Alla ricerca del prato perfetto - 20 luglio 2005

Che strano posto la valle d’Angheraz.
Dal paesino di Col di Prà in valle di San Lucano, un sentierino attraversa un bosco buio e umido. Per un bel po’ non si vede niente oltre agli alberi. Il sentiero incrocia una strada sterrata, che va alle malghe. Alberi in frantumi, macigni verdi di muschio, sentieri che ogni tanto partono e poi muoiono. In quella prima mattina luglio non c’è proprio nessuno in giro, il silenzio è ovunque e le pareti ai lati isolano del tutto la valle. Il bosco si apre ad una piccola malga, un misero ricovero di pastori circondato dalle erbacce; a fianco un macigno le dà importanza. Più avanti il fantasma di un’altra malga e l’ombra di un bivacco, scomparsi, dimenticati, cancellati. Ne resta traccia nelle vecchie guide. Sappiamo che attorno a noi ci sono pareti molto alte ma non le vediamo e sappiamo pure che da queste parti ci sono valli dolci e piene di prati. Oggi ci basterebbe un praticello. Dopo almeno un’ora si entra nel torrente ed il bosco finisce dove una conca di rocce chiude la valle. Da una parte scendono le montagne dell’Agner, dall’altra la Croda Granda ed i suoi satelliti. Unici varchi sono dei canaloni pieni di neve, ovunque rarissima ma non qui. In cima ad un cono di detriti, sopra pianticelle spelacchiate, distinguiamo due sagome, due ragazzi all’inizio della via ferrata che stavamo cercando. Loro sono poco convinti e ci lasciano andare. Infiliamo gli imbraghi e saliamo verso i raggi di sole che illuminano le rocce poco più in alto.
La ferrata è divertente e breve ed in un’ora la parete è superata. Riprendiamo a camminare verso la lontana e altissima forcella dell’Orsa, tra altre forcelle che non conosciamo. Dopo un’ora il paesaggio roccioso ci dà una pausa, il pendio sassoso diventa un prato fiorito. Altro segno del tempo che passa: siamo, dice una delle vecchie relazioni portate con noi, sui resti di un ghiacciaio che lascia ancora dei frammenti. Non più, mentre si avvicinano la cima delle Caure, il Marmol, con il Coro, l’Orsa e l’Alberghetto.
Qua ci starebbe bene una notte in tenda, al silenzio. Altra ripida salita con la testa bassa a contare uno per uno i passi, a badare ai sassi dimenticando le cime ed il cielo sempre più azzurro. Sudiamo, aggiriamo rocce e grandi scalini, catini scavati dai ghiacciai e arriviamo sulla lama della forcella dell’Orsa, che separa la valle d’Angheraz dalla Val canali. C’erano quattro persone dietro di noi e non le abbiamo più viste. In basso, lontano, il tetto del rifugio Treviso. Ci infiliamo nel piccolo canale detritico che entra in val Canali e poi di nuovo, in un’ora risaliamo ai 2500 metri del passo Canali, dove si apre l’Altopiano delle Pale, confuso nella solita nebbia. Poco dopo ci fermiamo sul prato perfetto, un grande campo da calcio rotondo e morbido, un verde specchio per il sole. Il posto ideale per stendersi mentre la nebbiolina ci rende il suono di campanacci di pecore. Così, confusi dalla melodia e dal sole, diamo senso all’essere in montagna. Su quel un lago d’erba nell’arido altopiano un giorno torneremo. Suoni e sole e erba morbida riempiono e ti lasciano senza domande.
Ripartiamo a pancia piena e in mezz’ora di cammino siamo alla forcella del Miel, il punto più alto della salita, 1800 metri più in alto. Ora si può solo scendere. A sinistra comincia l’altopiano, a destra e davanti la grande fessura della valle d’angheraz. Incrociamo un tale salito la mattina da Col di Pra. Sta scendendo di corsa, come di corsa era salito per allenarsi. Ha un apparecchio in bocca e le vocali sibilano tra i denti. Tipi strani passano da queste parti, sia noi che lui. Noi che vorremmo piantare un’altra bandierina nella nostra voglia di vedere tutto; lui, l’indigeno, che corre senza saper niente della valle d’Angheraz, della Forcella dell’Orsa, nemmeno del Sasso delle Caure o del Dito dell’Alberghetto. Gli basta correre. Noi, metodici e illusi, battiamo tutte le strade. Illusi da un praticello mentre lui corre.
Il sentiero continua altissimo. Un’altra malga, una stamberga tra le ortiche e poi più avanti nel bosco un’altra ancora, la casera del Piz. Polverosa e dimenticata, ha una catasta di legna ammuffita davanti. Ci sono ancora gli scaffali del formaggio, sembra essere stata abbandonata da un’estate all’altra: muffa, ombra e ragni e le tavole che si staccano una ad una ad una, ed ognuna è una piccola ferita. Così finisce il giro della valle d’Angheraz che ci ha fatto scoprire il prato perfetto e le casere che invecchiano.


Ettore.

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