Monte Grappa - 28 ottobre 2006

In venticinque anni che sono in Veneto non ero mai stato in cima al Monte Grappa. E dire che lo vedo tutte le mattine dalle finestre del mio ufficio: indovino nelle giornate più limpide la macchia di marmo bianco che ha addomesticato quella cima, faticosa e ostile agli uomini come tante montagne. Dico addomesticato perchè tutto, quando si è lassù, sembra civile e razionale. Tutto sembra fatto apposta per metter ordine all'irrazionalità di quella grande massa confusa, che era fatta di verde, grigio, nero, fango e terra ed ora è pulita, liscia. Sul Grappa la montagna è geometrica, le pietre casualmente sparse si contrappongono ai macigni squadrati e lisci. Così celebriamo l'enorme caos di morte di cui i nostri simili sono stati responsabili e vittime. Più grande è la volontà di dare un senso, tanto maggiori le quantità di marmo trascinate qua sopra. Sforzi inutili perchè la morte è sempre lì, nelle centinaia di nomi elencati alle pareti che continuano a chiederti perchè. Perchè io ero un uomo e mi chiamavo Antonio, Marco, Laszlo, Peter e non ho più potuto esserlo?

Sulla grande passeggiata bianca che unisce i due sacrari, quello italiano e quello imperiale, una persona mi chiede: dov’è l’ossario? Capisco che si aspetta di vedere cumuli di ossa. Gli spiego che l’ossario invece è quel lungo elenco di lapidi con i nomi dei noti ed il numero degli ignoti: verso sud gli italiani, verso nord gli austriaci, gli ungheresi, i croati e le altre etnie dell’impero. Vedere ossa ammucchiate darebbe forse una risposta alla domanda: perché? Stessa ansia di capire, stessa paura ho sentito in un’altra persona incontrata nella lunga galleria che attraversa la cima del monte. E’ apparso all’improvviso. “Gli spiriti di questi uomini sono fuggiti dalle finestre” dice.

Giro per il monumento del Grappa con il piccolo Francesco in spalla. Ogni tanto lancia un grido o una risata: i passanti lo salutano e lui li segue con lo sguardo. Gli altri bambini e le signore lo fanno ridere. Le tombe degli imperiali guardano a nord. Le Pale di San Martino, i Lagorai, le Dolomiti di Belluno e Feltre. Riconosco la cima Immink, la pala Canali e la Fradusta, il Sasso delle Lede, il Pavione, il Sass de Mura, l’Antelao. Io qua, loro là: le mie sirene. La nostalgia; il ritorno che dà dolore. Arriviamo alla nave. Siamo sulla prua, un grande terrazzo aperto a nord. Arriva un signore anziano che mi dice, bravo, chi vuole andare in montagna ci va comunque. E mi elenca le cime del Grappa che non conosco: sembrano le dita di una mano stanca. Ci sediamo per terra, Francesco mangia. Le pietre spocchiose si macchiano. Francesco gattona e vorrebbe assaggiarle una per una; ci sbava sopra, ride e vaga col sedere per aria, senza domande. Le pietre si offendono mentre tutto attorno si apre il vasto sapore dell’aria circondata dal cielo azzurro. Ci sono roccie all’orizzonte, come mani alzate al cielo, e correnti di tramontana fuggono ancora leggere e si avvitano attorno alle cime. Il sole basso e la foschia tracciano le linee di cresta. Gli occhi indovinano passaggi e canali nelle montagne lontane. Ogni molo è una nostalgia di pietra e ogni montagna una nostalgia di roccie. Che voglia di essere su ognuna di esse. Il cielo è libero e gli occhi coprono con ansia le interminabili possibilità della montagna. La montagna non è finita, è infinita come il mare e forse di più: lo avevo spiegato al ragazzo incontrato nella galleria. Tutti e due pieni di nostalgia. Si chiedeva perché, perché gli uomini fanno questo mentre le grandi masse di marmo bianco stanno immobili. Ora che Francesco ride e canta, quel serio monumento ai caduti, offeso dalle pappe del bimbo, macchiato di bave, s’indigna e strilla isterico. Offeso e stupìto, sembra che stia tremando.


Ettore.

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