soprattutto, perché un titolo così ambizioso e impegnativo come quello scelto sopra dell'«Oltre...»?

Senza voler essere presuntuosi dico subito che a mio parere è ancora possibile parlare di Galileo, soprattutto nella prospettiva di un lavoro didattico affrontato a scuola durante un normale corso di fisica. Non è per niente irragionevole pensare di parlare ancora di Galileo se lo scopo è quello di mettere a fuoco le “idee fisiche” galileiane e il ruolo privilegiato che esse hanno nel campo della formazione e dell’educazione scientifica sia dal punto di vista metodologico, sia dal punto di vista concettuale nel panorama della cultura scientifica che si persegue a scuola. A condizione, però, che si chiariscano le premesse e i limiti del lavoro che si intendono porre all’attenzione del lettore interessato.

Le premesse partono dalla considerazione che parlare in modo autentico di Galileo è possibile a condizione di adoperare il linguaggio che lui maggiormente preferiva e utilizzava nelle sue opere, cioè il linguaggio “degli esperimenti” su «esplicite e concrete» questioni di fisica. In poche parole questo significa che invece di parlare del Galileo del Dialogo  “si deve” parlare del Galileo dei Discorsi. Mi rendo perfettamente conto che questo spostamento di attenzione dall’opera del Dialogo a quella dei Discorsi non è solo un cambiamento di stile o di prosa, ma è soprattutto un cambiamento di trama concettuale, ovvero di contenuti. In verità, sono del parere che senza affrontare specificamente e direttamente la dimensione empirica delle leggi cinematiche, relative cioè al moto di caduta di un oggetto su un piano inclinato, a mio parere, non è corretto dire che si parla adeguatamente e significativamente di Galileo in modo galileiano. Lasciate che io mi appropri non solo del linguaggio galileiano, ma anche dei contenuti galileiani, perché altrimenti il rischio è che di Galileo parlino esclusivamente gli storici, i filosofi, i linguisti e tante altre categorie di studiosi ma non i fisici: il che sarebbe singolare, oltrechè paradossale! Dunque, la caratteristica di questo lavoro è quella di parlare di esperimenti che riguardano l’interpretazione fisica del moto galileiano sul piano inclinato, secondo il punto di vista della fisica, anche se in termini non esattamente fedeli a come Lui li trattò, perfino con varianti specifiche agli esperimenti da Lui effettivamente realizzati, ma sempre intesi in senso autenticamente galileiano. Si tratta cioè di discutere di un’abbuffata di esperimenti, perché di questo si tratta, (ben 16), che sviluppano tutti lo stesso tema in maniera "esemplare": il piano inclinato. Lo stesso discorso vale per Faraday: dunque non mi ripeterò.

I limiti di questo lavoro sono i limiti che normalmente ci si aspetta di trovare nel momento in cui si tenta di effettuare una analisi critica delle questioni e delle implicazioni che la tematica empirica pone sempre alla riflessione didattica sviluppata nel contesto di un lavoro svolto a scuola: poca attrezzatura di laboratorio, molte difficoltà a lavorare in laboratorio, poco tempo disponibile, poco interesse della collettività scolastica per questo tipo di lavoro effettuato interamente in laboratorio e in ore, cosiddette, impossibili per la loro realizzazione e sempre al di fuori della normale attività curriculare. Il perché di questa situazione ci porterebbe lontano e non è questa la sede per discuterne.

Il lavoro che qui viene presentato si articola in una collezione di esperimenti prima galileiani, e successivamente faradayani, tutti rivolti a presentare il moto di caduta di un “grave” su un piano inclinato e il fenomeno dell'induzione e.m. in chiave di massima semplicità, di completo rigore scientifico e di considerevole rispondenza storica.

I 16 esperimenti proposti dall’allievo Luca Conticelli seguono tutti la stessa impostazione metodologica: iniziano con una concisa dichiarazione di intenti, dallo studente chiamata «Ipotesi galileiana di lavoro» da controllare, proseguono con la presentazione delle tabelle di dati sperimentali prelevati in laboratorio durante le attività empiriche, dei relativi grafici cartesiani che hanno lo scopo di fornire uno sguardo di sintesi e si concludono tutti con il calcolo degli errori commessi e con una “assunzione di responsabilità” circa la validità dei risultati del processo di conferma empirica.

L’esposizione della teoria e l’impostazione degli esperimenti si ispirano volutamente ai lavori di Galileo e per quanto possibile (nei limiti di una trattazione scolastica) mantengono la visione galileiana dello studio del moto, a parte evidentemente il linguaggio che non è quello geometrico adoperato a quel tempo ma quello algebrico secondo la prassi moderna.

Per uscire un po’ dal vago delle assunzioni teoriche e dei propositi educativi diciamo che la ricerca sperimentale che segue prende l’avvio dalla definizione cinematica di moto rettilineo uniformemente accelerato, nel caso di moto incipiente, e si propone lo scopo di confermare empiricamente in tutte le salse e con molte varianti le quattro equazioni orarie di questo importante tipo di moto:

a=costante

v = a t

s =½ a t2

v= √2 a s  

con strumentazione ed apparecchiature molto semplici, alcune delle quali del tipo adoperato proprio da Galileo.

E adesso passiamo a Faraday. La prima cosa che mi sembra importante puntualizzare è che Faraday e Galileo vissero in contesti politici, temporali, geografici, sociali e religiosi diversi. Per cui, da questi differenti e non banali punti di vista è quanto meno azzardato poter proporre una analogia tra le due figure. In realtà in questa sede si vuole soltanto mettere a confronto i due soltanto per il loro apporto metodologico e i loro intenti scientifici. Nessuno pretende di vedere analogie e similitudini laddove non esistono. Sembra, tuttavia, che il loro ruolo, ancorché condizionato dalle diversità precedentemente accennate, possa trovare una possibile "affinità" non solo sulle loro scoperte, di grande valore euristico, che hanno permesso ai loro successori di utilizzarle come idee di base delle loro teorie, ma anche come costruttori dei fondamenti di una rivoluzione concettuale che culminerà, come detto, nelle due grandi teorie della Meccanica e dell'Elettromagnetismo classico.
Ma le analogie e le "identità" non si fermano qua. Non sembra fuor di luogo citare, per esempio, il fatto che ai loro tempi i due fossero delle autentiche autorità e, forse, i due più grandi scienziati del loro tempo. 

Per non parlare di un altro aspetto culturale che ha visto Galileo e Faraday accomunati dall'essere dei "linguisti" di notevole valore. Per esprimersi compiutamente, infatti, i due dovettero coniare un nuovo linguaggio scientifico, diverso non solo da quello matematico del tempo, ma anche da quello puramente descrittivo dello svolgersi degli eventi indagati. In altre parole, furono inventori di categorie e termini scientifici come le leggi cinematiche espresse con tipico linguaggio moderno (non dimentichiamo la eccellente definizione di moto uniformemente vario data da Galileo con la identificazione delle peculiarità del moto naturalmente accelerato in relazione alla «serie dei numeri dispari», alla invenzione del concetto di "campo magnetico" e delle "linee di forza" e delle "rotazioni elettromagnetiche", insieme ai termini lessicali degli oggetti culturali della scienza elettromagnetica, come i nomi di tutte le entità microscopiche a livello elementare, come "anodo", "catodo", "diamagnetico", "catione", ecc.. di Faraday). Insomma, una bella gara tra due pionieri che per ragioni diversissime si trovarono coinvolti in una avventura che portarono il primo «dal lancio di una semplice pietra fino alla formalizzazione della legge del moto» e l'altro «dalla rana alla macchina elettrica». 

Dal punto di vista dei risultati, forse, si può benissimo pensare (ma non dire) che in fin dei conti Galileo e Faraday furono tutto sommato dei semplici "apripista". In fondo in fondo, furono gli studi di Newton e di Maxwell che partorirono le due grandi e complete sintesi concettuali, non quelli dei Nostri. L'inglese coinvolto nell'avventura che lo portarono dalla semplice e riduttiva "legge di un moto uniformemente vario" alla più completa e definitiva "legge di tutti i moti possibili e immaginabili". Lo scozzese, a sua volta, coinvolto nell'avventura che lo portarono "dalla corrente galvanica alla corrente di spostamento", ovvero "dall'apparato voltiano al dispositivo hertziano". In ogni caso furono grandi entrambi e le soluzioni di molti problemi della meccanica e dell'elettromagnetismo classico furono possibili perchè essi esistettero e lavorarono per la scienza e, in definitiva, per l'umanità.

Taccio sulle differenze fra Galileo e Faraday, perchè non solo non è obiettivo della presente riflessione ma, soprattutto, perchè è possibile effettuare, in futuro, degli approfondimenti più significativi di quelli che avrei potuto far portare in questa sede allo studente.

La ricerca sperimentale effettuata dallo studente Luca Conticelli assume così la veste di metodologia di conferma empirica delle leggi del moto di caduta su un piano inclinato e della legge dell'induzione e.m., e permette di ripercorrere - per quanto possibile - il percorso storico, teorico e sperimentale del lavoro effettuato da Galileo e da Faraday durante il periodo di studio e di indagine svolto sia dal grande Scienziato nei primi decenni del ‘600, sia dal grande Genio sperimentale nella prima metà del XIX secolo.

La lezione da trarre dalla scoperta galileiana dell’uso “fisico” del piano inclinato (ma lo steso si può dire di Faraday nel suo campo) non è tanto quella di avere scoperto la legge di caduta dei corpi prima di altri. Il fatto importante, a mio parere, è invece il radicale cambiamento nel modo di trarre le conclusioni dalla osservazione dei fenomeni cinematici da Lui studiati proprio attraverso quel piano inclinato che qui assume rilevanza come “strumento culturale” di indagine, prima ancora che come “apparecchio di misurazione” vero e proprio. Non ci sono dubbi che Galileo, mediante il piano inclinato, introduce un nuovo approccio allo studio dei fenomeni fisici. In un certo senso Egli, con l’uso del piano inclinato, và oltre la comune giustificazione di dover usare un’apparecchiatura estremamente utile per gli scopi della misura dei tempi di caduta degli oggetti. In realtà, Galileo innesca un movimento di radicale trasformazione dei principi e metodi del sapere che investì come un treno in corsa la fisica del tempo costringendola a seguire inevitabilmente le linee di azione da Lui stesso tracciate esplicitamente.

L’esperienza effettuata dallo studente acquista importanza nella prospettiva di conseguire un doppio risultato didattico-educativo. In primo luogo di contribuire a rivalutare la dimensione empirica della scienza portando con sé importanti ricadute di tipo culturale e formativo. L’iniziativa ha cioè il pregio di continuare una nobile tradizione, che ha sempre visto il laboratorio di fisica e la dimensione empirica della disciplina occupare una parte rilevante e significativa delle attenzioni della didattica curriculare della fisica del sottoscritto nel liceo Russell, perpetuando nel tempo quel processo di rivalutazione del sapere scientifico che ha sempre visto la dimensione empirica essere un momento improntante e significativo del “fare “ fisica.

In secondo luogo di rendere consapevoli gli studenti a comprendere più efficacemente il ruolo e l’attività di Galileo (e di Faraday) avvicinandoli il più possibile alla situazione storica in cui lo scienziato toscano (e inglese) visse ed operò, permettendo di comprendere più efficacemente il dibattito scientifico che caratterizza il periodo di transizione dalla fisica aristotelica a quella newtoniana per il primo e dello sviluppo del concetto di campo per il secondo.  

Se con lo studente siamo riusciti, o meno, a effettuare un buon lavoro non sta a me dirlo. L’importante è che abbiamo tentato di valorizzare una didattica della fisica che ha permesso di discutere di tutto questo. Sarà il giovane, negli anni futuri, a giudicare la bontà dell'approccio scelto.

L’insegnante di fisica e laboratorio

       Prof. Vincenzo Calabrò

Roma, 9 Giugno 2001


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