Casera Bregolina Grande - 9 novembre 2003

Come al solito siamo pronti tardi, troppo tardi per le brevi giornate novembrine. Alle 9 aprono gli impianti di risalita, i patiti della discesa sono già con gli sci ai piedi mentre noi siamo ancora affaccendati tra lacci, ghette e qualche moschettone da infilare nello zaino. Vabbè, appena 1000 metri di dislivello, quasi un’uscita fuori programma, va bene così. La neve inizia subito, per la verità inizia ancora prima di scendere dalla macchina.

Ci infiliamo nella valle, stretta e lunga. I colori sono cancellati. Resta il bianco della neve e le tonalità di marrone/grigio/nero dei fianchi delle montagne e delle piante coperte di neve. Ci starebbe bene qualche bella foto. Ma parte la litania della giornata di Ettore:
“Porca miseria, ho dimenticato la macchina fotografica”.
Anche i mughi si sono piegati al peso della neve e invadono il sentiero. Quando li scavalchi, ti bagni le gambe, se passi sotto è una doccia. Cerchiamo di seguire fedelmente la traccia del sentiero, ma non siamo gli unici. Un camoscio con il suo piccolo hanno fatto lo stesso qualche ora prima. E allora seguiamo le loro tracce, ben più evidenti dei segni rossi. Il torrente da attraversare. È carico d’acqua, marrone anch’essa. Un po’ di equilibrio su sassi coperti di neve, mezzo piede nell’acqua e siamo sull’altro versante, la pendenza finalmente aumenta. Un’ora, due ore, tre ore: il tempo passa, ma l’altimetro sembra inchiodato. Eppure ci sembra di faticare, anzi, fatichiamo proprio. L’ambiente è stupendo, la neve un po’ infida, utilizziamo anche la corda per oltrepassare la cengia carica di neve pronta a partire sullo scivolo erboso. Sotto di noi un salto di centinaio di metri e il torrente. Finalmente il bivio, il primo punto di riferimento, a soli 150 di dislivello metri dalla casera. Ormai siamo arrivati.
E invece usciamo dal bosco, sprofondiamo nella neve fino al ginocchio e la crosta ghiacciata ci limita nei movimenti. La casera è li, illuminata dal sole sullo sfondo di un cielo azzurro intenso.
“Porca miseria, la macchina…”.
Di colpo sono tornati i colori nel loro splendore. Ma sembra un miraggio, ci avviciniamo con una lentezza quasi esasperante. Casera Bregolina , quasi una conquista. Dopo 5 ore ci sediamo sulla panchina al sole. Un paradiso per pochi eletti. Nessuna traccia di passaggio umano. Il sole. La neve. Il camino e la stufa economica. Il tavolato. Non manca niente. Anzi, manca il campo per i cellulari. Solitudine assoluta. Ma che fare ora? Il cuore dice di fermarsi, godersi tutto il sole e poi il fuoco nel camino. La realtà dice che bisogna tornare a valle e anche alla svelta perché ormai il sole si abbassa velocemente all’orizzonte. La via più veloce e sicura è quella dell’andata. Sembra quasi una ritirata, volevamo chiudere un giro ad anello e invece riprendiamo le nostre tracce.
Non abbiamo né le forze né il tempo per battere ancora la traccia prima in salita e poi in discesa. Sembra quasi di correre, anzi, in alcuni tratti corriamo per davvero. Dalle montagne sull’altro versante, si sentono i boati delle valanghe di neve umida che scendono verso valle. Rumori sinistri. Il sole riscalda anche il nostro versante, la neve si appesantisce e non oppone più resistenza alla forza di gravità. E ci avvisa: pochi attimi prima del nostro passaggio, in mezzo al bosco, il rumore sordo e la nuvola di neve che va a coprire le nostre tracce di salita. Ci guardiamo negli occhi, ci rassicuriamo. Tanto siamo nel bosco. Tanto non potremmo far diversamente che continuare a scendere. Acceleriamo l’andatura. Ma non è lo stesso terreno dell’andata, è cambiato. Anche la neve sotto i nostri scarponi non vuol saperne di stare ferma. E finiamo gambe all’aria, ginocchia sui sassi e sedere nella neve più di qualche volta. Disturbando. Un camoscio ci vede e scappa via, lui ormai è pronto per l’inverno, ha cambiato il mantello e ha grasso a sufficienza per proteggersi dal freddo e non morire di fame.
“Porca miseria, la macchina…”.
E attraversa il torrente con molta più disinvoltura di noi. Nonostante le sue acque sia aumentate rispetto alla mattina. Tentiamo di attraversare senza bagnarci i piedi, poi ci rendiamo conti di avere i piedi fradici. E si guada piedi a mollo. Forse la fatica, forse l’ambiente che col passare del tempo intimidisce sempre di più, parliamo sempre meno. Arriviamo in fondo, la strada e la macchina. Finalmente. Siamo stanchi. È stato faticoso tornare, ma ancor più faticoso è stato dover dare le spalle alla casera per tornare verso valle.
Tentiamo di consolarci con una Radler dal “Triestino” a Cimolais. Al terzo tentativo, riusciamo a farci servire una birra e una limonata, bicchieri separati. Un altro mondo, un’altra cultura.

Andrea

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