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Il Santuario
di S. Antonio Abate

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Brevi cenni storici sulla figura e l'opera di S. Antonio abate.

Brano tratto da Biblioteca Sanctorum, Istituto Giovanni XXIII della Pontificia università Lateranense, Roma, 1962, vol. II, pp.106-114

 

ANTONIO abate, santo, detto anche il Grande, è il patriarca del monachesimo, famoso uomo di preghiera, celebrato lottatore contro i demoni, guaritore di infermi e direttore di anime. Nacque intorno al 250 a Coma (l’odierna Qemans), località posta sulla riva occidentale del Nilo presso Eracleopoli, nel medio Egitto, da una famiglia cristiana di floride condizioni economiche. Alla morte dei genitori, avvenuta intorno al 270, Antonio, ancora giovane, vendette le sostanze paterne, collocò la sorella presso pie donne, assicurandole i mezzi necessari al sostentamento, e distribuì infine ai poveri tutto quanto gli restava. Si ritirò in un luogo vicino al suo villaggio per condurre vita eremitica, tutta dedita al lavoro, alla preghiera e alla lettura delle Sacre Scritture, dapprima alle dipendenze di un santo monaco, in seguito in completa solitudine. Il demonio cominciò subito a tentarlo in diversi modi, ma Antonio gli resistette sottoponendosi a penitenze sempre più rigorose. Dopo poco si trasferì in un antica tomba scavata nel fianco di una montagna, la cui ubicazione era nota solo ad un amico fedele. Anche qui subì da parte del demonio terribili sevizie e così crudeli da restare tutto contuso.

Nel 285, quando ormai aveva trentacinque anni, interruppe qualunque relazione umana ritirandosi ad est, verso il mar Rosso, fra le montagne di Pispir. Si stabilì presso una fonte dove era un vecchio castello abbandonato, nido prediletto dai serpenti. In questo luogo era vietato l’accesso a chiunque, persino all’amico fedele che gli gettava i viveri al di sopra delle mura di cinta. Qui, alcuni anni dopo, diffusasi la fama delle sue virtù, molti solitari si posero sotto la sua direzione dando origine a due monasteri: uno ad oriente del Nilo presso le montagne del Pispir, l’altro sulla riva sinistra del fiume. Qui verso il 307 ebbe la visita del monaco S. Ilarione. Al tempo della persecuzione di Massimino (311) lasciò la solitudine per recarsi ad Alessandria a servire e a incoraggiare i confessori della fede. Costretto dall’indiscrezione del popolo, che il suo soggiorno alessandrino aveva maggiormente incuriosito, e anche dal desiderio di trovare una più completa solitudine, stabilì di addentrarsi nel deserto della Tebaide orientale (alto Egitto). Si unì ad una carovana di mercanti arabi e per tre giorni e tre notti camminò verso il Mar Rosso. Si fermò presso una montagna distante trenta miglia dal Nilo (Coltzum), dove trascorse gli ultimi suoi anni e da qui si recò a visitare il primo eremita S. Paolo.

I monaci del Pispir non tardarono a ritrovarne le tracce e si organizzarono per recargli una esigua scorta di viveri che il santo, a suo tempo, integrò con i frutti del suo orto che spesso le fiere o i demoni in aspetto di fiere devastavano, fino a quando il pio eremita ingiunse loro di allontanarsi in nome di Dio. Alcuni mesi prima della morte tornò nuovamente ad Alessandria per combattere gli Ariani.

Una quindicina di anni prima, aveva concesso a due suoi discepoli, Macario ed Amathas, di raggiungerlo e di far vita comune con lui. Poco prima della morte predisse loro la sua fine imminente con la proibizione di manifestare ad alcuno il luogo della sua sepoltura e ciò per sottrarre la sua salma agli onori. Morì il 17 gennaio 356 e in tale giorno e ricordato nei martirologi e nei sinassari.

Fu amico di S. Atanasio, che difese ed aiutò nella lotta contro gli ariani, per il quale si reco due volte, più che centenario, ad Alessandria a perorarne la causa, e dall’imperatore Costantino, al quale scrisse numerose lettere per il richiamo di Atanasio ad Alessandria. Fu in relazione inoltre con S. Ilarione, con S. Paolo eremita, con Didimo il Cieco. La sua vita è un tessuto di prodigi, di lotte col demonio, che lo resero uno dei santi più venerati del mondo cristiano. Antonio è l’iniziatore della vita anacoretica, cioè della vita di solitari dimoranti nel medesimo luogo ma non legati da regole. Mentre gli asceti più sperimentati si ritiravano a far vita assolutamente appartata (eremiti), i più giovani vivevano in gruppi sotto la direzione di un anziano, occupando ognuno una propria cella, separata ma vicina alle altre.

Delle opere di S. Antonio è rimasta una sola lettera autentica indirizzata all’abate Teodoro e ai suoi monaci. Le sette lettere ricordate da S. Gerolamo sembrano perdute, poiché le sette pervenute in latino probabilmente non si possono identificare con queste. Sono da rifiutarsi come apocrifi tutti gli altri scritti, assai numerosi, editi sotto il suo nome, come lettere, sermoni, regole e alcuni trattati. Le istruzioni che Antonio dava ai monaci, tranne quelle conservate da S. Atanasio, sono perdute.

Il culto di S. Antonio cominciò, per certi aspetti, durante la sua vita Antonio. S. Girolamo (Vita Hilarionis) attesta, infatti, le preoccupazioni del santo perché un certo Pergamo, ricco signore dell’Egitto, si riprometteva di trasportarne il corpo nella sua proprietà per erigergli una chiesa.
S. Atanasio, che riferisce la proibizione di Antonio ai due discepoli di manifestare ad alcuno il luogo della sepoltura, conservò con grande venerazione la tunica e il mantello che egli stesso molti anni prima gli aveva regalato. Ma il culto di Antonio varcò ben presto i confini dell’Egitto e si diffuse nell’Oriente e nell’Occidente.

S. Eutimio, abate in Palestina (+ 473), ne fece celebrare la festa il 17 gennaio e fu presto imitato da Costantinopoli. In Occidente la festa appare segnata al 17 gennaio nel Martirologio Geronimiano e in quello storico di Beda. Fu venerato in modo particolare dal popolo, il quale faceva ricorso a lui contro la peste, contro i morbi contagiosi e contro il cosiddetto « fuoco di S. Antonio ». La popolarità del culto incrementò una ricca iconografia, favorì la pia consuetudine di imporre il suo nome ai bambini e quella di intitolargli ospedali, confraternite, chiese, oratori, edicole.

Il luogo della sepoltura di Antonio era ancora sconosciuto quando Atanasio ne scriveva la Vita. Verso il 561 sotto l’imperatore Giustiniano fu scoperto il suo sepolcro per mezzo di una rivelazione. Le reliquie, trasportate ad Alessandria e deposte nella chiesa di S. Giovanni Battista, verso il 635, in occasione dell’invasione araba dell’Egitto, furono rilevate e portate a Costantinopoli. Di qui, nel sec. XI, passarono alla Motte-Saint-Didier in Francia, recate da un crociato al suo ritorno dalla Terra Santa. La chiesa costruita per accoglierle fu consacrata dal papa Callisto Il nel 1119. In seguito (1491), furono traslate a Saint Julien presso Arles.

La Vita di Antonio fu scritta da S. Atanasio, che cita persino un intero discorso, in cui è riassunta la dottrina ascetica del santo anacoreta Antonio L’opera fu scritta nel 357 secondo alcuni, nel 365-73 secondo altri, e tradotta in latino nel 388 da Evagrio di Antiochia. Questa Vita, la cui autenticità è ormai indiscussa, ha fissato gli aspetti e i caratteri più frequenti della letteratura agiografica monastica, esercitando un’influenza grandissima soprattutto in occidente.

S. Agostino, nelle Confessioni (VIII, 6, 14), nota il bene che ne ricavò al momento della conversione. L’opera diffuse largamente la conoscenza della vita monastica, diede l’avvio ad una abbondante letteratura di esaltazione della medesima. In essa il ruolo dei demoni, tentatori e tormentatori, è alquanto esagerato, come è troppo accentuata la tendenza al meraviglioso. S. Atanasio, servendosi dell’espediente caro ai retori (inserzione di discorsi), riesce ad illuminare pienamente la spiritualità del suo eroe.

 

 

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