Novelle Muresi
"Dove
si racconta della curiosa e ridevole vicenda di un borgo lontano,
per cent’ anni in solitudine e poi invaso da magnanimi forestieri,
sull’ onda effimera della mondanità e tra l’ audacia del suo
Messer lo Sindaco, aspirante dipintore."
Fu
adunque, cari lettori, non è ancora gran tempo, in un paese del
Sud, un borgo da mura cinto e Muro Leccese cognominato, una piazza d’
antica bellezza e rara libertà di fascino.
E
di questa piazza, tra i popolani abitanti del luogo e i signori
aspiranti padroni, l’ audace Messer lo Sindaco fece teatro di
fuggevole notorietà. Giunse, infatti, in quei luoghi casti, in una
domenica prodiga ad ammirare i villaggi e i contadi piú sconosciuti
e fare di questi spettacolo e attrazione, lo Maestro Mengacci, il
quale, col sorriso ebete in volto e la lingua educata a render
gloriosa ogni cosa di cui parlava, sparse in su la città un alone
magico di bell’ apparenza ed elegante compostezza, di cui tanto
fiero da quel momento, andava Messer lo Sindaco.
Costui,
infatti, inebriato dal suo ineccepibile operare, decantava beltà e
grazia del suo paesino, divenuto, in mano sua città, e ora pronto
ad esser passerella delle piú prestigiose autorità.
E
in questo si prodigò tanto da abbigliare
con ogni drappeggio la sua borgata che divenne, da anonima terra di
contadini e operai, il piú raggiante feudo che splendea dal Mar di
Gallipoli al Porto d’ Otranto, dal tacco di Leuca fino alla corte
di Bari, a richiamare, tanto nei mesi di sole caldo e terre brulle,
quanto nei giorni di fresco e pioggia invernale, una folla
innumerevole di cavalieri e marchesane, signore e popolani che, dai
borghi vicini, accorrevano a intrattenersi e a sollazzarsi co’
spettacoli nazional popolari alla corte del Messere.
E
forse fu proprio per questa aureola o per chissà quale dedalo
politico, cui noi popolani non è fatto diritto di accedere, che il
paese conobbe, nel periodo in cui Messer lo Sindaco non s’ era
ancora ripreso dall’ eccitamento provocatogli da Mastro Mengacci,
due nuove invasioni di popoli venuti dal Nord.
La
prima fu l’ onorevole presenza del sovrano signor Tremonti, membro
di governo, persona savia e dotta, vispo in volto e allegro in
espressione, venuta insieme al giovine principe Fitto (che chissà
per qual cagione era reduce d’ un altro assalto di popolani e
pover’ uomini, che a quanto pare, ne lamentavano l’ operato, a
sua ragion indiscutibile), giunti entrambi a inaugurar la nuova
bottega di Messer Ruggeri.
La
seconda fu l’affamato approdo di piú di cinquecento o forse
mille, chi gridava anche millecento o addirittura mille e settecento
autorevoli dottori che, da ogni parte della nazione, pervennero
nella terra di Lecce.
Pei
i primi, Messer lo Sindaco, inondò il paese di manifesti di
benvenuto, sui quali v’ era iscritto: “Con stima e gratitudine,
la Città di Muro Leccese saluta il Ministro dell’ Economia e
delle finanze e il Presidente della Regione Puglia venuti a
inaugurare il nuovo complesso Consal” e ne riempì di Muro ogni
muro e strada, affiggendo saluti (per assicurarsi d’ essere visti)
anche negli angoli piú remoti del borgo, laddove nemmeno l’
ultimo cagnastro vagabondo avrebbe avuto intenzion di liberare la
sua vescica. Tanti ne furono incollati alle pareti che nessun
popolano in quei giorni s’ era potuto sognar di morire, perché
non v’era spazio sufficiente a Messer Cico di appenderne la trista
notizia.
Per
i secondi, invece, fu la suddetta elogiata piazza a divenir vittima
delle savie scelte e con essa il popolo tutto che, invitato all’
abbondante banchetto di cui vel dirò, trovò tra la gioia cieca dei
tanti e la rabbia dei pochi un’ inospitale accoglienza. Fu infatti
allestita in quella piazza, forse anche per l’ inaspettato numero
dei commensali, una tavola tanto traboccante di vivande che fossero
stati duemila o anche piú, sarebbe in certi angoli rimasta
intaccata. Ma non fu affatto quest’abbondanza a non esser digerita
da alcuni popolani, quanto l’ audacia di chi, nel tentar di
mantenere l’ ordine e le redini nelle proprie mani e d’ apparir
impeccabile davanti agli invitati, dirigeva i lavori comandando al
popolo di allontanarsi dalla mensa ogni qualvolta i signori ospiti
dovean mangiare e attendendo pazientemente, forchette argentee
sfoderate e sfregate nelle mani e con la bava pronta a bagnare il
mento, per poi, solo dopo aver saziato in corpo e in ispirito i
famelici dottori, avere il permesso d’ acceso a quei tavoli tanto
ambiti a ingurgitare in qualsiasi modo e con qualsiasi mezzo i resti
e la broda del convito.
E
si racconta ancora, in quei luoghi caldi e forse meno casti, di
Messer lo Sindaco e della sua audacia, il quale, “come che
molto s’ ingegnasse di parer santo e tenero amatore” della
democrazia e della verità, “sí come tutti fanno, era non meno
buono” aspirante dipintore, per la sua abilità e instancabile
industria a rappresentare una realtà cosí tanto edulcorata .
(Gli
scritti in grassetto e virgolette sono tratti da Boccaccio,
Decameron, Giornata I- novella 6).
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