VEIO

     

 

Il Tempio di Portonaccio

 

Edificio templare dalla pronunciata monumentalità, il tempio di Portonaccio costituisce uno dei capitoli più luminosi della storia dell'architettura etrusca. Il santuario extramuraneo, titolato alla dea Minerva e probabilmente ad Apollo, era ubicato su un terrazzamento naturale che su un lato strapiombava sul fosso della Mola, ambientato in un paesaggio che ancor più in epoca antica doveva essere alquanto suggestivo per la rigogliosità della vegetazione e i corsi d'acqua.  Il sacro luogo non distava molto dalla porta sud-occidentale della città ed era collegato a un percorso che volgeva alle foci del Tevere. L'ingresso era invece possibile sul lato settentrionale.

Veio - Porta di Portonaccio

 

Edifici e strutture erano contenuti entro un recinto perimetrale (temenos) di sagoma grossomodo triangolare: sul lato occidentale vi erano il tempio e una piscina sacra, probabilmente alimentata dalle acque della Mola. L'edificio templare del quale restano le vestigia fu preceduto da una più antica costruzione, della quale rimangono alcune delle terrecotte architettoniche. A oriente erano invece due portici, addossati al muro, un altro piccolo sacello (oikos) e un altare.

Il tempio principale (metri 13 x 8 circa), con la sua straordinaria decorazione acroteriale, costituisce un interessante esempio di tempio tuscanico. Esso si presentava con una pianta quadrata (circa diciotto metri di lato) su un basso podio con muri di tufo.

 

Portonaccio - la zona dell'altare                Portonaccio - la piscina

Il pronao doveva essere provvisto di almeno due colonne, per una questione di statica. Alle spalle del pronao lo spazio più recesso del tempio si divideva nelle tre celle consuete dedicate a una triade divina. E tuttavia il fastoso programma decorativo che abbelliva il tetto a illuminarci riguardo ai riferimenti cultuali di questo edificio: verso la fine del VI secolo a.C. vi furono montate alcune statue in terracotta a grandezza naturale le quali rappresentavano un episodio mitico che vedeva protagonisti Apollo (il celeberrimo cosiddetto "Apollo di Veio") ed Ercole impegnati nella contesa per la cerva cerinitide alla presenza di Mercurio e di una dea con un bambino in braccio (verosimilmente Latona col piccolo Apollo).

   

Portonaccio - area sacra (thesauròs)      Portonaccio - resti del tempio (podium)

Quando nel IV secolo il tempio fu disallestito, le sacre effigi fittili di dèi ed eroi furono tratte dal fastigio e rispettosamente sepolte oltre la strada che fiancheggia il santuario.

   

Tempio di Portonaccio – Apollo di Veio ed immagine di Antefix

Quanto agli apprestamenti costruiti sul versante orientale, ovvero l'oikos e i portici, non vi sono elementi che accrescano la nostra conoscenza riguardo alla loro effettiva destinazione nell'economia del santuario intero. Merita di essere ricordato l'altare quadrato, di un tipo ben noto in area laziale, all'interno del quale sono state trovate rimanenze di offerte e sacrifici. Poco più a nord un secondo e più piccolo altare cilindrico, con canale verticale collegato al sottosuolo, documenta l'esistenza di azioni religiose volte a dèi ctonii. Quest'area del santuario seguitò però ad essere devotamente frequentata ancora nel III secolo a.C.. Le divinità cui la devozione dei fedeli era rivolta, a giudicare anche dalla natura delle offerte praticate e dalle iscrizioni ritrovate, erano certarnente femminili (Menerva, Aritimi, Turan). Il culto era per certo anche di tipo oracolare e la qual cosa rende ragione della provenienza da altre città degli autori delle dediche votive rinvenute, giunti evidentemente a cercare responsi dagli dèi.

Latona che culla Apollo (Museo di Villa Giulia)

Sulla scia delle più recenti ricerche e studi condotti dall'Università di Roma "La Sapienza" e della rilettura della documentazione prodotta dagli studiosi che nel tempo se ne sono occupati è stato possibile meglio definire le fasi cronologiche e struttive di questo sacro complesso, considerato che l'alta antichità dell'origine del culto era già stata dimostrata dalle ricerche svolte da Enrico Stefani e Massimo Pallottino, i quali avevano scoperto tracce di frequentazione a partire dalla prima del VII secolo a.C. nel luogo dove sarebbe in seguito sorto questo articolato complesso.

Un momento pregnante sul piano architettonico va riconosciuto approssimativamente negli anni fra il 540 e il 500, in coincidenza con l'avvio della sua monumentalizzazione: essa si concretò attraverso la costruzione del muro di terrazzamento su uno dei lati e dell'oikos rettangolare sul lato orientale, cui fu affiancato l'altare quadrato nella sua prima fase struttiva, il quale proprio per il condotto che, attraversandolo, lo pone in collegamento fisico con il sottosuolo, appare funzionale a pratiche religiose di tipo ctonio o, in virtù della somiglianza con l'altare l'analoga struttura di Punta della Vipera, poteva essere funzionale addirittura a un culto oracolare (a Punta della Vipera la divinità era infatti Menerva nella sua veste oracolare).

Successivamente la zona interessata dai nuovi interventi edilizi fu quella occidentale, con la costruzione di un edificio del quale sopravvivono solo lacerti delle strutture muranee e che probabilmente precedette il tempio vero e proprio: di quello restano alcune terrecotte architettoniche figurate con i consueti temi in voga nel periodo arcaico (lastre policrome con assemblee divine, cortei di cavalieri, scene conviviali ecc.). Ma la stagione apogeica del santuario di Portonaccio, scandita da significativi interventi di ristrutturazione, si situò negli ultimi anni del VI secolo a.C., quando le manifestazioni dell'arte e dell'artigianato arcaici si impregnavano degli influssi provenienti dalla Ionia micrasiatica (ricordiamo che a Tarquinia nella necropoli dei Monterozzi si affrescano le tombe in stile "ionico", a Vulci e Cerveteri vengono prodotte dalle botteghe locali la ceramica "pontica" e le hydriae ceretane). In luogo dell'edificio ornato con le terrecotte prima ricordato, la cui esatta destinazione non appare così perspicua, fu eretto il tempio vero e proprio con la contigua piscina: l'aspetto più caratterizzante e, nel contempo, eccezionale è naturalmente rappresentato dalla plastica acroteriale che affollava il tetto, ben visibile anche per chi veniva da lontano. Delle basi sulle quali le statue in terracotta erano montate - collocate sul kalypter hegemon del culmine e dei kalypteres degli spioventi - ne sono state rinvenute una ventina (rispettivamente dodici e otto), ed è verosimile che esse fossero raggruppate a formare nuclei narrativi diversificati da porsi in relazioni con episodi di uno o più cicli mitologici ovviamente connessi alle divinità venerate nel santuario stesso.

L'altissimo livello artistico che traspare dalla realizzazione di questi pezzi tradisce, dietro la manifattura affidata alle mani di più artefici, l'esistenza di un unico, grande maestro avvezzo ad affrontare le questioni tecniche e prospettiche della coroplastica figurata acroteriale. La statua collocata sulla parte somrnitale del tetto, perduta, era effigiata in posizione seduta con schienale alle sue spalle, forse a voler alludere a una sorta di trono. Si trattò dunque di un'impresa edilizia di amplissimo respiro, sorretta evidentemente da larghezza di mezzi economici dispendiosamente profusi. A fronte del ciclo figurativo nel quale Minerva di fatto non compare, resta tutt’ora da sciogliere il dubbio su quale o quali siano, di fatto, i divini destinataci di tanto fasto devozionale: le figure acroteriali sono infatti quelle di Ercole e Apollo, Apollo fanciullo nelle braccia della madre Latona, Hermes. L'ispirazione al ciclo divino evocato anche nel più famoso santuario greco, quello di Delfi, lascerebbe intendere che anche la piscina possedesse, nel quadro di queste vicende, una valenza oracolare, connesso dunque a pratiche mantiche e di divinazione.

In seguito altre vicende modificarono le sorti dell'area del santuario durante il V secolo a.C.: il sacello fu demolito, forse poiche non più adeguato alle esigenze cultuali del luogo, i gruppi fittili furono pietosamente seppelliti a ridosso dei muri settentrionale e occidentale. Ancora in epoca romana, dopo l'avvenuta conquista di Veio, la durevole fama del santuario lo protesse da una decadenza repentina, o quantomeno lo preservò da una possibile distruzione. Recentemente è stato portato alla conoscenza del pubblico uno splendido gruppo che raffigura Eracle accompagnato dalla dea Minerva, nell'ambito dell'episodio che vede la dea a fianco dell'eroe e in procinto di introdurlo nell'Olimpo. Questa composizione è assai simile a quella, assai celebre, che fungeva da acroterio (secondo alcuni studiosi si trattava invece di un donario) nel tempio di Sant'Omobono a Roma. Eracle è nudo, coperto solo dal perizoma e dalla pelle del leone Nemeo, vittima di una delle sue dodici fatiche, con chioma ricciuta in origine tinta di biondo; Minerva, in tenuta oplitica, sorride. Il gruppo doveva avere una destinazione votiva e, benche di notevole profilo artistico, qualitativamente si colloca a un livello inferiore rispetto a quello del "Maestro dell'Apollo". Sepolto nei pressi del sacello dedicato alla dea, il donario è di poco più recente dei gruppi acroteriali, rispetto ai quali palesa una più accentuata e spinta ricerca anatomica nei corpi.

In epoca arcaica erano attivi anche fulcri religiosi: uno piuttosto importante fu riconosciuto in località Campetti, ove sorgevano almeno due edifici sacri e donde provengono numerosi ex voto che ci illuminano sulla frequentazione del sito dal VI secolo a.C. sino a quella tardo-repubblicana. Altre zone di culto sono state individuate a Macchiagrande e lungo i declivi di Piazza d' Armi, come testimonia l'esistenza delle stipi votive ritrovate.  

 

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