Luigi
De Bellis

 


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Il mare non bagna Napoli

 
 

Il cardillo addolorato

 
 

L'iguana

 

 





Anna Maria Ortese



L'IGUANA: Romanzo


Impostato come una favola moderna, il romanzo è composto di ventiquattro capitoli, corredati da un apparato di titoli e sottotitoli, disposti simmetricamente. in un dittico («Il compratore di isole», «La tempesta»), comprendente, in ciascuna parte, dodici scene narrative.
La storia comincia con il viaggio di un giovane aristocratico milanese, il conte Carlo Ludovico Aleardo di Grees dei duchi di Estremadura, familiarmente chiamato Daddo. Egli ha lasciato il suo studio di architetto per l'annuale crociera di svago e di affari, spinto dal desiderio di acquistare nuove terre dove poter costruire «ville e circoli nautici per la buona società estiva di Milano». Ma egli è partito soprattutto con la riposta speranza di imbattersi in qualche opera strana e sconosciuta da affidare al suo amico editore Boro Adelchi, che è alla ricerca di qualcosa di inedito, di «anormale», che, come viene suggerito dallo stesso Daddo, potrebbero essere «le confessioni di un qualche pazzo, magari innamorato di una iguana». Dopo alcuni giorni di navigazione in mare aperto oltre le coste atlantiche, il panfilo del conte approda a Ocana, un'isola misteriosa «a forma di corno» non segnata sulle carte nautiche e che, «per quanto impercettibilmente», sembra muoversi. Appena sceso, il conte Daddo vi incontra il marchese don Ilario Jimenez della casata dei Guzman, unico abitante dell'isola, insieme con i due fratellastri, Hipolito e Felipe. I tratti di don Ilario recano i segni di una tenebrosa decadenza, una «autentica ma già rovinata bellezza». Poco dopo, Daddo incontra anche una «bestiola verdissima e alta quanto un bambino, dall'apparente aspetto di una lucertola gigante, ma vestita da donna»: è un'iguana, che egli poco prima aveva scambiato per una «vecchia» e che è adibita alle più umili fatiche e al disbrigo delle faccende domestiche presso la famiglia Guzman. Daddo è subito attratto da questa strana bestiola di nome Estrellita, nella quale non vede nulla di mostruoso e di abnorme: «non vi era in quella "vecchietta" nulla di meraviglioso; o, se per caso vi era, faceva parte della normalità del mondo, che esso stesso era abbastanza enigmatico». Gli appare, invece, come una singolare e graziosa creatura femminile, seppure segnata da una ambigua natura: «la creatura che egli aveva chiamato "nonnina" era, in realtà, ancor meno di una ragazza, essendo una iguanuccia di non più di sette otto anni». II conte rimane così ospite dei signori dell'isola e comincia per lui una strana esistenza, divisa tra l'interesse morboso per la bestiola e la conversazione colta con don Ilario, che si rivela un appassionato bibliofilo e un sensibile autore di poemi in lingua portoghese, ma che sembra oppresso da una «triste sonnolenza del cuore». È soprattutto per l'ambiguo comportamento che questi ha con la servetta (verso la quale alterna premurose attenzioni e aspri rimproveri) che Daddo sperimenta nel suo ospite una tormentata personalità, con qualcosa di vagamente folle nel profondo. Questa sensazione gli viene confermata da una lettera, capitatagli per caso tra le mani, in cui viene a conoscenza dell'anomalo ma intenso amore che in passato il marchese aveva nutrito per una scimmia di nome Perdita, poi scomparsa. Daddo comprende, allora, che il sentimento che don Ilario prova nei riguardi dell'iguana è il segno di un'oscura e irresistibile attrazione per gli animali, fatta di ripugnanza e di avversione: «della sua fantastica infatuazione non era rimasto che un vago e distratto disgusto per le creature inferiori in genere, che sfortunatamente si era riversato sulla iguana».
Ansioso di conoscere più a fondo il segreto di questo misterioso rapporto, Daddo spia la bestiola nel segreto della sua dimora, «una specie di tana scavata dalle volpi», dove essa vive in una perenne oscurità; interrogandola e parlando con lei, egli percepisce «la parte mancante di sé, bellezza o mostro, non importa». Nascono così nel giovane lombardo i più puri propositi di riscatto per la «stravagante creaturina», che egli vorrebbe sposare e portare via con sé. Ma l'iguana rifiuta il dialogo e le premure del conte, rimanendo chiusa con crescente determinazione nella sua infinita tristezza, e rivelandosi oscuramente cosciente del destino di umiliazione che la attende: lasciando così nell'animo del giovane il dolore di una «impossibilità somma e fondamentale di capire, di afferrare una verità, come la luce della luna del tutto presente eppure nascosta».

Il destino dell'animale è ormai segnato e la situazione precipita in una sinistra confusione, alla quale contribuisce l'arrivo sull'isola degli Hopins, una famiglia di ricchi possidenti americani. Giunti a Ocana per trattare la cessione di terre e il matrimonio di Ilario con la figlia, gli Hopins - ma soprattutto il «nero» arcivescovo Don Fidenzio -insinuano che l'iguana sia una creatura malvagia, anzi l'incarnazione stessa del male e la scacciano dal consorzio umano. Estrellita è messa al bando, lei che non più di due anni prima era stata l'oggetto più caro del marchese, al pari di una «gentile e affascinante figliolina»: «essa non era una così semplice bestiolina, come aveva finora creduto, e anzi si poteva paragonare a una vera, per quanto decaduta, creatura umana. Aveva sostituito Perdita!». Quando si era ammalato, il marchese aveva respinto l'iguana nella sua condizione di pura bestialità, di «nulla sostanziale» e ora, sposandosi, la lascia al suo destino di bestia «verde e brutta», come «un vero serpente», al quale resta precluso per sempre il paradiso.

Di fronte a questi ultimi accadimenti, la mente di Daddo vacilla, «parendogli questa una tormentata storia del Seicento spagnolo, pazzesca nella nostra epoca tanto chiara». Egli è preso da visioni, da strani sogni; incapace di «distinguere fra queste continue sovrapposizioni di reale e irreale», assiste persino, in veste di accusato, a un processo istruito per punire gli uccisori di Dio. Ormai assalito da una imperscrutabile forma di insanità e parendogli, infine, di vedere in un pozzo l'immagine di Perdita «con due occhi fissi e grandi, in un volto non più grande di un chicco di riso», egli scende per salvarla dall'annegamento e muore.
La narrazione si chiude nel ricordo struggente del conte, che i due fratelli Guzman e la servetta - proprietari di un piccolo albergo fatto costruire sull'isola dopo la partenza di don Ilario - esprimono in brevi liriche: «Conte di Milano / non aspettare, / non voglio smeraldi / voglio essere / come te / pietoso e giusto».

Il romanzo (il primo della Ortese) si snoda in una trama di non facile decifrabilità, per i suoi continui slittamenti tra il piano della realtà e quello del fantastico, per le sovrapposizioni di varie dimensioni temporali e stratificate soglie dell'onirico. La vicenda anomala, il carattere allegorico della narrazione e il tono favolistico-letterario non ne hanno favorito il successo.

 

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