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Trascrizione della Conferenza di Don Bruno Forte 

tenuta il 7/4/98, Martedì Santo, presso la Basilica di Piedigrotta

sul tema "La nostalgia del Padre"

 

PRESENTAZIONE del Presidente, Mario Pugliese

E' molto bello che nell'anno che segna il 30° anniversario del ritorno al Padre di don Giusto, in continuità con quanto già avvenuto in anni precedenti, come per esempio l'anno scorso, in cui è stato approfondito il tema dello Spirito Santo, quest'anno con la guida di don Bruno Forte approfondiamo il tema del Padre, "La nostalgia del Padre". Devo dire che quando sento questa riflessione corro col pensiero a personaggi come don Giusto, Enrico Casola, don Rosario Maglia, che mi han fatto correre con l'idea al pensiero di Dio come padre.  Devo dire la verità, pensando a queste persone, mi viene sempre d'assumere un atteggiamento un po' di padre, perché con la loro semplicità, con l'entusiasmo interiore, direi, con una certa ingenuità, mi hanno spesso fatto assumere l'atteggiamento del padre, di quello che doveva magari difendere; però, contemporaneamente la loro posizione seria, veritiera, solida  mi ha fatto anche sentire figlio; questo è uno dei misteri della vita, perciò ad un certo momento scopri comuni interessi, comuni amicizie; e diciamo che è un tema, questo del Padre, di grande attualità, che nella mia generazione viene vissuto come posizione del Padre nei confronti dei figli, ma certamente attende implicazioni più ampie, che approfondiremo. Devo dire che proprio pensando a questi personaggi, che ci accompagnano certamente con la loro preghiera, col pensiero che noi rivolgiamo loro, si spiegano alcuni fatti particolari: si spiega per esempio perché un famoso teologo che tiene esercizi spirituali in Terra Santa o ai vescovi venga aiutare persone, come me, ad approfondire, a capire dei temi che diversamente sarebbero di estrema difficoltà.  Questo è un aiuto che il Signore ci dà: noi abbiamo solo l'obbligo di coglierlo nella maniera migliore, e per farlo appieno, possiamo approfittare per rivolgere alla fine tutte le domande che ciò che don Bruno ci avrà illustrato farà sorgere spontaneamente.

 

 

Don BRUNO FORTE

Grazie, grazie a Dio e grazie a tutti voi, cari amici, che, nel cammino della fede, siete anche sorelle e fratelli nella ricerca del volto di Dio.

Stasera vorrei parlarvi della Nostalgia del Padre. Vorrei farlo a partire non tanto da affermazioni già date, già poste, quanto piuttosto dalla ricerca del cuore, dalle domande, perché ciò che nella vita è veramente importante non è dare risposte, è porre le domande vere; sono le domande vere che ti portano ad incontrare le sorgenti di vita che zampilla per l’eternità.

C’è un pensatore ebreo Edmond Jabès, che ha scritto fra l’altro un’opera: “Il libro delle interrogazioni”, dove dice così: “Il mio nome è una domanda”. Noi sappiamo che nella tradizione ebraica il nome è l’identità più profonda della persona; dire il mio nome è una domanda significa dire: io sono un pellegrino, un cercatore, io sono un assetato che cerca qualcosa. In un’altra pagina di questo libro delle interrogazioni egli scrive: “Mi hai donato il giorno, perché non potevi donarmi se non ciò che sei, madre, mi hai donato i giorni della mia morte. Da allora vivo e muoio in te che sei amore, da allora rinasco dalla nostra morte”.

E’ un testo bello, perché ci dice tre cose che sono molto semplici e molto vere:

- la prima che i nostri giorni sono i giorni della nostra morte, siamo tutti gettati verso questo vallo estremo, quest’ultimo silenzio;

- il secondo che questo cammino verso la morte è tuttavia una sempre nuova lotta per la vita, vivo e muoio in te che sei Amore, perché nessuno si arrende all’evidenza della morte. Noi tutti cerchiamo di dare un senso alla vita;

- e infine che è proprio in questa lotta, in questa lotta che ci apre all’amore che noi rinasciamo continuamente dalla nostra morte.

Io vorrei semplicemente in questa riflessione, in ascolto delle domande vere e anche nel tracciare orizzonti per la ricerca del volto del Padre, percorrere queste tre tappe e cioè: la prima, partire dalle domande del cuore e dalle domande del tempo, partire cioè da questo nostro essere gettati verso la morte, non solo come condizione individuale, ma come condizione collettiva in questo drammatico tragico 1999.

Vorrei poi, in una seconda parte, pormi in ascolto dell’altro e cioè ascoltare le domande che il Padre stesso ci pone attraverso ciò che ci ha detto di sé in Gesù Cristo per poter nell’ultimo momento incontrarci nel Padre, tracciare degli orizzonti in cui rinascere dalla nostra morte e vivere il nostro impegno di cercatori del volto nascosto.

Dunque, tre arcate di un cammino alla ricerca del Padre: gli scenari del cuore, gli scenari del tempo, dove abita il Padre, in ascolto dell’altro, che si è detto a noi in Gesù Cristo, incontrarci nel Padre di tutti.

Comincio da questo primo momento - alla ricerca del Padre - e comincio proprio da questa riflessione semplice, umile sulla nostra condizione di pellegrini verso l’ultimo silenzio, verso quella notte che sembra abbracciare tutte le cose.

Questa è l’evidenza. Qualcuno dice che vivere significa in fondo imparare a morire, che questo nostro essere gettati verso la morte è la condizione più universale e proprio per questo la condizione da cui partono in verità tutte le nostre domande.

La morte è la ferita, l’interruzione che ci rende pensosi ed è assolutamente insensato dire, come dice la sapienza epicurea, quando ci sarà la morte io non ci sarò più e finché io ci sono essa non c’è; perché in realtà la morte non è l’essere morti, la morte è la sfida di quest’ultimo silenzio. E’ la domanda seria, tragica di un’interruzione che alla fine bacia tutte le cose, segna tutte le cose.

Chi di noi non ha mai pensato a quest’ultimo silenzio, chi di noi non si è lasciato inquietare, turbare da questo senso di malinconia che sembra avvolgere tutte le cose, perché sembrano tutte alla fine inghiottite dalla morte? Ed è, lo sappiamo, questo senso di precarietà che nel cuore umano si traduce in quel sentimento anch’esso universale, che è il sentimento dell’angoscia.

In ogni cuore, badate, abita l’angoscia. Non c’è persona, anche la più pacificata, anche la più profondamente amata o consapevole di un’esperienza vivificante d’amore, che non porti in sé questa ferita originaria, questo senso della malinconia di ciò che passa, questo voler fermare ogni istante bello della vita e sapere di non poterlo fare, perché tutto è inesorabilmente fugace.

Ecco l’angoscia che nasce dalla condizione di limite, di finitezza, dal nostro continuo esser gettati verso il silenzio del vallo estremo della morte, la malinconia che abita nel nostro cuore, è il pungolo che ci rende pensanti.

Questo è il pensiero, il pensiero non è altro che la lotta contro la morte; è volontà di dare un senso alla vita; soltanto chi vive questa sfida, chi si ferma a pensare fa della sua vita un’esperienza che vale la pena di essere vissuta; perché stordirsi, annegarsi nell’effimero ti dà l’illusione di avere risolto la scissione, ma in realtà ti lascia nella tua solitudine, non dà senso alla tua vita.

E allora il coraggio è quello di essere pensante, di accettare la domanda, di lasciarci inquietare per vivere il nostro "corpo a corpo" con la sfida, se volete, dolorosa, lacerante, ma anche vivificante della morte e del suo ultimo estremo silenzio.

E allora in questo movimento di lotta con l’ultimo silenzio della morte, noi diventiamo dei pellegrini verso la vita.

Questo è l’essere alla ricerca del volto del Padre; è l’essere assetati di una sponda, di un orizzonte dove la nostra stanchezza e il nostro dolore possano riposare.   E’ questo voler trascendere cioè andar oltre, trasgredire l’ultima soglia nella consapevolezza, nell’attesa di qualcuno che possa accoglierci al di là di essa; braccia accoglienti che in qualche modo diano riposo alla nostra fatica di vivere.

Questa è la nostalgia del volto del Padre, che si nasconde nel cuore dell’angoscia che abita in tutti noi. Siamo dei mendicanti del cielo, dei pellegrini verso il Mistero. Questa è la verità. Siamo dei poveri cercatori di un volto nascosto; così si potrebbe definire la condizione umana, assetati di vita oltre la morte, assetati soprattutto di un abbraccio che accolga il nostro dolore e le nostre lacrime.

Ecco perché io non parlerei soltanto del Padre, che è una metafora certamente bella, ma in qualche modo incompleta, ciò che il cuore umano cerca è in realtà un Padre materno un Padre-madre nell’amore. E’ qualcuno che abbia in sé la stabilità, la fermezza dell’amore Paterno, ma abbia anche la tenerezza, vorrei dire la visceralità, e vedrete come questo termine è bello ed appropriato alla luce di quanto diremo, dell’amore materno. Insomma abbiamo bisogno di un grembo che ci accolga, in cui poter affidare, come ad una Patria, ad un’origine, ad un ultimo Destino, tutto ciò che siamo, che viviamo, il nostro desiderio, la nostra ricerca.

Allora a questo punto ci diciamo, ma se è vero tutto questo, se è vero che la malattia dell’anima, cioè l’angoscia ci spinge, quasi ci getta nelle braccia di un Padre, perché non tutti abbiamo la gioia o se volete anche l’abbandono per affidarci nelle mani del Padre-madre nell’amore?

Ed è qui l’altro aspetto del cuore umano, se volete paradossale, noi i mendicanti del cielo, i pellegrini del volto nascosto siamo al tempo stesso quelli che hanno paura di abbandonarsi. Noi resistiamo a questo abbandono. Perché? Perché vogliamo farci protagonisti della nostra vita, e ci sembra che la sola maniera per realizzare questo sia tagliare il cordone ombelicale, affermare la nostra indipendenza, la nostra libertà nei confronti del Padre. Dobbiamo dire che, certe volte, i rapporti che siamo stati capaci di costruire giustificano questa pretesa. Quante volte, all’origine di tante tragedie, ci sono dei falsi rapporti paterni, materni, filiali.

Vorrei rendere testimonianza di questo con una pagina al tempo stesso terribile, ma anche significativa, che prendo da una delle voci più inquietanti e al tempo stesso significative del nostro novecento, quella di Franz Kafka.

Sapete che Kafka ha scritto un libro, che è in realtà un’unica lunga lettera, la "Lettera al padre", dove lui scrive a suo padre, che era un ricco commerciante ebreo e scrive così: “La sensazione di nullità che spesso mi domina ha origine in gran parte dalla tua influenza, io potevo gustare quanto tu ci davi solo a prezzo di vergogna, fatica, debolezza, senso di colpa; insomma potevo esserti riconoscente come lo è un mendicante, non con i fatti. Il primo risultato visibile di quest’educazione fu quello di farmi fuggire tutto quanto sia pure alla lontana mi ricordasse di te”.

Quante volte il rifiuto del Padre nasce dal bisogno di affrancarsi da una dipendenza; quante volte la paternità che siamo tutti chiamati ad esperimentare, ad esercitare come paternità, maternità diventa possessività, schiavitù, dominio.

Ecco allora che si profila l’immagine drammatica che tutti conosciamo, quella che Freud ha chiamato l’assassinio del padre. Nel profondo del cuore noi uccidiamo l’immagine del padre, perché ci sembra che solo questo atto drammatico, tragico sia capace di restituirci a noi stessi, di diventare finalmente liberi per vivere in realtà un'infinita orfananza.

E allora la nostra sete di indipendenza, di autonomia, di emancipazione, di libertà diventa anche il nostro abbandono del Padre-madre nell’amore, per cui da una parte assetati di questo Volto nascosto, dall’altra fuggitivi da Esso, noi viviamo nella costante inquietudine di un cuore che non sembra trovare pace.

Questo è il dramma del cuore umano, letto sotto il filo rosso della ricerca del Padre, della nostalgia del Padre, noi potremmo fare queste due affermazioni: altrettanto grande è la struggente nostalgia del Padre, quanto la drammatica resistenza ad abbandonarci nelle braccia del Padre.

Siamo al tempo stesso dei figli che vivono nel cuore del Padre, ma anche dei figli, che come quello della parabola, sentono il bisogno di lasciare tutto, di andarsene, di gestirsi da soli la vita.

E allora abbiamo bisogno di un Padre-madre che non sia il concorrente della nostra libertà. Abbiamo bisogno di un Padre-madre che ci liberi, non che ci faccia schiavi.

Io qui vorrei subito dirvi una parola che qualifica la grande tradizione ebraico-cristiana. C’è un racconto rabbinico che parla di un fiume in terre lontane, che era talmente pio che in giorno di sabato, lo shabat per gli ebrei, giorno del riposo, cessava di scorrere per rispettare il nome e il comando di Dio.

Racconta questa parabola un grande pensatore ebraico, Martin Bubber e dice perché Dio non fa questi segni che faciliterebbero il compito di quelli che hanno a cuore la sua causa? Se questi fiumi passassero attraverso le nostre città probabilmente tutti osserverebbero scrupolosamente il giorno del Signore.

La risposta di Martin Bubber è questa: Dio evita questi segni volgari per un solo motivo, che essi avrebbero un unico effetto: che i più pii diventerebbero i più paurosi, i più pavidi.  Dio ama per sé soltanto uomini liberi. Questo sia chiaro: Dio non costringerà mai nessuno ad abbandonarsi al suo cuore paterno-materno nell’amore. Questo lo diciamo sin dall’inizio perché la nostra ricerca del Padre ci liberi dalla paura d’incontrare un Padre padrone quale a volte purtroppo ci è stato presentato come volto di Dio.

Allora ecco questo primo scenario; gli scenari del cuore, la nostalgia del volto di un Padre-Madre nell’amore, e la resistenza, la fuga rispetto ad esso. E se veniamo invece al secondo grande scenario - lo scenario del tempo - che cosa possiamo dire? Soltanto un mese fa o poco più io vi avrei ripetuto un’idea che tante volte ho detto, negli incontri, nelle conferenze di questi anni, in tanti contesti, i più diversi e cioè che, così dicevo, eravamo alla fine del secolo breve, la definizione di uno storico inglese Erik Osborn, che dice che è breve questo nostro novecento perché è cominciato tardi nel 1914, è finito presto nel 1989. Un secolo che comincia con la prima guerra mondiale e, così diceva Osborn, che finisce col crollo delle ideologie, di cui è metafora il fatidico 1989 del crollo del muro di Berlino.

In realtà io oggi non mi sento più di dire questo. Perché? Perché quest’ultimo anno del secolo, questa vigilia del terzo millennio, in realtà ci ha presentato, nel giro di poche settimane, il ritorno drammatico di tutte le tragedie del nostro novecento: la guerra, la pulizia etnica, la shoah potremmo dire, e tutte le logiche tipiche del confronto ideologico in cui il principe ha ragione dall’una e dall’altra parte e il coro dei potenti si allinea alla linea del principe.

Questo è il dramma di questa fine del novecento; è come se non avessimo imparato niente dalle grandi tragedie del secolo. E’ come se l’assurdità della violenza, della guerra, da qualunque parte perpetrata, tanto quella della pulizia etnica quanto quella della barbarie dei bombardamenti che mietono innumerevoli vittime fra innocenti, civili, sia una logica conseguenza di un principio di verità, di un’affermazione di verità.

Ebbene, perché tutto questo? Che cosa c’è veramente dietro quello che sta accadendo? Nel dibattito di riflessione su questi eventi che purtroppo nel nostro paese è stato abbastanza limitato e scadente, e ben più vivo in altri, per esempio in Francia dove la critica alla guerra è stata ben più articolata e motivata, in questo dibattito si è tenuto poco conto di una cosa semplice e terribile, e cioè che noi abbiamo voluto edificare in questo novecento la società senza padri a cui sembrava spingerci l’ideologia, semplificando in qualche modo, io direi così, questa è l’avventura dell’ideologia, di tutte le ideologie, costruire una società senza padri, ovvero per dirla in positivo una società di donne e uomini emancipati, in cui ognuno sia padrone del proprio destino, protagonista della propria vita.

Società senza padri è la società dove, per dirla con Marx, ogni uomo, non è più oggetto, mezzo, strumento, ma fine, dove dunque ognuno non è più soggetto alle dipendenze degli altri, ma libero per essere il protagonista della propria vita e di ciò a cui si sente chiamato.

Ecco la società senza Padre, una società di uomini liberi, uguali, fratelli - libertè, egalitè, fraternitè - il grande mito del tempo della modernità.

Ebbene, a che cosa siamo giunti su questa strada? In realtà una società senza padri, che voglia semplicemente affermare questo principio, imponendolo con la violenza di un’idea diventa una società che uccide l’unico vero Padre, ma che lo sostituisce con i surrogati più terribili, i surrogati del capo, dell’idea che prendono il posto del Padre, il surrogato del Principe che ha sempre ragione.

Questa è la parabola tragica del nostro novecento. E badate questo avviene non solo nei regimi totalitari di destra o di sinistra, ma avviene anche nelle cosiddette democrazie dell’occidente, dove ben più sottile è il grande fratello, domina le coscienze attraverso la persuasione occulta dei mass media. Siamo di fronte ad una società senza padri, in cui abbiamo perso anche il senso della nostra fraternità, perché dove non c’è più un Padre comune che ci faccia riconoscere l’uno fratello per l’altro, tutto diventa possibile, veramente secondo la terribile affermazione “se Dio non esiste, tutto è possibile”, tutto è possibile nel senso più drammatico e tragico di considerare l’altro non più come una parte di me, ma come il mio avversario, il mio nemico.

L’ideologia della guerra si può costruire solo dove si è costruita un’ideologia del nemico, solo dove cioè si è diviso il mondo in buoni e cattivi, solo dove si è dimenticato che c’è un unico Padre che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi, sui giusti e sugli ingiusti. In altre parole con la rapidità che una simile analisi condotta in pochi minuti richiede, la grande malattia della nostra epoca, del nostro novecento è veramente l’assenza del Padre.

Abbiamo perduto il Padre, abbiamo bisogno di qualcuno che ci aiuti a riscoprirlo e a riscoprirci fratelli, sorelle, cioè a smascherare questa terribile ideologia della violenza per la quale l’altro è il tuo avversario, il tuo nemico, il concorrente da eliminare, per la quale la dignità di persona umana viene attribuita in rapporto alle solidarietà ideologiche e non al semplice fatto che l’altro esista e ti guardi con i suoi occhi di persona diversa da quella che tu sei.

Ecco il dramma: la società senza padri ha prodotto violenza e tragedia e questo 99 è l’estrema conferma di quest’analisi, se volete, spietata, severa del nostro novecento.

D’altra parte cinquant’anni fa, meditando sulla prima metà del secolo due pensatori ebrei esuli in America, Orkeiner ed Adorno, avevano detto qualcosa di analogo: la terra interamente illuminata risplende, dicevano, di trionfale sventura; lì dove cioè abbiamo voluto sostituire la nostra ragione a quella di un padre e di una madre più grandi di tutti, lì abbiamo prodotto fiumi di sangue, di violenza e di morte.

Allora fermo restando tutto il valore che il sogno dell’emancipazione conserva, dobbiamo riconoscere, che mai come in questo momento il tempo in cui viviamo ha bisogno di riscoprire un volto paterno e materno, un volto fraterno.

Abbiamo bisogno di qualcuno che ci dica il volto del Padre e che così ci aiuti a riconoscere che non siamo l’uno il nemico dell’altro, ma tutti fratelli davanti a un unico Padre, a un’unica Madre che ci ama.

Allora a partire da questa attesa del cuore umano che ha bisogno di un Padre-madre che liberi il cuore, che accolga l’abbandono e l’affidamento; e a partire da queste domande del tempo che hanno bisogno di essere corrisposte dall’incontro con un Padre che ci faccia riscoprire fratelli, in questo 1999 della guerra e della pulizia etnica, è a partire da queste domande che io mi avvicino al secondo momento della mia riflessione: dove abita il Padre? Chi può rivelarci il volto del Padre?

Io vorrei qui avvicinare semplicemente tre orizzonti evocandoli, sia pur brevemente, il Padre di Israele, il Padre di Gesù, il Padre dei discepoli; vorrei non tanto dare delle risposte, quanto suscitare un’inquietudine, un’attesa, una domanda, se volete ascoltare la domanda di Dio.

Cominciamo allora dal Padre di Israele. Sapete che Israele ci appartiene profondamente, non potremmo essere cristiani senza l’ebreo Gesù, che è ebreo per sempre. Dunque gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori, la radice di Israele è la radice del nostro albero, che è l’albero della Chiesa. Allora anche se vi sembreranno strane le parole che sto per dirvi, ascoltatele con spirito e cuore, perché sono parole che contengono un grande messaggio per noi, per la nostra fede.

La prima parola è Rakamin, la seconda è Zimzum, la terza Teshuvah; le spiegherò subito.

Cominciamo dalla prima Rakamin, una parola ebraica che significa letteralmente viscere, materia; ebbene sapete che l’ebraico, che è in fondo una lingua povera - i vocaboli dell’ebraico biblico sono 5750; l’ebraico moderno ne ha 80.000 - ma l’ebraico biblico è una lingua povera, scarna; ebbene in questa lingua povera, scarna, ma proprio per questo quanto mai classica e forte, quando bisogna dire l’amore, l’amore misericordioso, l’amore che non abbandona mai, l’amore che tiene sempre in braccio, non si è trovato una parola più bella di questa Rakamin.

Questo è l’amore di Dio, è l’amore materno, Dio ama come una madre, Dio tiene in braccio la sua creatura come una madre porta in grembo il proprio bambino.

Pensate allo splendore del salmo 131, come un bimbo nelle braccia di una madre o pensate per esempio a quel testo di straordinaria potenza di Isaia al capitolo 49: “Sion ha detto: il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato. Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io non mi dimenticherò mai di te. Ecco ti ho disegnato sul palmo delle mie mani.” Allora capite se Dio ci ama di un amore materno, di un amore viscerale, Rakamim significa viscere, allora Dio ci ama anche quando noi non lo amiamo più, esattamente come una madre; una madre non ama il figlio in rapporto ai meriti del figlio, lo ama semplicemente perché c’è, lo ama perché lo ama, Dio ci ama così.

C’è una bellissima immagine, purtroppo ne ho una riproduzione molto piccola, ma è l’immagine emblematica di questo anno del Padre, è la riproduzione della bellissima tela di Rembrandt dell’Hermitage che si trova a San Pietroburgo. L’originale è una tela immensa mt. 2,5 per circa mt. 2. E’ una tela bellissima dipinta da questo pittore ebreo negli ultimi anni della sua vita. In questa tela straordinariamente bella c’è un vecchio, chinato verso un giovane che sta inginocchiato ai suoi piedi, è il ritorno del figliuol prodigo. Questo vecchio, illuminato in volto, che avvolge come un grembo questo giovane detenuto, prigioniero con una veste logora, con degli zoccoli consumati, è in realtà il Padre di cui Gesù ha parlato. Ora è bellissimo vedere, potrete vederlo in una buona riproduzione, che questa vecchia figura in realtà ha una mano maschile e una mano femminile. Dunque, Dio, nella concezione di Rembrandt è Padre e Madre nell’amore, che attraverso quelle braccia, quell’abbraccio benedicente trasmette la luce del suo volto sul corpo del figlio che è tornato a casa. Questo è Rakamim, noi crediamo in questo amore folle di Dio, noi crediamo in un Dio che è madre, che è Padre materno, che proprio per questo non si arrende davanti al nostro rifiuto e al nostro non amore.

Seconda parola ebraica, Zimzum, una parola che significa contrazione, è una parola della mistica ebraica, elaborata in quel piccolo villaggio della Galilea Safed, dove nel medioevo si raccolsero tutti i maestri dell’ebraismo fuggiti dalle persecuzioni dell’Europa.

Ebbene che significa Zimzum? Significa che quando Dio ha creato il mondo non poteva crearlo fuori di sé, fuori di Dio non esiste nulla, Dio è tutto. Allora Dio che cosa ha fatto? Per creare il mondo ha fatto spazio dentro di sé, esattamente come fa una donna, quando porta nel grembo una nuova vita, fa spazio in se stessa. Questo è lo Zimzum, la contrazione divina, cioè traduciamolo con un linguaggio più occidentale, l’umiltà di Dio. Dio quando ci ha creato ha imparato ad essere umile. Perché? Perché l’umiltà è quella che ti fa accettare che l’altro sia altro. Una cosa così difficile da capire soprattutto per i padri e le madri. Noi vorremmo che i nostri figli fossero a nostra immagine e somiglianza, almeno lo vorremmo fino al momento in cui capiamo che non sarà mai così, ma certe volte lo capiamo perché sbattiamo il muso sui nostri fallimenti. In realtà paternità e maternità esige un’infinita umiltà, l’umiltà di accettare l’altro, di farlo esistere nella sua libertà. Questa è l’umiltà di Dio. Non dimenticate che San Francesco nelle lodi del Dio Altissimo ha questa parola meravigliosa “tu sei umiltà”. Questo è lo Zimzum divino.

Infine una terza parola “teshuvah” dalla radice “shub”= tornare, è la parola che dice la conversione, in ebraico la conversione non è un cambiare la mente, in ebraico la conversione è un tornare a casa. Capite la grande differenza, al centro della conversione, della metànoia greca ci siamo noi, la nostra mente che cambia, al centro della “teshuvah” ebraica del ritorno c’è un Padre che ti aspetta nella sua casa, c’è un cuore paterno-materno che batte per te. E il peccato è aver dimenticato quest’amore per aver vissuto l’avventura della propria solitudine, del proprio orgoglio, della propria emancipazione. Ecco allora il padre di Israele, un Padre materno, umile che aspetta il ritorno. Gli occhi del Padre nella tela di Rembrandt sono quasi spenti, consumati, perché lui ha scrutato a lungo l’orizzonte, ha desiderato e atteso il ritorno del figlio.

Chi è il Padre di Gesù? Anche qui io vorrei rifarmi a qualche parola che ci fa cogliere il significato profondo; ne scelgo tre. La parola “Abbà”; sapete che Gesù si è rivolto a Dio chiamandolo così, “Abbà”. E’ una parola aramaica che ci viene riportata nei testi del nuovo testamento perfino da Paolo per esempio nella lettera ai Galati 4.6 e che vuol dire Babbo, Papà, nel senso più tenero e confidenziale. Mai un ebreo avrebbe chiamato Dio così, Gesù lo chiama così, quasi a dirci che Dio non è l’altra parte contro cui elevare le bestemmie del mondo, Dio è il padre materno a cui affidare perdutamente le nostre solitudini, il nostro cuore, le ferite dell’anima, il bisogno di perdono, Abbà - Padre. E questo è venuto a fare Gesù: a mettere nel nostro cuore lo spirito che grida Abbà - Padre. Gesù è venuto a rivelarci un’unica cosa, che noi non siamo fuori di Dio, ma siamo nel cuore di Dio e che questo Dio lo possiamo chiamare con la parola e la tenerezza infinita “Abbà”, perché a lui possiamo perdutamente abbandonarci.

Una seconda parola “Paradìdomi”- consegnare. Questo Dio - Rom.8.32 ce lo dice - non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha consegnato alla morte per noi. Sarebbe lungo farlo, ma anche bellissimo mettere a confronto, Rom.8.32 e Genesi 22, il sacrificio di Isacco. Se si prende il testo greco anche dell’A.T. ci accorgiamo che addirittura Paolo ha usato gli stessi verbi: risparmiare, consegnare, figlio, perché? Perché Paolo ci vuol far capire una cosa che il vero grande Abramo è Dio, il vero grande Isacco è Gesù. Non è l’uomo che sacrifica il proprio figlio per Dio, è Dio che sacrifica il proprio figlio per l’uomo.

Come dice Origene sul monte Moria un padre mortale ha offerto un figlio mortale che non muore; sul Calvario un Padre immortale offre il Figlio immortale che muore.

Questa è la follia dell’amore di Dio, non per scherzo ti ho amato. Nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici. Il Padre non ha risparmiato suo figlio, ma lo ha consegnato per noi. Allora capite quando noi crediamo in questo, come potremmo noi dimenticarci di Dio, un Padre che ama fino a quel punto, qualunque sia il nostro peccato, la nostra lontananza, Lui ha consegnato suo figlio per noi. Dunque è sempre possibile tornare nella sua casa, nel suo cuore paterno.

Ed ecco perché la terza parola che voglio ricordare è “Agape”, Agape significa l’amore che viene dall’alto. Dio è amore, dice la prima lettera di Giovanni, cioè un Dio che non risparmia il proprio figlio, ma lo consegna per noi, è Agape, è amore.

Allora chi è il Padre dei discepoli? ma io qui dico solo una parola, ricordate quando Gesù ha insegnato a pregare? Ha detto: quando pregate, dite Padre nostro. Gesù ci ha messo sulle labbra la stessa parola che Lui ha usato, ci ha messo nel cuore lo Spirito che vive in lui, Gesù ci ha fatto figli nel Figlio, i discepoli di Gesù sono i figli dell’unico Padre. Il cristianesimo ha un’unica cosa da dire al mondo: che Dio è Padre-madre nell’amore e non soltanto fuori di te, ma nel più profondo del tuo cuore tu puoi gridare Abbà, Padre, perché il Figlio ti ha fatto figlio del Padre. La Chiesa è la comunità dei figli di Dio, è la comunità degli amati nell’amato, di quelli che dicono tu a Dio, perché in Gesù lo chiamano Abbà, Padre. E’ la comunità dunque della tenerezza dell’amore paterno-materno di Dio: questa è la Chiesa. Il resto è sovrastruttura, le nostre difficoltà, le nostre gelosie, le nostre solitudini, i nostri sogni di gloria, i nostri progetti di potere mondano, tutto questo è destinato a passare, a crollare miseramente. Ciò che resta, ciò che fa bella la Chiesa in duemila anni di storia è quest’annuncio dell’unica cosa che conta, l’amore di Dio, ché Dio è amore; cioè il Padre è amore e che noi possiamo abitare nel cuore di Dio insieme con Gesù, nascosti con Cristo in Dio, come dice Colossesi 3.3. Tutta la nostra vita ha quest’unico senso: annunciare agli uomini che Dio li ama e annunciarglielo in una maniera così credibile, vivendolo noi in maniera così profonda questo annuncio, che pacifica e riempie di gioia il nostro cuore, che gli altri possano credere perché vedono le nostre opere, riconoscano l’amore del Padre.

Vengo così alla terza ed ultima parte: incontrarci nel Padre; voglio riflettere su tre brevissime prospettive: incontrarci nel Padre come credenti, incontrarci nel Padre con i non credenti, incontrarci nel Padre con i poveri. Ecco le tre grandi prospettive.

Incontrarci nel Padre come credenti - Chi è il credente? Il credente, anche il più innamorato di Dio, è un povero ateo che ogni giorno si sforza di cominciare a credere. La fede non è un’ideologia su cui si possa riposare. La fede è questo vivere ogni giorno la novità di un amore. D’altra parte chiunque di voi è stato o è innamorato sa che significa quello che sto dicendo: nell’amore non si vive di rendita, si vive di novità, di doni, di uscita da sé, l’amore è esodo da sé senza ritorno, è questo uscire da sé per donarsi all’altro.

Ebbene se questo è l’amore, non di meno questa è la fede. La fede è perdersi ogni giorno in Dio, è abbandonarsi a Dio vincendo ogni giorno la resistenza, la fatica di credere, perciò abbiamo bisogno ogni giorno di preghiera e di incontro col nostro Dio.

Ebbene se questa è la fede, la Chiesa, la comunità dei discepoli, la comunità dei credenti è fatta in realtà da poveri, da poveri atei che si sforzano di cominciare a credere; nella Chiesa nessuno deve sentirsi grande, padrone della fede altrui; nella Chiesa ciò che veramente accomuna è la nostra povertà e la misericordia di Dio.

Nella Chiesa tutti siamo fratelli. Io credo che la Chiesa dovrebbe essere sempre più nel mondo il segno della fraternità cristiana. E’ questo che ha reso la Chiesa nascente così luminosa - guardate come si amano - è questo che può dare alla Chiesa smalto, spessore, significato; non una vittoria mondana, un successo politico, peggio ancora l’attaccamento ai beni di questo mondo, ma proprio l’amore, la misericordia. La Chiesa come comunità di quanti si vogliono bene perché si sentono amati dal Padre, si affidano alla misericordia del Padre.

In fondo ciò che noi di più bello ricordiamo di quelli che abbiamo amato e ci hanno amato è il loro amore.

Se a trent’anni dalla morte ricordiamo Don Giusto è perché ha seminato amore, con tutte le povertà, le imperfezioni che può aver avuto come ognuno di noi, ma ha seminato amore.

Questo è il senso profondo della nostra vita, questo è il senso della Chiesa. O la Chiesa è una comunità di donne ed uomini che si vogliono bene, perché si sentono accolti dalla misericordia di Dio e si accolgono o la Chiesa non ha senso.

Questa è la nostra gioia, la nostra speranza; ed allora capite qui lo spazio per l’accoglienza dell’altro, del diverso, per il dialogo ecumenico, tutto nasce da questa intuizione profonda: amatevi "come" io vi ho amati. Anche qui la parola potrebbe essere Katòs, questa parola greca "come", che significa al tempo stesso origine, destino e modello, cioè l’amore di Dio Padre e Figlio è la nostra origine, la nostra patria, il nostro luogo e il nostro grembo, io uso molto questa parola, il fondamento lo trovate in Giovanni 1.18 : il Figlio è nel seno del Padre, nel grembo del Padre.

Secondo, incontrarci con i non credenti - Se quello che ho detto del credente è vero, se allora vogliamo una Chiesa più sciolta, più libera, una Chiesa di figli, di fratelli e sorelle che amano l’unico Padre e si sentono amati da Lui, qual è il rapporto di questa Chiesa con quelli che non credono?

Amici, dobbiamo distinguere due tipi di non credenti, c’è la non credenza di chi non pensa, che è simile alla fede di chi non pensa, cioè una non credenza ideologica, statica e c’è la non credenza di chi soffre infinitamente dell’assenza di Dio e ne è un cercatore. Il non credente pensoso, pensante è degno della massima stima, del massimo rispetto. Se onestamente ha cercato e non ha trovato e continua a cercare soffrendo l’assenza di Dio come la sofferenza più grande, in fondo questo non credente potrebbe definirsi all’inverso del credente, un credente che ogni giorno si sforza di cominciare a non credere, ma questo non credente è parte di me che credo.

Allora capite gli schemi che la teodicea moderna, cioè che la concezione moderna del processo a Dio e alla sua giustizia aveva messo nei nostri cuori cadono, non c’è più uno steccato, ci riconosciamo accomunati da una stessa povertà, da una stessa nostalgia. Noi vogliamo una Chiesa in dialogo con tutti, una Chiesa che ascolta le domande di chi non crede e che porta con umiltà e amore la testimonianza del suo incontro con il Padre di Gesù. Una Chiesa del genere che annuncia il Crocifisso, l’amore di Colui che non è stato risparmiato per amore nostro, è una Chiesa che ha una forza di attrazione singolare proprio su chi non crede.

Sono anni che porto avanti un dialogo con questi, i cosiddetti non credenti e sempre più mi stupisce la loro profonda passione per Dio. Dio abita nei nostri cuori molto più di quanto noi possiamo averne coscienza. E’ il Padre di tutti.

E infine l’ultimo punto - Il Padre di tutti è il Padre dei poveri. Questo lo sappiamo. Dio ama di un amore privilegiato quelli che nessuno ama. Dio ha fatto una scelta, nella storia, si è messo dalla parte degli ultimi. Se voi tornerete a vedere il quadro di Rembrandt troverete che accanto alla figura del Padre e del figlio inginocchiato c’è un personaggio misterioso illuminato in volto. Io non esito a leggervi il figlio maggiore per una sorta di sovrapposizione di tempi del racconto della parabola che Rembrandt fa.

Chi è il figlio maggiore? E’ uno che è stato sempre in casa, che ha fatto tutto quello che il Padre gli chiedeva, si sente ricco della sua fedeltà.

Io oserei interpretare nella figura del figlio maggiore Israele, Israele che si sente sicuro. Ebbene il Padre ci fa capire che nessuna sicurezza ci rende liberi, che solo quando ci accorgiamo di essere anche noi dei poveri, possiamo tornare nel suo cuore paterno. In altre parole la vicinanza nella casa del Padre, la vicinanza fisica non significa vicinanza del cuore. Si può vivere tutta una vita accanto a Dio e restare completamente atei.

In altre parole è soltanto se noi diventiamo poveri, che noi possiamo capire il cuore del Padre. E’ soltanto se noi scopriamo in noi il bisogno di Dio, la sete del suo volto e non ci sentiamo mai arrivati e sappiamo imparare ogni giorno le cose di Dio anche dagli umili e dai poveri che incontriamo sulla nostra strada che noi riconosciamo Dio.

 Allora quando io dico incontrarci nei poveri, incontrarci nel Padre di tutti, non dico solo incontrare i poveri, dico incontrarci come poveri, diventare noi stessi poveri nel nostro cuore, perché questa è la condizione che ci fa sentire la presenza di Dio.  I poveri diventano i nostri maestri e alla loro scuola possiamo imparare a conoscere Dio.

Allora non è solo un appello a una Chiesa della carità, a una Chiesa delle opere, a una Chiesa dell’impegno soprattutto verso quelli che nessuno ama, pensate alla solidarietà che ci è richiesta in questo momento verso le vittime della violenza e della guerra, ma è anche una Chiesa             di donne e uomini che si sentono essi stessi poveri e che fanno esperienza della tenerezza dell’amore del Padre.

Allora come chiudere questa rapida esperienza di un pellegrinaggio alla ricerca del volto del Padre, che ha ascoltato le domande del cuore, le domande del tempo, che ha cercato di ascoltare qualcosa della rivelazione di Dio e ha prospettato degli orizzonti di incontro nel Padre? Concludo con una piccola testimonianza tratta da questo libretto, uscito da pochi giorni, che ha raccolto le omelie di un giovane prete, il parroco di Villanova Rosario Maglia morto a 35 anni, un giovane che ho avuto la gioia di conoscere quando aveva 17/18 anni nella Parrocchia in cui lavoravo, venne per la prima volta a dirmi che voleva diventare prete e che ho potuto accompagnare nel cammino degli anni, soprattutto negli anni del seminario con una grande fraternità di vita.

Ebbene Rosario è stato soprattutto l’annunciatore della paternità di Dio, paterna e materna questa paternità. E’ stato l’uomo della fede, lo dice con molta chiarezza nella pagina iniziale proprio attraverso la sua gioia di vivere, il suo entusiasmo. Vi leggo una pagina trovata nel suo diario, che ci fa capire come questo ragazzo, prete di Cristo, è andato incontro alla morte, con quanta fiducia nel Padre, con quale abbandono al Padre:

 “Sei mesi fa, in conseguenza di una forte crisi, mi è stata diagnosticata una miocardiopatia dilatativa. Da quel momento il mistero della morte che pure precedentemente era presente nei miei pensieri, occupa un posto particolare. Ho paura, sono sereno, ho rimpianti, ho nostalgie, non lo so, forse niente e tutto. In realtà mi fido molto di Dio. Egli non mi abbandonerà, non può farlo. Dicevo che la morte occupa un posto particolare oggi nella mia vita a rischio, ma non la condiziona molto, non può farlo perché la mia vita appartiene a Dio e Dio è vita. Quando scrivo queste cose mi pare di forzare un poco la mano, ma questi sentimenti sono veri. Dire che la mia vita appartiene a Dio non significa che per me tutto è chiaro, tutto è bello, tutto è sereno, tutto è pulito, anzi proprio in questi giorni in cui dovrei essere più puro nel senso bello del termine, mi ritrovo con le mie insicurezze di sempre, con quelle sopravvenute con la malattia, con qualche paura dentro. Io so che non posso andarmene in silenzio. Il Signore ha voluto che incontrassi tanta gente che amo e che mi vuole bene e poi questa famiglia è grande, molto grande. In questo il Signore mi ha voluto bene veramente tanto. Non avrei mai immaginato di avere tanta gioia, tanta realizzazione, tanto amore in questa vita di prete; certo insieme con dolore, sofferenze, paure, ma in quale esistenza gioia e dolori non convivono? Dicevo che non posso andarmene in silenzio, ecco perché al termine dell’esistenza il mio grazie va a Dio Trinità”.

Sembra che questa pagina comprenda quello che abbiamo detto. La nostalgia del Padre, che nasce dall’angoscia di fronte alla morte e dal cuore della storia lacerata che stiamo vivendo, la rivelazione del volto paterno e materno di Dio, l’urgenza di incontrarci con gli altri, credenti, non credenti, poveri nel suo amore paterno e materno che, solo, rinnova la vita.

Grazie.

 

 INTERVENTI E QUESITI

 

- La tentazione di essere nella nostalgia del Padre e la tentazione dell'emancipazione è propria di tutti noi: forse chi si lascia permeare di Dio sono i santi. C'è una strada per la santità per ognuno di noi, ed è forse la strada della povertà.  Ci potresti indicare questa strada?

 

            Ce l'ha indicata Gesù: io sono la Via, la Verità, la Vita. Non si può entrare nel cuore del Padre al di fuori di Lui, cioè seguendo quello che Lui ha fatto. Gesù, in fondo ha fatto delle cose molto semplici: Gesù è stato libero da sé, è stato l'umile, il mite, l'umile di cuore. Gesù è stato quello che ha dato se stesso per gli altri, fino alla morte: ha amato fino alla fine. Gesù ha creduto in Dio, più fortemente di tutte le interruzioni, i silenzi, gli abbandoni "Padre, se è possibile, passi da me questo calice, ma non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu!". Allora, la via è quella: riconoscerlo, amarlo, e fare di Lui un'esperienza sempre più profonda, sempre nuova. Nel momento in cui scopri Cristo nella tua vita, e lo scopri veramente, Lui si attacca alla tua anima, più che la pelle al tuo corpo, e tu hai bisogno di vivere di lui, di incontrarlo e quando lo incontri cerchi di seguirlo, di imitarlo, perché l'amore o trova simili o fa simili, e la via di Gesù è questa: quanto noi più conosciamo Cristo, tanto più abbiamo sete di scomparire in lui, di donarci, credere, sperare, amare in umiltà di cuore, in generosità di doni. E allora, chi sarà capace di questo? Ecco la cosa bella che Gesù ci ha detto: in realtà, la povertà, l'umiltà, la fede non è qualcosa che si possiede, è qualcuno che ti possiede. Lasciarci possedere da lui, diventare, come dice Paolo, prigionieri del Signore, mettere la nostra vita ogni giorno nelle sue mani e in Lui imparare a dire: Abbà, Padre , scoprire il volto del Padre. Questa è la forza del Cristianesimo: non è un insieme di precetti, di regole, di osservanze che dall'esterno ti plasmano; è l'incontro con una persona, il Cristo, che ti cambia il cuore, la vita e che tu ogni giorno puoi rinnovare. Il Cristianesimo è veramente non una idea, una dottrina, ma una persona, Cristo. Seguirlo, amarlo significa conoscere il Padre, e il Padre ci ha dato un aiuto: la via del Cristo, e Cristo ci ha dato una meta, la meta è il Padre. Se qualcuno dice: "Sono cose difficili!", io rispondo come i medievali "solus expertus potest intelligere": lo può capire chi ha fatto esperienza: far esperienza è il modo di capire, abbandonarsi a Dio, con Gesù.

  

            - Il Padre ci deve aiutare nelle nostre sofferenze, nelle nostre tribolazioni. Noi preghiamo, ci deve aiutare; abbiamo la sensazione che a volte ci aiuta, a volte no.

 

La storia di tutti noi è segnata tante volte dalla sofferenza. Credo che gli uomini possano distinguersi tra di loro per tante cose, ricchezza, successo, bellezza, bontà, ma sono accomunati dal dolore. Il dolore è veramente la categoria universale. E allora io dico a chi soffre: non dimentichiamo che noi non siamo gli unici a soffrire, ricordiamoci degli altri che soffrono: non, come si dice banalmente, di chi soffre di più, ma degli altri che soffrono. Cerchiamo di trasformare il nostro dolore in amore per gli altri, far sì che la nostra vita sia spesa in maniera attiva, per lenire il dolore degli altri. E allora anche la misericordia di Dio diventerà più chiara per noi, più luminosa: Anche li dove ci sembra che Dio ci abbia abbandonato, ci accorgeremo che la misericordia di Dio avvolge la nostra vita, perché c'è un mistero di misericordia che anche nel dolore si rivela. Lo capiremo fino in fondo in paradiso; intanto, si tratta di credere e di offrire per gli altri che soffrono, e darci una mano, gli uni con gli altri, per portare insieme il peso della croce. Ognuna delle nostre storie è questa: essere chiamati a guardare nell'altro che mi è davanti l'oggetto della misericordia di Dio. E allora se tu guardi così l'ammalato, il sofferente, il povero, il prepotente, il violento, chi ti fa del male, il tuo sguardo cambia dal di dentro, e Dio ti cambia il cuore.

 

 

- ….Lei ha detto che nella ricerca del Padre bisogna impegnarsi, però mentre noi lo cerchiamo continuamente, ci sono altre persone che confidano nella sua grande bontà.

( Intervento quasi del tutto incomprensibile nella registrazione, trascritto ad sensum: n: d. t)

 

Io penso che ognuno ha la sua storia davanti a Dio: nessuno di noi può giudicare il cuore degli altri. S. Tommaso diceva che un solo atto di carità perfetta compiuto anche nell'ultimo secondo della tua vita può portarti direttamente in Paradiso.  Dio sa quando un cuore si è veramente consegnato a Lui. La cosa importante è che io pensi, oggi, di consegnargli il mio cuore, e non perda il tempo a giudicare se il cuore degli altri lo fa o non lo fa.  Io posso pregare perché questo avvenga in tutti, posso testimoniare perché questo avvenga, ma non posso misurare la vita con l'occhio esteriore, che non guarda dentro, che è solo, quello che guarda dentro, l'occhio di Dio. Quante volte la nostra vita, secondo la logica umana, è fatta di fallimenti e di delusioni. Quanti di noi vorrebbero vedere intorno a sé fruttificare le loro preghiere, le loro sofferenze offerte a Dio, ma veramente Dio sa, conosce i segreti del cuore, e noi dobbiamo solo seminare. L'etica biblica è quella della semina, non quella del raccolto. Gesù ci ha ricordato che c'è chi semina e c'è chi raccoglie. Se noi volessimo fare il bene perché ne vediamo i frutti, saremmo freschi, meglio cambiare mestiere. Dunque, il bene si fa, perché si ama, e basta. Lutero diceva: "Se anche sapessi che il mondo finirà domani, non esiterei a piantare un seme, oggi!", cioè seminare a larghe mani l'amore di Dio.

 

 - Vorrei dei chiarimenti su queste frasi del Padre nostro: "Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori; e non ci indurre in tentazione".

 

Il "come" non vuol dire "nella misura in cui" noi rimettiamo, perché sarebbe contrario a tutta la redenzione del mondo. Dio non ha condizionato il suo amore al nostro. Il "come" vuol dire che noi prendiamo un impegno: cerchiamo di fare quello che tu fai verso di noi, anche se ci riusciremo poco, male; però, siccome tu infinitamente hai rimesso i nostri debiti, allora noi, col tuo amore, col tuo aiuto, cerchiamo di rimetterli ai nostri debitori. Non ci riusciremo mai con le nostre sole forze, però è un tentativo di fare quello che tu ci aiuti a fare. Diceva Agostino: "Cantiamo il canto nuovo, perché siamo nuovi!", perché Dio ci ha cambiato il cuore, ci ha reso capaci di amare. E lo stesso, "Non ci indurre in tentazione": la traduzione è difficilissima; in altre lingue, come lo spagnolo, viene intesa: "Non lasciare che cadiamo in tentazione". Ma così ha una sua valenza: ci fa capire che Dio può metterci alla prova, perché Dio scommette su di noi. Giobbe, in realtà, è il manifesto della fiducia che Dio ha nell'uomo. Se Dio permette a Satana di tentare Giobbe fino a quel punto, è perché Dio scommette sull'uomo. Allora, proprio perché Dio scommette sull'uomo, sulla sua libertà, Dio ci espone alla prova, altrimenti che libertà sarebbe? Quello che è molto bello è questo: che noi, sapendo questo, che Dio ci ama a tal punto da lasciarci liberi di incontrare la prova, diciamo: "Tu mi vuoi bene così, ma io che mi conosco dico: non espormi alla tentazione": Cioè: io mi conosco, è un riconoscimento della nostra povertà davanti a Dio che eleva a Dio, alla bontà di Dio che scommette su di noi. La tentazione non è peccato: Gesù è stato tentato fino a provare addirittura la tentazione di fuggire davanti alla croce; quindi l'oscurità, il peso della tentazione fanno parte di ogni vita. Ciò che è male è sentire questo tormento del male, ma di per sé la tentazione è via dell'amore. La vita evolve, è in evoluzione. Cristo è in agonia, e lo sarà fino alla fine del mondo se ci vuole restare.

- (Don Giuseppe Cipolloni parroco di Piedigrotta) Credo che il Cristianesimo cambierà il giorno in cui la fede incontrerà il volto paterno di Dio. Ciò nasce da una convinzione personale: io sono cresciuto in seminario, da quando avevo 12 anni, mi portavo dentro una certa immagine di Dio, frutto dell'educazione impartita. A 18 anni fui spettatore di un incidente: ebbi un momento di forte ribellione contro Dio. Raccontai questa storia al confessore, e lui mi disse: "Ma tu, che idea hai di Dio?" Da ciò cominciò un cammino che è durato anni, per cercare nella Bibbia le frasi rivelanti il volto paterno e materno di Dio, e mi è stato proficuo(....) La scoperta del volto paterno e materno di Dio è davvero l'avventura più bella, ma è difficile. Scoprire questo volto luminoso mediante un cammino faticoso e lento, quasi un pellegrinaggio, è la cosa più bella che la vita ci possa riservare, come un arrivare alla fonte.

 

Inviterei a leggere un libro di Henry Nouwen sacerdote olandese, "L'abbraccio dell'innocente", è un commento al già citato quadro di Rembrandt. Dice una cosa molto simile a quella che ha detto don Giuseppe: riconoscere nel proprio cuore, nella propria vita, la seconda conversione; la vera conversione, lui era già sacerdote, è avvenuta quando ha scoperto il volto di Dio padre, come Gesù ci dice nella parabola dei figli perduti e del padre misericordioso. Io credo che è un generare di luce, perciò dico: la nostalgia del Padre diventa un pellegrinaggio verso il volto di Dio padre, per dimorare presso il volto del Padre, per dimorare col Padre, con Cristo e il Padre.

 

- Ho provato una sola volta l'abbandono totale al Padre, in un momento di sofferenza: dovevo affrontare un intervento chirurgico; la sera prima, quando sono rimasta sola, sono andata nella cappella e, non so come, sono riuscita a dire: "Sia fatta la tua volontà!" , ma l'ho detto con serenità. Ho avuto la sensazione di essere stata in braccio al Padre, un'intimità che non sono riuscita più a ritrovare, e ne ho fortissima nostalgia e mi chiedo perché mai solo in questi momenti riusciamo a sentire la presenza dl Padre e non nella vita quotidiana, ogni giorno, quando dobbiamo affrontare le difficoltà, ma anche le gioie della vita. Io ho veramente nostalgia di quel momento di intimità col Padre.

 

Credo che questo momento si può rinnovare ogni giorno della nostra vita: basta volerlo, chiederlo a Dio, farlo; in fondo, ogni volta che diciamo il Padre nostro siamo chiamati a vivere quest’esperienza. Ci sono le circostanze esterne che anche psicologicamente facilitano quest'abbandono, però andando avanti con la vita comprendiamo che tutto è un distaccarsi, per andare verso la grande sera di quell'incontro, allora sempre più profondamente l'anima s'abbandona al Padre (….) ed è più profondo di ogni altra cosa, perché c'è una solitudine che nessuno potrà colmare, se non Dio, dove tu sei solo, solo con Dio. E noi non siamo mai obbligati, bensì è un continuo essere chiamati a convertirci. Ogni giorno è una lotta con Dio, ed uno sperare, pregare, chiedere che sia Dio a vincere.

Chiudiamo ringraziando Dio e offrendo una preghiera a Maria, che è l'immagine più alta del credente che si abbandona a Dio. Voi sapete: "Una spada le trapasserà l'anima". La spada, nel termine greco, significa la parola di Dio. Maria è colei che ha continuamente lottato per vivere la parola di Dio. E allora chiediamo a Maria di aiutarci a dire i nostri sì!

 

L'Associazione si scusa per gli inevitabili errori ed omissioni occorsi nell'opera di trascrizione, attuata con tanta buona volontà ma con scarsi mezzi tecnici. Un vivo ringraziamento va a quelli che si sono prodigati per tale opera, in modo particolare a don Giuseppe Cipolloni, parroco di Piedigrotta, alla dott.ssa Maria Spagnuolo e alla dott.ssa Carmen Cuollo.

 

ASSOCIAZIONE " I RAGAZZI DI DON GIUSTO"

BASILICA S. MARIA Dl PIEDIGROTTA - P.zza Piedigrotta, 24 - NAPOLI - Tel 0811669761

 

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