Pensieri - 14 settembre 2006

Ecco, tutti quelli che scrivono sul blog parlano di montagne. Ci vanno, ci sono andati e ci andranno. Sono compenetrati alle montagne. Io invece, vorrei svegliarmi la mattina davanti ad un prato, alzare gli occhi e vedere una cima con alberi e una croce e camminare per una città con le stradine in salita e lasciarmi trasportare in bicicletta dalla discesa. Invece ogni giorno peso le delusioni, e sento accumularsi il tempo che non mi permetterà sempre di scrivere e salire la montagna che vorrei.

Sento accumularsi un tempo che non mi appartiene. Le relazioni con le persone sono difficili. Vorrei essere seduto su una pietra, stanco, e là riposarmi. Non posso riposare invece. Mi è concesso di essere stanco e mi è concesso il privilegio inutile di vedere l'inutilità di quello che fanno gli altri.

Il piede che ripete incessante e noioso il passo, la mano che si appoggia e afferra una roccia sono gesti che corrispondono ognuno ad un respiro, al sole ed alla pioggia.

Ricomincio a scrivere, perché scappo davanti alla gente. Ho davanti un gruppo di persone che aspettano il caffè alla maicchinetta. MI volto e torno indietro: non voglio parlare, salutare. Meglio fuggire. Il sorriso delle persone inganna, il sorriso di una ragazza non sai bene cosa significhe. L'amore si spappola sulle montagne. Ma solo scrivere di una montagna, raccontarne le pieghe possibili, nessuna eclusa, fa sentire la realtà e la verità. Potrebbe rivelarsi falso anche questo, anche la montagna?

Il sonno mi piega in due. Il computer si avvvicina alla fronte. Sogno il prato del Minazio e le rocce di Crespan che si sgretolano in mano. Temo che qualcun mi dia la sveglia, temo la vergogna. Può essere falsa anche la montagna? Ricordo il racconto di un amico che salì una cima, per scoprire poi che quella via era franata ed era diventata più difficile ed anche nuova. La polvere gli si accumulava sulle mani e piccoli frammenti affilati come ami brillavano sotto il sole. Giù al rifugio condivise con il gestore la sorpresa di essere il primo salitore di quella montagna, centovent'anni dopo. La frana l'aveva rinnovata completamente, i colpi dei martelli l'avevano ferita. I cunei di legno stavano sepolti sotto.

Ora siamo qui, soffochiamo nell'orizzontalità. Parliamo tutti i giorni di questa o di quella montagna che vorremmo aggiungere al nostro elenco. Ogni volta riconosciamo tra le montagne qualcosa di nuovo e sempre più siamo curiosi ed ignoranti. Esco dall'ufficio e torno a bere il caffè. Tutti parlano di spiagge, di qualità della sabbia e della roccia, di barchette e barche a vela ed anche sui giornali esiste solo il mare e la melassa pigra ed untuosa che lo circonda. Mi aumenta la fatica. Ogni volta che vado in montagna mi sembra di dover uscire da questa massa appiccicosa e questo mi aumenta la fatica. Il mare mi risucchia. Chiedo al mio socio se l'uomo di Cimolais abbia mai scritto un libro sulle spiagge. E tutti e due ridiamo.

Come quella volta che partimmo alle quattro del mattino, con le pilette in mano sotto il bosco. Il cielo appena chiaro tra i rami ed il rumore delle foglie secche erano la sola cosa quando decisi di spegnerle. Camminavo nel sentiero il salita sentendo quel rumore, aggrappandomi con gli occhi a quella luce. Il sentiero e l'alba si alzavano con il lento andare. Un rumore, all'inizio leggero, poi un boato ed un ombra contro il cielo appena chiaro, tra le linee dei rami. Poi schianti e fragor di roccia e, con la coda dell'occhio, il salto di un camoscio. Di nuovo silenzio. Riaccendo la luce e nella polvere distinguo un macigno terroso a venti metri dal sentiero. Riaccendo la luce l'alba si disegna sui rami di un pino marittimo. IL camion della spazzatura rumoreggia prima che arrivi il sole sulla spiaggia.

E noi di nuovo siamo persi nella folla. La folla? Qui dvanti al camino kirchl, alla Terza Torre, qui sulle Mesules. Montagne di carta, più che altro. Un'ora in coda alla ferrata del 1930, con gli scalini scavati nella roccia e la voglia di arrampicarsi castrata dal cavo e da pioli in ferro. Ripenso alla dinamite del Brenta. Appigli, sporgenze, spuntoni clessidre, tutto è inutile. Sono fermo nella fessura nera a parlare (poco) con uno sconosciuto, pesante, goffo, emiliano. Peccato per questo canale, per questo camino, per questa fessura abbandonata. Due ore dopo sono in cima. Il sole spalanca le sue braccia sull'altipiano. Sento parole di Castiglioni, le curve dei suoi sci sulla neve. Non c'è niente di programmato, di voluto in tutto questo. Nessuna volontà suprema mi ha portato qua. Sì, il sole è bellissimo, il piano è così pieno di sassi che vorresti abbracciarli tutti e la croce guarda la voragine con tanto affetto. Non c'è nessuna volontà nonostante la folla. Nessuna volontà, credo. Mi pare.


Ettore.

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