Storia locale

  Non si può dimenticare

La volontà di far memoria: il racconto di concittadini
sopravvissuti alla tragedia della seconda guerra mondiale.

di Mario Fiorendi

Nell’articolo del mese di maggio presentai, seppur in sintesi, il diario della prigionia di Giovanni Seghezzi; quella pagina non passò inosservata. Nel giro di poche ore, un paio di concittadini vollero prendere contatto con me per raccontare le loro vicende. Di comune c’era la drammaticità dei giorni da loro vissuti; inoltre, ciò che mi colpi fu anche la sentita volontà di fare memoria di quegli eventi così profondamente vissuti: non vogliono dimenticare! Nell’articolo di questo mese trascrivo, nelle poche righe della nostra pagina, quanto mi ha raccontato il signor Angelo Ravasio, nato a Seriate il 23/2/1922.

Il papà, nel 1928, dovette emigrare in Francia per lavoro e per ragioni politiche, lasciando soli a casa la moglie e tre fi gli di sei (Angelo), tre, un anno.

Un episodio emblematico: nel 1933 ad Angelo, frequentante la classe quinta elementare, fu assegnato, dalle autorità scolastiche e dall’allora podestà, il Premio della Bontà con la seguente motivazione: “È la consolazione della mamma, sempre preoccupata per la lontananza del marito”.

Pochi mesi dopo, Angelo espatriò e si recò a Mentone, in Francia, dove iniziò le sue prime esperienze nel mondo del lavoro, nell’edilizia in particolare.

Allo scoppio della guerra fu richiamato in patria per presentarsi al distretto di Bergamo e fu arruolato come soldato presso la VIII compagnia autonoma “Lanciafi amme”. Con lui c’erano altri seriatesi: Gervasoni Primo, Stella Benvenuto, Rocchi Bruno, Rota Angelo, Moretti G.

Nel 1942 si imbarcò a Bari per raggiungere le zone militari in terra dei Balcani. In particolare, prestò servizio in varie località dell’Albania e del Montenegro. Svolgeva soprattutto attività di sorveglianza ai prigionieri di guerra e azioni di contrasto ai partigiani. A quel tempo erano inquadrati in quattro plotoni che, a turno, si davano il cambio nei servizi di guardia.

Nel settembre del 1943, all’indomani dell’armistizio, vennero tutti fatti prigionieri, dovendo subito decidere se passare tra le fi la dei tedeschi o consegnare loro le armi.

Nessuno di quei soldati passò, in quell’occasione, dalla parte dei tedeschi.

Fatti prigionieri, partirono attraversando, a piedi, monti e strade diroccate per due giorni.

Raggiunta una locale stazione di treni, furono trasferiti dapprima a Timisoara (Romania), quindi in una località del Banato (una regione tra Romania, Ungheria e Serbia) e lì imprigionati in campi di concentramento insieme ad altri duecento soldati italiani.

In questi campi si viveva una realtà drammatica; personalmente assistette ad una scena drammatica quando un soldato delle SS uccise freddamente un militare italiano solamente perché era gravemente malato.

Qualche mese dopo fu trasferito a Budapest dove venne costretto a pesanti lavori di costruzione di rifugi per nascondere fusti di benzina.

Dopo 15 giorni, altra partenza, con meta Belgrado, all’aeroporto Zemun, per servizi di sistemazione delle piste degli aerei. Erano sottoposti a continui, incessanti bombardamenti ad opera degli alleati.

Si dormiva per terra, senza veri rifugi e, per il cibo, occorreva arrangiarsi facendo continuamente appello alla sensibilità degli abitanti.

Non c’era mai pace perché gli attacchi degli alleati erano terribili; i prigionieri italiani erano presi tra due fuochi: gli alleati da una parte e i tedeschi dall’altra che li costringevano a duri e pericolosi lavori.

Tra le sventure, ebbe la fortuna, però, di prendere contatto con l’ambasciata francese di Belgrado, consegnando all’ambasciatore una lettera da far recapitare alla mamma che era a Mentone: dopo tanti anni poteva così tranquillizzarla sulla sua sorte.

Nel 1945, fi nita la guerra, tramite la Pontifi cia Opera di Assistenza venne accompagnato a Trieste e da lì ritornò a Bergamo l’8 giugno.

Seguì un periodo di ricovero alla Clementina di Bergamo per curarsi da una serie di malattie che erano state trascurate nei mesi precedenti.

Verso la fine dell’anno iniziò a lavorare presso la Sbic di Seriate.

Considerazione amara, conclusiva: “La mia giovinezza è passata tra queste tragedie, senza aver in cambio dalla patria nemmeno un minimo di riconoscenza”.

Nella semplicità del suo racconto, il signor Angelo, che ringraziamo per la sua collaborazione e per averci messo a disposizione il suo ricco materiale documentario (lettere, documenti, diari, foto, cartoline, scritti) ci permette di cogliere la drammaticità di quegli eventi che si abbatterono sui giovani italiani, sulle loro famiglie e sulla società tutta di quegli anni. Noi, oggi, non possiamo che raccogliere la loro preziosa testimonianza e cercare di coglierne gli insegnamenti più profondi.