La mattina è segnata dall’ombra del Toro. Il Campanile è una ragazza elegante che fa ombra al sole, mentre il vento freddissimo le gira attorno e gioca con lei. Il campanile è circondato da un intreccio di torri, braccia alzate, teste che ondeggiano, crode e corpi che gridano e cantano attorno.
Così io, Andrea e Maurizio attraversiamo il prato salendo tra cavalli e crochi bianchi spuntati sull’erba del prato di Toro. Poi l’erba scompare e arriviamo sulla cima del colle di sassi che si apre alla conca coi nomi più belli. Queste montagne hanno suoni speciali: castello, elmi, spe, talagona, sanlorenzo, santamaria, campanile e vedorcia. Sono speciali anche le forcelle. Il Toro comincia alla forcella Le Corde. Bisogna prima arrivarci. E’ una ripidissima scala, un ghiaione che sfotte la voglia di arrivare, una scala mobile in discesa. La rampa diventa una lingua di sassi a fianco tra il Campanile ed il Castellato.
In quell’imbuto s’infila un vento freddissimo che blocca le mani alle prime rocce. La salita sarà breve, ma noi sbagliamo subito in un camino nero che fa male alle mani. Poi la torre, che sembrava liscia, si apre in una larghissima cengia e qui c’è anche il sole. La cengia si avvita, diventa fessura e sale facile contro il cielo blu. Il quarto tiro è una spaccatura che separa la torre in due: le corna del Toro? L’ultimo è una fessura appesa nell’aria: la ragazza è conquistata, ma lei ti ha conquistato e puoi abbracciarla.
Appare la campana sul tetto del Toro. C’è il sole ed il suono del bronzo, c’è il vento, pensieri a pezzi e ricordi, seduti in cima a quell’ago. La vetta è il piccolo pavimento del cielo, un guscio di noce nel quale ci sentiamo re di uno spazio infinito.