È il secondo personaggi "storico" che si incontra
nel romanzo, anch’esso descritto dal Ripamonti nella Storia patria
senza peraltro essere nominato, e identità rato dal Manzoni con
Francesco Bernardino Visconti. Feudatario di Brignano Ghiaradadda,
fu messo al bando nel 1603 dal governatore di Milano, conte di
Fuentes, come capo di una banda di masnadieri e infine convertito
dal cardinale Borromeo (ma ricerche successive l’hanno identificato
con il fratello di Bernardino, Galeazzo Maria). Nel Fermo e Lucia è
indicato come il Conte del Sagrato, in ricordo di un'efferato
delitto compiuto appunto sulla soglia di una chiesa, e "differisce
assai dall’innominato: come notava Rodolfo Renier - di gran lunga
più turbolento, egli manca quasi interamente di generosità; è un
delinquente triviale, una specie di Egidio alla terza potenza. [...]
Il conte vende la sua potente mediazione delittuosa a suon di doppie
[monete d’oro di diverso valore, a seconda degli stati], e guai a
chi non paga con scrupolosa puntualità". Un feroce bandito, dunque,
ma animato da sentimenti antispagnoli, tanto che a don Rodrigo, il
quale gli si era rivolto con espressioni spagnole, intimerà
bruscamente: " Tenga queste parolacce per adoprarle in Milano con
quegli spadaccini imbalsamati di zibetto [profumati], e con quei
parrucconi impostori che non sapendo essere padroni in casa loro, si
protestano [dichiarano] servitori d’uno spagnolo infingardo. [...]
Intendiamoci fra noi da buoni patriotti, senza spagnolerie".Cesare
Angelini ha suggestivamente visto nell’innominato "l’ultimo uomo di
Machiavelli: [...] l’eroe, il superuomo formatosi attraverso lo
spasimo critico del Rinascimento; l’uomo che non si adegua al piano
comune degli uomini", espressione di un titanico individualismo che
sarà sconfitto dal cardinale, incarnazione di "valori schiettamente
umani e religiosi", cosicché quello di Federigo si configura come il
"trionfo dell’idea cristiana sull’idea rinascimentale", in sintonia,
quindi, con il generale risveglio religioso propiziato dal
Romanticismo. Ma l’episodio fondamentale della vita del personaggio,
la notte che precede la conversione, ha riproposto l’arduo tema
della religiosità manzoniana.Proprio perché relative ad una
questione così complessa, le ipotesi critiche sull’episodio
divergono sostanzialmente: da una parte si sostiene l’intervento
miracoloso della Grazia divina.
Secondo la dottrina giansenista, dall’altro si sottolinea la
verisimiglianza del processo psicologico destinato a sfociare nel
ritorno alla fede. Di seguito due letture, rispettivamente di Luigi
Russo (ad. p. 120) e Ferruccio Ulivi (ad. p. 194), che
contribuiscono a chiarire i termini del problema anche (è il caso
della seconda) dal punto di vista teologico.
La conversione in atto dell’innominato
Il principio della conversione dell’innominato si ha fin da quando
egli comincia a provare una certa uggia delle sue scelleratezze; e
fin da quando queste scelleratezze si risvegliano nella sua memoria,
se non nella sua coscienza, tutte le volte che ne commette una di
nuovo. Già un segno di una prima crisi della sua coscienza è in quel
dispetto provato, per aver preso quel brutto impegno con don Rodrigo
[cap. XX]. [...]. Il Manzoni, per questi preliminari della
conversione, adopra parole assai caute: parla di uggia e non di
rimorso, di risveglio nella memoria e non nella coscienza, di
dispetto e non di pentimento. Poi, in ultimo, parla di ripugnanza,
adopera una parola più grossa; ma la ripugnanza è sempre anche essa
qualcosa di vago e di oscillante e di contradditorio. "Una certa
ripugnanza provata ne’ primi delitti, e vinta poi, e scomparsa quasi
affatto, tornava ora a farsi sentire". Difatti, se pure non per
contraddire, il Manzoniaggiunge:
"Ma in que’ primi tempi, l’immagine di un avvenire lungo,
indeterminato, il sentimento d’una vitalità vigorosa, riempivano
l’animo d’una fiducia spensierata".
L’uggia, I’increscimento della memoria, il dispetto, la ripugnanza
sono ancora stati d’animo vaghi che non giungono ad essere un
pensiero consapevole. E per questo noi li abbiamo chiamati i
preliminari della conversione. La conversione vera e propria
comincia quando quegli stati d’animo salgono nella sfera della
meditazione, si riconoscono in un pensiero, si puntualizzano in una
domanda, in un problema. Le domande e i problemi stanno ad indicare
una crisi di pensiero Qualsiasi crisi o religiosa o artistica, o
politica, deve sempre avere questo fondo di pensiero’ deve essere
innanzi tutto, non dispiaccia il termine, una crisi filosofica.
Orbene l’innominato esce dal limbo degli stati di animo sospesi, e
si avvia verso una nuova filosofia, verso tutta una nuova visione
della vita, quando esclama e si domanda: "Invecchiare! Morire! e
poi?". È questo pensiero della morte, a cui si congiunge
inevitabilmente il pensiero dell’al di là, che inizia la conversione
filosofica dell’innominato. Anche per l’innominato, come per il
Carmagnola, la morte non si presenta come qualche cosa di fisico, ma
essa stessa è cosa trascendentale, è la morte disarmata che viene
sola, nasce di dentro. È questo concetto interiore della morte che
già ci fa sentire che l’innominato, per malvagio e peccatore che
sia, vive già in un’atmosfera religiosa.Cotesto pensiero della morte
che viene dal di dentro è la prima fase della vera conversione
dell’innominato [...]. L’innominato, già familiare col pensiero
della morte, si colloca intanto nella schiera dei magnanimi:
"Avvezzo io son da lungo a contemplar la morte e ad aspettarla" dice
il Carmagnola rivelando, in quella battuta, quel sentimento virile
della vita che hanno tutti i forti, gli uomini generosamente attivi,
che pur amano segnare di un’ombra il loro lavoro, quell’ombra che
poi è il presentimento stesso dell’eternità. Orbene anche
l’innominato, che cede all’impetuoso ricordo della morte, della
morte che vien di dentro, esce dalla schiera volgare dei malvagi e
si svela già per uno spirito penetrato di eterno. Questi continui
combattimenti con l’idea della morte sono già il primo annunzio di
Dio. Di fatti all’idea della morte si congiunge l’idea del giudizio
di un giudice sopramondano:
"Ne’ primi tempi, gli esempi così frequenti, lo spettacolo, per dir
così, continuo della violenza, della vendetta, dell’omicidio,
ispirandogli un’emulazione feroce, gli avevano anche servito come
d’una specie di autorità contro la coscienza: ora, gli rinasceva
ogni tanto nell’animo l’idea confusa, ma terribile, di un giudizio
individuale, d’una ragione indipendente dall’esempio; ora, l’essere
uscito dalla turba volgare de’ malvagi, l’essere innanzi a tutti,
gli dava talvolta il sentimento d’una solitudine tremenda".
In questo periodo testé letto si coglie il profondo concetto di Dio
che aveva il Manzoni. Gli pareva sentirlo gridar dentro di se: Io
sono però. Iddio viene di dentro come la morte. Non dall’esterno e
per l’insegnamento altrui, ma dall’interno e per intuizione
insoffocabile nasce Iddio nel cuore degli uomini, come sentimento
della morte prima, come sentimento della giustizia poi, e infine
come sentimento della sua eterna presenza. Questo primo punto è
importante che sia fissato per combattere l’interpretazione di
alcuni critici cattolici, che attribuiscono la conversione
dell’innominato agli occhi di Lucia prima, e alle parole
catechistiche del cardinale dopo. Per il Manzoni, una conversione
viene sempre dal di dentro, gli incontri ed i colloqui con gli altri
uomini sono soltanto la parte fenomenica, contingente, di quella
conversione. Chiamerò questo concetto manzoniano di Dio il concetto
del Dio-passione, da contrapporre al Dio-mito di più superficiali
credenti: un Dio che viene precisamente dal di dentro, colui che
atterra e suscita, che affanna e che consola, della strofa del
Cinque Maggio. È lo stesso concetto di Dio che il cardinale chiarirà
nel colloquio con il grande ribaldo:
"Non ve lo sentite in cuore, che v’opprime, che v’agita, che non vi
lascia stare, e nello stesso tempo v’attira, vi fa presentire una
speranza di quiete, di consolazione, d’una consolazione che sarà
piena, immensa, subito che voi lo riconosciate, lo confessiate, lo
imploriate?".
Intanto osserviamo come il Manzoni ha con molta esattezza scandito
questi tre successivi momenti del ritrovamento interiore di Dio;
innanzi tutto il sentimento della morte, poi il sentimento del
giudizio individuale, ed infine il sentimento della presenza di Dio.
[...]11 Manzoni in questi tre momenti, senza formule filosofiche,
nella rappresentazione trasparente della poesia, ci ha saputo
descrivere tutto il capovolgimento di una visione filosofica della
vita. Il Manzoni è stato profondamente accorto nel mettere per
ultimo il sentimento della presenza di Dio, il quale è al di sopra
di ogni nostra volontà. Quest’ultimo sentimento invero è quello che
rovescia la visione dell’innominato: Io sono però. L’oggetto che ha
una sua esistenza immutabile, al di fuori ed al di sopra del
soggetto che lo pensa.Gli altri due momenti precedenti sono
vagamente religiosi, ma non sono ancora concretamente religiosi nel
senso di una religione positivamente intesa. Tutti possiamo avere un
senso religioso della morte, tutti avvertire la paura di un giudizio
eterno, il giudizio stesso degli uomini, il giudizio della storia
che è anch’essa una forma di eternità, la giustizia stessa delle
cose che si viene compiendo mentre noi viviamo ed operiamo; non per
questo, noi siamo entrati nel mondo di una religione positivamente
intesa, di una religione del trascendente. Per sentirci al centro di
questa religione del trascendente, dobbiamo giungere all’aperto e
pauroso riconoscimento di qualche cosa che è, che esiste al dimori
di noi, al di fuori della nostra volontà. Ed è quello a cui giunge
l’innominato, il quale fin da questo momento dunque si converte non
già ad una vaga e generica religiosità, ma ad una precisa puntuale e
positiva religione del trascendente. Sicché se io combatto
l’interpretazione magica o taumaturgica della conversione
dell’innominato e sostengo invece che tal conversione è razionale in
ogni suo momento e cotesta crisi segue lo stesso processo di ogni
altra crisi, per dir così, laica, ciò non pertanto non vorrei che si
pensasse che io voglia fare dell’innominato l’eroe di una religione
laica, come pure è stato tentato da qualche interprete. La crisi
dell’innominato sbocca ad un riconoscimento manifesto di Dio: Io
sono però; al riconoscimento di un oggetto come dicevo che ha una
sua esistenza immutabile, al di fuori e al di sopra del soggetto che
lo pensa; quindi è una crisi che, per il Manzoni, si conclude in un
pieno ed integrale trascendentismo. Ma volevo piuttosto rilevare
come il Manzoni non ci fa giungere ex abrupto a questo
capovolgimento di visione; tale conversione, dico, appare preparata,
graduata, da quelle due precedenti fasi del pensiero della morte,
del timore del giudizio eterno. [. . . ] Quel però tradisce
verbalmente che si tratta di un dibattito logico, di un dialogo tra
un’anima e Dio, che procede per via di mute argomentazioni. In
questa specie di tenzone, di muto contrasto filosofico,
l’avversativa a me pare artisticamente legittima. Anzi in forza di
quell’avversativa, io sono stato tratto a definire che la
conversione dell’innominato in questa pagina è presentata come una
crisi di pensiero. [...] E soltanto perché si tratta di una
risoluzione di pensiero, tutti gli altri stati d’animo e riflessioni
dell’innominato hanno qualche cosa di consenquenziale, come i
corollari tratti da una premessa: con la coscienza della presenza di
Dio, dell’essere di Dio, indipendente dalla nostra volontà, ecco che
l’innominato comincia ad avere il sentimento dell’adempirsi della
sua legge, anche se quella legge è da lui disconosciuta. La legge di
Dio si dispiega anche senza la nostra ratifica od adesione, questo è
un altro implicito ragionamento dell’innominato:
"Nel primo bollor delle passioni, la legge che aveva, se non altro,
sentita annunziare in nome di Lui, non gli era parsa che odiosa;
ora, quando gli tornava d’improvviso alla mente, la mente suo
malgrado, la concepiva come una cosa che ha il suo adempimento ".
Ma tale riconoscimento in una natura forte ed inselvatichita non può
venire senza contrasti. Da ciò i combattimenti della sua volontà
contro la lenta invasione di questi pensieri religiosi: una troppo
immediata adesione a codesti pensieri religiosi sarebbe stato segno
di superficialità, segno di un rugiadoso ottimismo catechistico da
parte del Manzoni stesso. [...]È stato detto che l’episodio
dell’innominato è il capolavoro della tetraggine romantica. In
verità nulla di tetro nelle pagine dell’episodio, se non ce lo
aggiungiamo noi con la nostra fantasia; romantico, se mai,
l’innominato è solo per questo contrasto con se stesso, come
romantica è la monaca di Monza, non già per i foschi delitti (da cui
in fondo il Manzoni ritrae lo sguardo) a cui è mescolata, ma per la
sua capricciosa condotta che non è una capricciosità di viziosa, ma
una capricciosità di sentimento, di donna tormentata, capricciosità
nascente dal disagio stesso della sua coscienza.Qui si chiude la
pagine critica, per dir così, sulla conversione dell’innominato, che
è forse la più profonda e la più intensa dell’episodio, dove ogni
paragrafo segna un avanzamento nella parte più occulta della
coscienza. Qui il Manzoni è giunto al culmine della sua analisi
critica: dopo, il tono muta, all’analisi critica succede la forma
rappresentativa diretta, dove continua la chiaroveggenza psicologica
ma nella forma diffusa del racconto.
"Così in quest’occasione, aveva subito impegnata la sua parola a don
Rodrigo, per chiudersi l’adito a ogni esitazione. Ma appena partito
costui, sentendo scemare quella fermezza che s’era comandata per
promettere, sentendo a poco a poco venirsi innanzi nella mente
pensieri che lo tentavano di mancare a quella parola, e l’avrebbero
condotto a scomparire in faccia a un amico a un complice secondario;
per troncare a un tratto quel contrasto penoso chiamò il Nibbio, uno
de’ più destri e arditi ministri delle sue enormità, e quello di cui
era solito servirsi per la corrispondenza con Egidio. E, con aria
risoluta, gli comandò che montasse subito a cavallo, andasse diritto
a Monza, informasse Egidio dell’impegno contratto, e richiedesse il
suo aiuto per adempirlo".
Il tono qui è mutato; dall’analisi critica siamo passati al racconto
rappresentativo. Resta sempre lo stesso psicologo profondo, ma ecco
qui un altro dei luoghi in cui si avvicenda il momento della
riflessione critica, dell’alta meditazione [...] e il momento
rappresentativo e più propriamente poetico del racconto. [...] Dopo
questa analisi critica, il Manzoni ritorna ai suoi modi narrativi,
ma la riflessione è tutta infusa delle riflessioni precedenti, ed
intanto si procede oltre nella storia psicologica del personaggio.
Alla crisi di pensiero illustrata nella pagina riflessiva segue la
crisi di volontà rappresentata direttamente nella pagina narrativa;
difatti è detto che l’innominato impegna subito la sua parola con
don Rodrigo per chiudersi l’adito ad ogni esitazione. Ecco ancora
che l’innominato chiama il Nibbio per troncare il suo penoso
contrasto interno. In questo puntellare la sua volontà con la forza
del fatto compiuto è il segno della sua debolezza; l’innominato non
pecca più spontaneamente, pecca volontaristicamente. E in questo
proposito del male si avverte il contrasto interno della coscienza;
l’ostinazione, la pervicacia non è già più che una paura
dissimulata, uno sgomento, una scossa della nuova via, del nuovo
orizzonte spirituale che gli si schiude. La conversione è già
avvenuta, sostanzialmente, nell’animo dell’innominato fin da questo
momento: l’incontro con Lucia e le parole di quest’ultima non danno
che il finale impulso decisivo. Il lettore vede dunque come questa
crisi è nettamente preparata, e gradatamente preparata dal Manzoni:
quella dell’innominato è una rivoluzione spirituale che è però una
evoluzione, non è il colpo di fulmine, la visione di Damasco, non è
il miracolo. Nell’innominato selvaggio e malvagio era già implicita
l’idea di Dio; e questa si rivela prima come un’inquietudine, poi si
rivela come una certezza.
Conversione e miracolo
Il miracolo rientra, con rilievo, nella dottrina del giansenismo.
Secondo quella dottrina, la natura umana, trascinata al male dalla
concupiscenza I, necessita, a ciò che l’uomo si salvi, del dono
della grazia. Essa (com’è ben noto) è qualcosa di arcano che Dio non
deve ad alcuno; e la possibilità di accordarla col libero arbitrio
fu, come ognuno sa, il punto dolente della teologia secentesca.
Secondo il rigorista, nessuna buona azione è possibile; l’uomo nato
nel peccato, è libero solo per il male, è impotente al bene, e le
esortazioni e le grazie per così dire, ab externo, non fanno che
indurirne vieppiù il cuore. Grazia e volere divino si identificano.
E quanto allo stato del peccatore, costui non può ritenersi pentito
quando è ancora privo della speranza. In tale condizione gli è
perfino impossibile la preghiera. Se il solo timore del castigo
senza l’amor di Dio spinge al rimorso, più il rimorso è forte, più
s’infiltra la disperazione. Il timore dice un altro punto
sconfessato, come i precedenti, dalla Chiesa - non ferma che la
mano, e il cuore è abbandonato al peccato finché l’amore del bene
non lo rettifichi e lo guidi; si tratta cioè di un timore "servile,>
che fa vedere Dio come padrone imperioso e difficile. La vera
conversione avviene quando il peccatore comincia ad amare Dio [...].
Nell’insieme, una concezione della conversione dei peccatori dove
forse non è assurdo trovare più di una coincidenza con la crisi
dell’innominato; le cui fasi sono infatti, sottolineate dal
passaggio dello stato d’animo della "notte tremenda" [cap. XXI] -
quando, alla fine di riflessioni spinte sin quasi al suicidio, gli
sopraggiunge il sospetto del vero dell’altra vita con le sue pene:
qualcosa, cioè, "di più tristo, di più spaventevole," di questa -
alla rivelazione dell’amor di Dio che gli parla per bocca di
Federigo, e per cui si compie veramente il "prodigio della
misericordia" - come la conversione è detta [cap. XXIII -: quel
prodigio che spande come un’aura soprannaturale, ispirando in coloro
stessi che vi assistono senza saperne, "una gioia di cui non sentono
ancora la cagione", "un ardore indistinto di carità e un rendimento
di grazie" del quale il convertito è D’oggetto non ancor
conosciuto", e che è dovuto all’azione dello Spirito, che qui entra
con tutta la potenza dei suoi effetti. [...]È ora soltanto che il
peccatore si sente perdonato, "La première grace que Dieu accordo au
pécheur c’est le pardon de ses péchés", dice una delle proposizioni
del Quesnel. Ed ora veramente si attua la prospettiva misericorde di
Lucia: "Dio perdona tante cose per un’opera di misericordia" [cap.
XXI], perché ora soltanto l’opera di misericordia, prima intimamente
prevista, è decisa sotto l’impulso dell’amor di Dio. E solo da ora
comincia quel meccanismo psicologico della nuova vita, che,
anch’essO, il Manzoni ha dedotto - sembra a noi - dai suoi testi
secenteschi. Com’è noto dice l’innominato al Cardinale - dopo il
pianto salutare - di provare "un refrigerio, una gioia, sì una
gioia" quale non ha provata mai in tutta la sua orribile vita [cap.
XXIII]. È un luogo che non si trova nell’abbozzo [Fermo e Lucia], e
che è testualmente in più di una predica di Massillons; con la
giunta che anche Massillons non manca di citazione, e relativo
commento, della parabola del figliuol prodigo.Nella narrazione
dell’evento non vi è un sol tratto che lasci di porne in luce la
straordinarietà: e non come violenza fatta alle leggi della natura -
secondo un concetto taumaturgico del miracolo, che qui non è in
alcun modo in causa -, ma come intervento eccezionale della volontà
di Dio; eccezionale in quanto gratuito e diverso da tanti altri
casi. Non si tratta, dunque, di "miracolo" in qualcuno dei sensi
previsti già dalla critica; ma neppure, soltanto, di "un sapiente
disegno di Dio, per la sua indulgenza dalle mille vie, per entro
l’ambito di un generico "fervore di fede", come vuole il Momigliano
ciò che renderebbe perfettamente inutile la discussione - apparsa
infatti vuota e antiquata - se sia grazia, o psicologia. E la
risposta è che si tratta di un moto psicologico dell’uomo: ma
psicologia svolgentesi secondo un procedimento previsto dagli autori
religiosi, dove rientra il quid meraviglioso della grazia, come si
conferma quando il neoconvertito passa dalla fase d’orrore dei
delitti al riconoscimento di Dio e della sua bontà.
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