Grand Hotel del Coro

Il Coro è un monte che si confonde tra le grandi pareti nord della Schiara e del Burel, in alto sulla valle del Cordevole e le cime dolomitiche. La tramontana gioca sullo scivolo nord della Marmolada, come una snowboarder ragazzina, salta l’Agner fa una capriola e cade sul vecchio materassone delle nebbie di pianura. Ne risultano spesso polveroni nuvolosi che si depositano con calma proprio lungo le pareti del Coro, dalla Stanga, dentro i boral, le forre, sopra l’erba e i rododendri. Ma questa mattina la ragazzina non ha saltato e sui rilievi del Coro non si vede la polvere della pianura, ad evidenziarne le cenge. Visto dal basso il Coro sembra un vecchio palazzone trascurato dai suoi inquilini, nella periferia di una città. La città ha un centro storico a tre stelle del quale i turisti fotografano, le colonne, le cupole, le pareti e le masse in equilibrio tra loro e con i vuoti del cielo: Verso la Schiarale Pale, Civetta, Agner, Marmolada. Sul Coro invece – banlieu dolomitica – le erbacce si aggrappano alle grondaie ed i mughi crescono sui terrazzi sporchi. Quasi sulla cima un larice se ne sta rinsecchito come l’asta da bandiera di un bivacco che non c’è più, senza ospiti da tanti anni. Cespugli di rododendri coprono la punta. Tutto precipita velocemente, in canaloni e scariche di pietre che rimbalzano nell’erba cresciuta sulle cenge, e si fermano là, instabili.

Il Grand HotelVicino a quel larice rinsecchito c’è per davvero un vecchio bivacco. E’ il Grand Hotel Coro, come lo chiama Piero Rossi nella sua bella guida dedicata alla Schiara. Cosa avveniva un tempo quassù, quand’ancora i grandi grattaceli del centro non erano fondali per spot pubblicitari? Il Grand Hotel, quel che ne rimane, è un lastrone di pietra appoggiato ad altre pietre. I solchi dell’acqua sembrano tegole di marmo bianco. All’interno crescono ortiche e si vedono tracce di lavoro umano. Sono dei ripiani in pietra, opera paziente di chi stava ad aspettare il momento buono per uscire e intanto non aveva niente da fare.

Il cacciatore si alza di notte, sotto la luna, e prende la strada per il tronco di larice. Da quell’albero comincia il sentiero. Nel buio il vento fischia sulle orecchie dell’uomo, sulla passerella erbosa e gelata, sulla parete di altissimo brivido sostenuta da un cielo limpido che si appoggia a vette quasi vergini, ammuffite dai mughi e dai larici. Il cacciatore scende per un ripido prato inclinato e scivoloso, si aggrappa ai rododendri ed entra nella cengia, dopo un grande macigno. La percorre pensando lentamente ogni passo, mentre le stelle scompaiono nel cielo sempre più azzurro. A destra è vicino il salto che porta giù in valle, seicento metri più in basso. A sinistra la mano si appoggia alla roccia. Ad uno spigolo è cresciuto un larice. Ci si aggrappa, sente un fruscio. Guarda. Un camoscio lo guarda. Non si torna indietro. La paura prende entrambi alla gola. Il camoscio potrebbe decidere di scappare nella sua direzione e buttarlo giù. E’ vecchio ma è grosso, pesante. Continuano a guardarsi mentre si alza il sole e l’animale è ancora immobile. Il cacciatore non vuole girarsi, per paura di essere travolto. Lentamente indietreggia, continuando a guardare il camoscio. Scompare dietro l’albero, dietro lo spigolo. Prende il fucile, ora può. E spara un colpo, nell’aria. Poi il silenzio. Il cacciatore torna all’albero: il camoscio non c’è. Non c’è lungo la cengia, né più in basso sfracellato nel dirupo. Il suono dello sparo lo risveglia sotto il tetto di roccia del suo ricovero, accanto alla mensoletta in pietra. Qualcosa corre nelle sterpaglie fuori. Contro la luna c’è la sagoma di un camoscio vicino al larice rinsecchito.

L'ometto della cima, la Civetta sullo sfondo. Il senso di questa montagna? Aver superato la cima e sapere che la vera cima sta più sotto, nei tremendi corridoi, nei cavi sospesi che girano attorno alle pareti, nei cunicoli di aerazione di un hotel abbandonato, nelle stanze di un relitto sotto il mare o nei grandi saloni popolati dai fantasmi .

Qua, in cima al Coro, il cielo ha una luce insopportabile, il sole di novembre. Torniamo a casa. Povere montagne: scenari pubblicitari, spot di auto, carburanti, povera folla in festa che si crede nel silenzio e invece è solo corpo appena sceso dall’auto. A bocca aperta, ingannato.

La montagna per tutti, questo è il Coro. Avvolta nel calore del Sole, circondata da muraglie altissime.

(Ettore)

Il monte Coro si trova a nord della Schiara, sulla verticale del rifugio Bianchet, dal quale si giunge in un paio d'ore di cammino. Montagna poco praticata, offre stupendi panorami sulla catena Schiara - Burel e su tutte le Dolomiti, in particolare i monti del Sole. Poco sotto la cima un macigno può dare un semplice ricovero. I ripidissimi versanti sud, ovest ed est sono percorsi da cenge sottili e pericolose, riservate ai camosci e, ai nostri tempi, a montanari curiosi, esperti e prudenti. La gita che ha ispirato questo racconto è stata fatta il 30 ottobre 2005.

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