Questione di accenti - Tāmer Piccolo, 30 luglio 2005

Tamer piccolo. L'accento va sulla "a": anche questo č rispetto per le montagne, penso io mentre salgo il pendio assolato del van de Caleda. Cāleda, anche questo accentato sulla prima “a”? Sė, deve essere giusto Cāleda. Ancora passi faticosi. A che scopo difendere questi posti, criticare i bolli di vernice rossa, disprezzare gli spit, lodare i viaz quasi vergini per poi sbagliare accento? Sono quasi indignato… ma non č che sto invecchiando? Intanto mi raggiunge la cima di una collina detritica coperta d'erba, un’antica morena mossa dai ghiacci. Che siano sdrucciole le parole, dalle parti del passo duran? Mah, la fatica intorbida il cervello e fa fare pensieri strani… Al tavolo dell'ufficio, non capita.

Il van di Cāleda passa facilmente sotto i piedi e si chiude ad imbuto tra le pareti della Cresta di San Sebastiano e la massiccia parete sud del Piccolo Tāmer. Dalla forcella si aprono due invitanti possibilitā, percorsi da scoprire, ma solo uno da fare. Una fessura va verso sud ovest, sale la cresta del Tāmer direttamente. Niente da fare, dice il Presidente, di lā non si va da nessuna parte. Pių a destra c’č invece la nostra cengia. Un comodo sentiero sospeso centocinquanta metri sopra il Van che si percorre fino ad addentrarsi tra i due Tāmer. Una forcelletta, a mezz'ora dalla precedente, č il nostro attacco. Da qui si cammina su una breve rampa che porta sul fianco del monte, lo si attraversa per qualche metro e si arriva alla base del canalone che punta alla cima. I sassi sdrucciolano sotto i piedi e nelle mani. Dal Tāmer grande due uomini seduti sui macigni di vetta guardano in silenzio lo spettacolo di noi quattro che srotoliamo corde e cordini, che annodiamo e sciogliamo.

Allora, con curiositā mi muovo per salire il primo tiro di corda…Mi fermo un istante. La curiositā muove gli alpinisti? La curiositā di vedere cosa c’č dopo? Dunque, curiosamente entro nella fessura, la risalgo fino a che strapiomba sopra di me. Potrei continuare ma la relazione mi bisbiglia di andare a sinistra. Vedo i miei tre soci dieci metri pių gių sotto una pioggia di sassi. Una paretina instabile mi porta ad un chiodo con un cordino. Per farla breve, ci mettiamo un’ora per fare questi sessanta metri con un po’ di sicurezza. E la cima? Dei grossi macigni, delle meringhe sbriciolate su un cumulo di panna. Ecco: oggi abbiamo trovato un nuovo sistema per impossessarci di una vetta, per dirle quanto ci č piaciuta. E’ una scatola di plastica, quelle da congelatore, nel quale chiudiamo il libro di vetta. Sono centovent’anni che il Tāmer aspetta il libro, dai tempi di Cesare Tomč. Costruiamo un piccolo rifugio di pietre per la scatola mentre sopra la Civetta si accumula un temporale. I tuoni affrettano la discesa. Ora sdruccioliamo noi. Tāmer, Cāleda: sdrucciolano gli accenti e sdrucciola bene la roccia, da queste parti. Si annodano le corde, il fulmine accarezza i capelli e poi sdrucciola gių anche il mio caschetto bianco, giā ben ammaccato. Me lo immagino, tra trent'anni, pieno di terra nera e umida, vaso per le stelle alpine.

Noi, tra trent'anni, la nostra testa sarā
un vaso di stelle alpine.

Sassi e pensieri di sassi
cadono e di notte tornano su, lasciando i loro frammenti in briciole.
Il sasso arriva in cima e si ferma a guardare, č stanco.
Il sole all'alba lo fa tremare di nuovo e lo soffia gių.


Ettore.

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