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Muro Leccese

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Numero  4

 

 

 

Novelle Muresi

 

"Dove si racconta della curiosa e ridevole vicenda di un borgo lontano, per cent’ anni in solitudine e poi invaso da magnanimi forestieri, sull’ onda effimera della mondanità e tra l’ audacia del suo Messer lo Sindaco, aspirante dipintore."

 

Fu adunque, cari lettori, non è ancora gran tempo, in un paese del Sud, un borgo da mura cinto e Muro Leccese cognominato, una piazza d’ antica bellezza e rara libertà di fascino.

 

E di questa piazza, tra i popolani abitanti del luogo e i signori aspiranti padroni, l’ audace Messer lo Sindaco fece teatro di fuggevole notorietà. Giunse, infatti, in quei luoghi casti, in una domenica prodiga ad ammirare i villaggi e i contadi piú sconosciuti e fare di questi spettacolo e attrazione, lo Maestro Mengacci, il quale, col sorriso ebete in volto e la lingua educata a render gloriosa ogni cosa di cui parlava, sparse in su la città un alone magico di bell’ apparenza ed elegante compostezza, di cui tanto fiero da quel momento, andava Messer lo Sindaco. 

 

Costui, infatti, inebriato dal suo ineccepibile operare, decantava beltà e grazia del suo paesino, divenuto, in mano sua città, e ora pronto ad esser passerella delle piú prestigiose autorità.

E in questo si prodigò tanto da abbigliare con ogni drappeggio la sua borgata che divenne, da anonima terra di contadini e operai, il piú raggiante feudo che splendea dal Mar di Gallipoli al Porto d’ Otranto, dal tacco di Leuca fino alla corte di Bari, a richiamare, tanto nei mesi di sole caldo e terre brulle, quanto nei giorni di fresco e pioggia invernale, una folla innumerevole di cavalieri e marchesane, signore e popolani che, dai borghi vicini, accorrevano a intrattenersi e a sollazzarsi co’ spettacoli nazional popolari alla corte del Messere.

 

E forse fu proprio per questa aureola o per chissà quale dedalo politico, cui noi popolani non è fatto diritto di accedere, che il paese conobbe, nel periodo in cui Messer lo Sindaco non s’ era ancora ripreso dall’ eccitamento provocatogli da Mastro Mengacci, due nuove invasioni di popoli venuti dal Nord. 

 

La prima fu l’ onorevole presenza del sovrano signor Tremonti, membro di governo, persona savia e dotta, vispo in volto e allegro in espressione, venuta insieme al giovine principe Fitto (che chissà per qual cagione era reduce d’ un altro assalto di popolani e pover’ uomini, che a quanto pare, ne lamentavano l’ operato, a sua ragion indiscutibile), giunti entrambi a inaugurar la nuova bottega di Messer Ruggeri. 

 

La seconda fu l’affamato approdo di piú di cinquecento o forse mille, chi gridava anche millecento o addirittura mille e settecento autorevoli dottori che, da ogni parte della nazione, pervennero nella terra di Lecce.

 

Pei i primi, Messer lo Sindaco, inondò il paese di manifesti di benvenuto, sui quali v’ era iscritto: “Con stima e gratitudine, la Città di Muro Leccese saluta il Ministro dell’ Economia e delle finanze e il Presidente della Regione Puglia venuti a inaugurare il nuovo complesso Consal” e ne riempì di Muro ogni muro e strada, affiggendo saluti (per assicurarsi d’ essere visti) anche negli angoli piú remoti del borgo, laddove nemmeno l’ ultimo cagnastro vagabondo avrebbe avuto intenzion di liberare la sua vescica. Tanti ne furono incollati alle pareti che nessun popolano in quei giorni s’ era potuto sognar di morire, perché non v’era spazio sufficiente a Messer Cico di appenderne la trista notizia.

 

Per i secondi, invece, fu la suddetta elogiata piazza a divenir vittima delle savie scelte e con essa il popolo tutto che, invitato all’ abbondante banchetto di cui vel dirò, trovò tra la gioia cieca dei tanti e la rabbia dei pochi un’ inospitale accoglienza. Fu infatti allestita in quella piazza, forse anche per l’ inaspettato numero dei commensali, una tavola tanto traboccante di vivande che fossero stati duemila o anche piú, sarebbe in certi angoli rimasta intaccata. Ma non fu affatto quest’abbondanza a non esser digerita da alcuni popolani, quanto l’ audacia di chi, nel tentar di mantenere l’ ordine e le redini nelle proprie mani e d’ apparir impeccabile davanti agli invitati, dirigeva i lavori comandando al popolo di allontanarsi dalla mensa ogni qualvolta i signori ospiti dovean mangiare e attendendo pazientemente, forchette argentee sfoderate e sfregate nelle mani e con la bava pronta a bagnare il mento, per poi, solo dopo aver saziato in corpo e in ispirito i famelici dottori, avere il permesso d’ acceso a quei tavoli tanto ambiti a ingurgitare in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo i resti e la broda del convito.

E si racconta ancora, in quei luoghi caldi e forse meno casti, di Messer lo Sindaco e della sua audacia, il quale, “come che molto s’ ingegnasse di parer santo e tenero amatore” della democrazia e della verità, “sí come tutti fanno, era non meno buono” aspirante dipintore, per la sua abilità e instancabile industria a rappresentare una realtà cosí tanto edulcorata .

 

(Gli scritti in grassetto e virgolette sono tratti da Boccaccio, Decameron, Giornata I- novella 6).

 

 

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