La terra delle farfalle è la terza delle tre opere che compongono la trilogia Quand'ero piccolino. Cominciamo l'analisi con i titoli delle sezioni che sono i nomi di tutti i tipi di pillola anticoncezionale dalla prima presentata all'ultima venduta al momento della stesura del libro, divisi per affinità farmacologica (in capitoli) e per generazione di produzione (in parti). I nomi dei capitoli hanno attinenza con le vicende narrate nel romanzo, le parti non sono titolate.

Questa partizione, che a prima vista può sembrare forzata, in realtà rappresenta una continuità con le altre due opere del ciclo (la prima è composta di una sola parte, la seconda di due, la terza di tre) e non ingabbia l'intreccio stesso che effettivamente riporta due grosse fratture narrative.
Nella prima parte, infatti, troviamo un capitolo folle ed indipendente dal resto del romanzo, ma in realtà sottilmente affine; poi un capitolo che inquadra nel passato (infanzia ed adolescenza) alcuni protagonisti. Nella seconda, invece, tutti i personaggi sono diventati adulti e si sviluppa una misteriosa situazione. La terza parte, infine, è il teatro di una profonda scissione (spirituale? immaginaria?) che determina il trasloco in un mondo parallelo, La terra delle farfalle appunto, dove l'io narrante prova a ritrovare la bontà umana in se stesso e negli altri.

L'opera ha una lunga ed impegnativa pausa filosofico-programmatica (il Capitolo 6) che delinea la poetica dello scrittore con l'espediente di un colloquio prima interiore e poi svolto davanti ad un esaminatore. Superata la quale sembra quasi che il tutto abbia partorito un prodotto minimo e che si debba passare attraverso un inutile labirinto per raggiungere la sconcertante rivelazione finale.

Solo ricordando l'allucinato esordio si ricollega l'importanza e la necessità di un percorso di ascesa verso il sapere e l'arte, che in definitiva è il tema dominante.

Una serie di frecciatine all'ipocrisia della morale preconfezionata, un inno alla libertà sostanziale e rispettosa, non formale, ed un meraviglioso esempio di tecnica dell'anticipo importata dal cinema, completano l'ultima sezione dove si asserisce che la diversità (umana e culturale) è una ricchezza non discriminante.
Invece l'uguaglianza dei nomi (tre personaggi ed un cane si chiamano J., come lo pseudonimo dello scrittore) si ricollega a J. Parva, il protagonista de Il gioco del silenzio, libro citato scherzosamente all'interno dell'opera e pretesto per tornare a parlare d'amore.

I richiami al ciclo sono fin troppo evidenti sino alla stesura esplicita dell'impostazione hegeliana (7.1) dove, però, non compare la parola "utopia" che in tutto il romanzo è evocata in continuazione, ma utilizzata solo come luogo della corrispondenza fisica di un articolo di giornale (4.1).
L'agognata "vita tranquilla" del protagonista può realmente apparire utopica ed ingenua; ma qui non conta la sua effettiva realizzabilità, quanto la presa di coscienza della sua possibilità e la libera scelta del proprio destino.

Anche chi sceglie il male è umano, forse più di chi è buono solo "per risparmiare energia"!
Si ripropone il tema del terrorismo e si cerca sempre di capirlo, senza assolverlo e senza condannarlo: "Comprendo e perdono, ma non giustifico".

Ma è vera libertà? Una forza superiore ed incontrastabile sembra tessere un'inestricabile ragnatela. L'ultimo sforzo consiste nello smascherarla, combatterla o almeno raggiungere un compromesso con lei.
In una lettura laica i vincoli sono costituiti dai legami di sangue (la famiglia); la chiave morale diventa naturalistica, non teologica.

Nel trionfo dei sentimenti, un rammarico si profila: le condizioni iniziali ci determinano; dopo possediamo il dono del libero arbitrio, ma abbiamo dei limiti originari che condizionano il nostro essere.
Ancora una volta è l'arte che ci salva, la contemplazione del bello che ci appaga.



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