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Giuseppe Raimondi



NOTIZIE DALL'EMILIA: Racconti autobiografici


Si compone di diciassette racconti, preceduti da alcune pagine introduttive, dove l'autore spiega che per «Notizie» si devono intendere le «solite notizie, dei soliti uomini». Attraverso una «cronaca ordinaria» - come di notizie ritrovate «in un vecchio foglio di giornale di tanti anni prima dalla fruttarola; o nella carta delle scarpe smesse» -, Raimondi evoca il «senso di felicità in terra» dell'emiliano che obbedisce all'intimazione del «lasciar stare le favole» per «ripensare ai fatti». Racconta, senza seguire un ordine cronologico lineare, vari momenti della sua vita a Bologna e nella Bassa padana, dando rilievo, in particolare, alle figure dei famigliari e agli affetti. Nella narrazione, che sfuma sempre nella memorialistica, nella saggistica e nell'autoriflessione, parla di sé alternando la prima alla terza persona, celandosi talvolta dietro il nome d'arte di Domenico o Dominique, già usato in uno dei suoi primi scritti (Domenico Giordani: Avventure di un uomo casalingo, 1928).

Tra le molte suggestioni che il libro suscita, è possibile rintracciare alcuni temi centrali. I primi racconti riguardano soprattutto la famiglia e i ricordi di un'infanzia ricca di affetti, ma segnata dalle difficoltà economiche. In Martedì grasso Raimondi racconta di quando, a dodici anni, fu invitato per il carnevale a casa di un ricco compagno di scuola. I genitori, poco abituati alle feste, gli guastarono il divertimento, consentendogli soltanto di comperare una maschera: «Un volto ignaro, dov'erano cavati gli occhi, la bocca, come da un sentimento di inalterabile tristezza», che, dice l'autore, «gli restò, per la vita».
Le figure dei genitori sono quelle che campeggiano. In Una notte con la luna leggiamo il dialogo tra padre e figlio, insonni per il caldo e per la musica che entra dalle finestre del casamento «brutto ma affettuoso» dove vivono. Il padre racconta le dure esperienze del proprio lavoro, ed esorta il ragazzo a costruirsi un futuro oltre la miseria dell'officina, come è giusto per un uomo libero, nato in una generazione che crede di poter trovare la felicità. Ma il padre è raffigurato anche nei suoi momenti deboli, come quando, in Il Pontelungo, concede attenzioni a Elvira Mariani, la bella e provocante moglie di un amico, che affitta alla famiglia Raimondi due stanze per la villeggiatura.

Alla madre è interamente dedicato l'ultimo racconto, La vecchia. Ella è ritratta quando, nell'inverno tra il '44 e d '45, viveva sola a Bologna, stanca e incapace di comprendere gli ennesimi sacrifici cui la guerra la costringeva. Il figlio, rifugiato in un paese della Bassa, manteneva con lei sporadici contatti; andò a trovarla in bicicletta, l'ultimo anno di guerra, e passò in rassegna tutte le fatiche della sua esistenza: «I sentimenti tradotti e consumati tutti nei fatti, nell'azione consueta. Una povera vita di grande dignità, di una bellezza sicura». Incrollabile era stata, per lei, la fede nella protezione dei santi, invocati in lunghi e confusi discorsi notturni («Loro mi vedono. Sono buoni»). anche se, al culmine della stanchezza, non mancò il dubbio: «E se loro non mi vedono?».

Un secondo nucleo di tre racconti è dedicato agli anni della seconda guerra mondiale, a quei tanti eventi, accaduti in pochi mesi, che avevano reso la memoria «esaltata, e quasi impazzita», «incapace di disporre le cose secondo le prospettive normali, matematiche del tempo». In Vigilia dell'armistizio l'autore descrive il suo 8 settembre 1943, trascorso per le vie e tra i monumenti e i dipinti delle chiese di Ferrara, per tentare di «allontanarsi dal presente, evadendo a grande fatica verso un mondo e in un tempo di sogno»; ma per tornare, infine, «con maggiore tristezza alle condizioni della vita reale». Un ballo mancato (il solo racconto diviso in tre parti numerate) è quasi il riepilogo delle angosce degli anni di guerra, anni che furono «il contrario giusto della felicità». Il tema centrale è la "fuga", prima verso la Bassa, poi in montagna, dove la famiglia dell'autore fu costretta a convivere con i tedeschi, tra difficoltà di ogni genere e le paure per le giovani figlie. Chiude il nucleo sulla guerra il resoconto, costellato da riferimenti artistici e letterari, del Ritorno in città: tutta la famiglia, stipata su un camion tra i libri, in un viaggio difficile, ma pieno di speranza, che la portò a Bologna nelle giornate della Liberazione.

Nella parte finale del libro, quattro racconti ruotano intorno alla figura di Angela, la donna amata e poi sposa dell'autore. Raimondi racconta con frequenti flashback la loro storia, indugiando sulle atmosfere e i colori che l'avvolgono, evocando le sensazioni provate negli incontri e nelle separazioni. Rivede casualmente la donna quindici anni dopo il primo incontro, in cui l'aveva contemplata come in un quadro: «Dall'orizzonte di terra arata all'infinito, tra cui rilucevano plaghe d'acqua vaste come laghi, una donna dai capelli biondi, recando la bicicletta in mano, gli apparve in una luce mite». L'attrazione dell'inizio era ormai maturata in un sentimento più profondo, che spinse i due a frequentarsi felicemente, pur abitando in città diverse e pur essendo lei già legata a un altro: i loro incontri avvenivano in una «tenera luce verde» che penetrava «dalla finestra, quasi che la campagna giungesse fino al cielo». All'improvviso, però, Angela decise di interrompere il rapporto, sebbene ancora innamorata. Dopo l'alternanza di separazioni torturanti e riavvicinamenti, si arriva al colpo di scena finale: l'autore informa di aver nuovamente ritrovato Angela e di averla sposata «in autunno» ma non rinuncia alla cifra misteriosa e quasi fiabesca, chiedendosi: «in quale autunno?». La sua vita di lì innanzi fu felice, e tuttavia persiste il dubbio sulla realtà di quella beatitudine: «Morirò, ignorando se fu solo un sogno».

Il libro ottenne il premio Viareggio nel 1954 e fu accolto con favore dalla critica. I temi erano già presenti in Giuseppe in Italia, ma qui risultano più spontanei e meglio organizzati: «salgono dal profondo», ha scritto Arnaldo Bocelli, «vengono di lontano, fatti sereni dalla memoria lirica; e tendono non già a valere ciascuno per proprio conto, ma a coordinarsi».

 

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