Sito Personale di Piero Strobino - Cardé provincia di Cuneo

Piero  Strobino

" il  dissesto "

 

 

IL  DISSESTO  IDROGEOLOGICO  -  CAUSE ED EFFETTI.

 

   Lo spopolamento della montagna col conseguente suo abbandono da parte di coloro che provvedevano a curarne il territorio, è stata la causa primaria dalla quale si è generato il cosiddetto dissesto idrogeologico. Questa assenza ha decretato la fine della silvicoltura e ha dato l’avvio a tipi di interventi disomogenei come la deforestazione indiscriminata e selvaggia, il mancato taglio dell’erba dei pascoli e la mancata raccolta delle foglie nei boschi di latifoglie; nello stesso tempo il proliferare di attività di tipo diverso dalla silvicoltura, ha comportato un’eccessiva urbanizzazione delle valli con relativa massiccia opera di cementificazione. Analizziamo ora nello specifico tutte queste problematiche, partendo dalla deforestazione: praticata in modo irrazionale, senza cioè preoccuparsi di ripiantare laddove si era deforestato, essa ha provocato sia un forte aumento della quantità di ruscellamento dell’acqua piovana, sia una notevole diminuzione del tempo di scorrimento dello stesso verso i corsi d’acqua. Infatti mentre prima le chiome degli alberi ritardavano l’impatto dell’acqua piovana sul terreno e susseguentemente riducevano la quantità di ruscellamento attraverso la notevole azione assorbente delle radici, ora tutto quello che cade dal cielo finisce direttamente sul terreno e da qui altrettanto direttamente e velocemente nei corsi d’acqua secondari che poi confluiscono tutti nel corso d’acqua principale. Ecco quindi spiegate quelle ondate di piena improvvise cui sempre più spesso assistiamo. A tutto questo bisogna aggiungere anche il mancato taglio dell’erba dei pascoli e la mancata raccolta delle foglie che, accumulandosi nel tempo, formano una specie di tappeto impermeabilizzante che non permette più al terreno di assorbire l’acqua piovana aumentandone quindi la portata di ruscellamento e diminuendone il tempo di scorrimento. Nello stesso tempo il terreno, non più ancorato dalle radici degli alberi, tende a scivolare sui pendii provocando frane e smottamenti, che a volte vanno ad ostruire l’alveo del corso d’acqua principale con conseguenti  fuoruscite incontrollate delle acque in piena. L’ultimo anello di questa catena è rappresentato dalle attività legate ad un certo tipo di fruizione e dalla conseguente urbanizzazione necessaria per contenere il flusso turistico, che hanno comportato un forte aumento della deforestazione e della cementificazione. Un business enorme che ha contribuito ad accelerare lo spopolamento della montagna da parte dei montanari, ma dal quale gli stessi montanari non hanno avuto grossi vantaggi essendo gli imprenditori del settore in maggioranza cittadini. Un recente eclatante esempio arriva dal Parco Nazionale dell’Abruzzo, dove sono già stati abbattuti migliaia di faggi secolari per far posto ad un nuovo impianto sciistico che si sta realizzando all’interno del Parco stesso, oltretutto violandone le normative. Quali saranno le conseguenze? Sarà il futuro a dircelo, anche se potrebbe essere persin troppo facile profetizzarle... Certo sarebbe molto più onesto fornire un’informazione corretta su quale sia il prezzo da pagare in termini ambientali e di sicurezza idrogeologica continuando in questa direzione.

 

 

Ma allora cosa fare? Una soluzione potrebbe essere quella di affiancare le attività turistiche ad altre attività che possano compensare, o almeno attutire, l’impatto da essa derivante. Ad esempio ricreare la silvicoltura, tentando di riportare in montagna gente disposta a dedicarsi a questa attività, magari offrendo loro condizioni di vita dignitose attraverso finanziamenti e contributi. Un investimento mirato ad un’attività di prevenzione, insomma, un investimento che a medio - lungo termine darebbe i suoi frutti anche in termini economici, perché  prevenire costa meno che ricostruire… 

Ovviamente l’abbandono della montagna e le conseguenze ad esso collegate,  hanno provocato e provocano grosse ripercussioni a valle. In questo senso una informazione volutamente mistificatrice perché propugnata da certe potenti corporazioni con grossi interessi legati allo sfruttamento del territorio, attribuisce la responsabilità delle catastrofi agli ambientalisti (o Verdi, che non sono esattamente la stessa cosa, ma che nell’immaginario comune vengono accomunati grazie proprio a quell’informazione mistificatrice cui facevo cenno prima...) che « non lasciano dragare i fiumi, che non lasciano tagliare le piante sulle sponde, che non lasciano cementificare, ecc ». Magari fosse così! Forse queste catastrofi non avverrebbero o comunque sarebbero contenute. Invece la frase corretta da dire sarebbe: «Gli ambientalisti (o Verdi) VORREBBERO che non si dragassero i fiumi, che non si tagliassero le piante sulle sponde, che non si cementificasse, ecc ». Purtroppo, però, le loro argomentazioni, che sono anche le argomentazioni di geologi, naturalisti, periti forestali, biologi, ittiologi, ecc, vale a dire tecnici del settore, non vengono prese in considerazione perché gli ambientalisti (o Verdi) non hanno nessun altro potere se non quello di protestare! D’altronde non s’è mai visto, nemmeno nelle più grandi democrazie, che un movimento con appena un 2% del corpo elettorale riesca ad avere un potere come quello che la vox populi attribuisce agli ambientalisti...

Un’altra leggenda metropolitana, sempre creata ad arte dalle suddette corporazioni ( e da politici compiacenti...), attribuisce agli ambientalisti (o Verdi) l’opposizione alla pulizia degli alvei dei fiumi da alberi e detriti vari; anche in questo caso niente di più falso! Infatti una legge ben precisa dello Stato dice che “ le piante sradicate, trascinate dall’acqua e depositatesi nell’alveo dopo le piene, diventano “RES NULLIUS”, vale a dire “COSA DI NESSUNO”, che, nel linguaggio giuridico, viene usata per indicare un bene che si acquisisce per occupazione; ovvero, più semplicemente, diventa proprietà di chi lo raccoglie!

 

 

La verità invece è esattamente inversa: ad aggirare o addirittura ad ignorare molte leggi dello Stato sono proprio quelli che poi criminalizzano gli ambientalisti (o Verdi)! Cioè gli speculatori. Infatti le ripercussioni a valle dei problemi creatisi in montagna sono state enormemente ingigantite dall’uomo con interventi ancor più irrazionali di quelli praticati in montagna, interventi di mero stampo speculativo. Ci riferiamo proprio agli inopportuni interventi in alveo, alla deforestazione delle sponde e delle aree alluvionali ed all’occupazione antropica delle stesse aree alluvionali (golena o area di pertinenza fluviale), vale a dire tutti quegli interventi che gli ambientalisti sconsigliano e che invece sono stati cinicamente messi in opera dagli speculatori a partire dalla fine degli anni 50 in poi, nonostante precise normative a livello nazionale e regionale li vietassero o, comunque, li limitassero.

Andiamo ad analizzarli, questi interventi: per quanto riguarda quelli in alveo c’è subito da precisare che hanno tutti un effetto destabilizzante sulla dinamica del fiume, perché interrompono la sua evoluzione naturale; il più devastante, però, è stato il cavare materiale litoideo per il semplice motivo che è stato il primo. Le cavazioni selvagge in alveo iniziate a partire dall’inizio degli anni 50, hanno quindi alterato l’equilibrio naturale, che durava da miliardi di anni, provocando la  “reazione”  del fiume che cerca di riprendersi il maltolto. Infatti, cavando, si è contribuito ad abbassare in modo innaturale e repentino l’alveo di magra dei fiumi indebolendo la resistenza delle sponde che, senza più il sostegno delle “fondamenta” naturali, hanno cominciato a crollare più facilmente durante le piene, determinando enormi erosioni. Poi nel 1985 fu istituita la Legge 431, meglio conosciuta come Legge Galasso, che vietava la cavazione in alveo; ma ormai il dissesto era stato avviato ed inoltre questa Legge è stata ed è metodicamente aggirata con stratagemmi di ogni tipo. Uno di questi stratagemmi, ad esempio, è quello di aver fatto credere alla gente che l’alveo di magra dei fiumi si sia alzato. Invece la verità è un’altra; infatti uno studio promosso nel 1993 sulla base di accordi socio – economici intercorsi tra Regione P.te ed alcuni comuni del tratto piemontese del Po, ha stabilito che l’alveo di magra è risultato più basso in tutti i punti di rilevamento rispetto a 50 anni fa, con punte massime di 3,50 metri (è il caso del rilevamento in corrispondenza del ponte di Crescentino!). Ecco perché, ad esempio, i ponti crollano: perché i piloni di sostegno sono stati scalzati, altro che alberi contro i piloni! Questo è un altro falso problema inventato ad arte per completare la deforestazione! Le piante fluviali (salici, ontani, robinie, sambuchi, ecc) vivono in perfetta simbiosi coi fiumi perché sono state create per questo; infatti col loro grande apparato radicale servono a mantenere la stabilità delle sponde, non il contrario! Inoltre quelle piante che effettivamente si possono trovare addossate ai ponti dopo ogni piena, nel 90% dei casi sono pioppi (piante di coltura e non naturali, quindi gli unici veramente pericolosi se piantati vicino ai fiumi a causa del loro scarsissimo apparato radicale, ma, paradossalmente, anche gli unici a non essere messi in discussione...), sradicati in golena dopo lo straripamento, vale a dire dopo l’uscita dell’acqua dall’alveo e trascinati lì nella fase di deflusso. Nella fase di crescita della piena, prima cioè che l’acqua esca dall’alveo, è rarissimo vedere passare delle piante.

 

 

Tornando al presunto innalzamento dell’alveo di magra ed al conseguente aumento dei ghiareti, la verità sta all’opposto: è proprio l’abbassamento dell’alveo di magra, unito alla minor portata d’acqua dovuta alle sempre maggiori captazioni, altro grande problema che angustia i fiumi, a far emergere più facilmente i ghiareti; mancando l’acqua, ecco che il fiume resta in secca e la ghiaia esce allo scoperto. Però, con la menzogna dell’alveo rialzato e sfruttando l’onda emozionale causata dalle alluvioni, si aggira la Legge Galasso e si continua a cavare nei fiumi!

Ma non è finita qui, perché l’uomo, nella sua irresponsabile arroganza, ha deciso di opporsi alla reazione del fiume con altri interventi che non hanno fatto altro che aumentare la destabilizzazione dell’intero ecosistema fluviale; ci riferiamo alla cementificazione degli alvei mediante “prismate” di cemento o mediante massicciate con massi di risulta delle cave di montagna che hanno ridotto i fiumi a veri e propri canali. In pratica si cava la ghiaia dai fiumi per farla ritornare sottoforma di prismi di cemento e si spianano le montagne per posizionarle all’interno dell’alveo dei fiumi! C’è però una sostanziale differenza tra i canali artificiali ed i fiumi canalizzati: infatti, mentre nei canali artificiali il flusso dell’acqua viene regolato da un sistema di paratìe, nei fiumi, canalizzati  o meno, questo non è possibile farlo; i fiumi  raccolgono tutta l’acqua che cade dal cielo con le relative conseguenze. Come se non bastasse, l’uomo, per ottenere sempre maggiori terreni da adibire alle colture, ha rettificato il corso dei fiumi smeandrizzando gli alvei e deforestando sia le aree golenali coperte dal cosiddetto bosco planiziale che serviva da frangiflutti rallentando la furia delle acque in piena, sia le sponde coperte dal ceduo che, col suo grande apparato radicale, garantiva solidità alle sponde  stesse. La smeandrizzazione ha fatto sì che i fiumi si accorciassero sempre più (da una ricerca del CNR del 1993, il Po nel solo tratto piemontese risulta più corto del 6%, vale a dire 12 Km, rispetto a 50 anni fa!) e diventassero delle vere e proprie autostrade, con conseguente aumento della loro velocità e della loro forza distruttiva. Con queste condizioni cosa succederebbe, oggi, nel Polesine, se si ripetesse la piena del 1951?

L’ultimo anello della catena, non certamente meno importante degli altri, è stata l’occupazione antropica delle aree golenali. Nei tempi passati la golena, ovvero quel territorio che l’acqua del fiume occupa quando esce all’alveo e che il geologo calcola sulla base di piene secolari, era occupata quasi esclusivamente dal cosiddetto “bosco planiziale” e dal ceduo; oggi, invece, la golena è stata quasi interamente occupata dall’uomo. Infatti, sempre dalla succitata ricerca del 1993 del CNR, risulta che negli ultimi 50 anni, al Po, nel solo tratto piemontese, è stato sottratto il 67% dell’area golenale! Ma la cosa più grave è che in questo 67% l’uomo non si è limitato alle attività seminative che si potrebbero ancora capire, ma ha avviato un’infinità di attività produttive non solo di tipo agricolo ma anche di tipo artigianale e industriale o, addirittura, ha fatto ampliare i centri abitati. In pratica si sono costruite fabbriche, capannoni per allevamenti, camping ecc e, purtroppo, anche case, sopra un territorio destinato prima o poi a finire sott’acqua! Eppure bastava consultare un geologo o molto più semplicemente gli archivi comunali per sapere cosa sarebbe successo! Ma allora perché l’uomo non si è mai fermato benché fosse a conoscenza di  questi pericoli? La risposta è tutta in una sola parola: SPECULAZIONE! I fiumi sono diventati un business da migliaia di miliardi l’anno, perché la ricostruzione dopo ogni alluvione è un bell’affare per le stesse imprese che quel disastro hanno contribuito a creare. E gli speculatori non si fermano davanti a nulla, compresa la vita delle popolazioni rivierasche, anche perché, paradossalmente, hanno il sostegno proprio della maggioranza dei cittadini, rivieraschi o meno, scientemente istruiti contro chi tenta di metterli in guardia! In pratica la maggioranza della gente plaude ai propri carnefici! Si vuole continuare su questa strada? Si faccia pure, ma almeno si lascino in pace gli ambientalisti (o Verdi).

 

 

E allora, in concreto, cosa si potrebbe fare per contenere (non eliminare, perché, in ogni caso, le piene ci sono sempre state fin dall’alba del mondo e sempre ci saranno), questi disastrosi eventi? Bene: si dovrebbe tornare alla rinaturalizzazione dell’ecosistema fluviale lasciando che il fiume divaghi nel suo ambito di diritto (il fiume non va dove vuole come sostengono i fautori del cemento, ma solo nel suo ambito di diritto e questo ambito di diritto nessuno lo fermerà mai...) laddove è ancora possibile farlo, creando magari delle sacche di espansione in golena e riforestando. Laddove invece non é più possibile perché l’occupazione antropica è ormai troppo accentuata, si dovrebbero innalzare gli argini, le famose barbacan-e, che limitano la golena dando comunque la possibilità al fiume di espandersi e che, nello stesso tempo, assicurano protezione ai centri abitati e consentono la coltivazione sicura di terre che invece sarebbero periodicamente alluvionate. Era un sistema usato dai nostri avi, che non avevano le tecnologie attuali ma sapevano rispettare l’ambiente che li circondava. Ovviamente si dovrà studiare (magari concordandola con le associazioni di categoria) una giusta forma di indennizzo per i proprietari che potrebbero avere le terre interessate da questo tipo di intervento; in ogni caso sarebbe un costo di carattere definitivo e quindi decisamente inferiore, sia in termini economici che in termini di sicurezza, di quelli portati avanti in questi ultimi 50 anni, serviti solo a gonfiare le tasche dei soliti noti, alla faccia delle leggi e sulla pelle della gente che vive sulle rive dei fiumi.

Per concludere vorrei precisare che questo documento non vuole avere nessun’altra funzione se non quella di tentare di ristabilire la verità al di là della banalizzazione delle favole da bar e della sottocultura che si ha del territorio. Poi ognuno è libero di credere a ciò che vuole, perché, come dice un famoso proverbio, “non c’è sordo più sordo di colui che non vuol sentire”.

Ancora un’ultima riflessione: è più credibile la tesi di coloro che non hanno interessi sul territorio o la tesi di coloro che dallo sfruttamento del territorio traggono i loro profitti?

Piero Strobino

 

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                               PICCOLO GLOSSARIO SULL’AMBIENTE FLUVIALE

 

ALVEO – É la parte incisa del fiume, dove normalmente scorre l’acqua; è composto dalle due sponde e dal letto, vale a dire il fondo. Il fiume se lo è scavato nel corso dei secoli. Quindi è errata la definizione “il fiume è uscito dagli argini” oppure “il fiume ha rotto gli argini”; le definizioni corrette sono “il fiume è uscito dall’alveo”, oppure “il fiume è tracimato” (o esondato o straripato). Le prime due possono valere solo per quei luoghi dove esistono gli argini (es. Polesine). Gli interventi all’interno degli alvei, come purtroppo si è fatto in questi ultimi 50 anni e come si continua a fare, hanno sempre o quasi un effetto destabilizzante per l’ecosistema fluviale e creano i presupposti per i disastri ai quali sempre più spesso stiamo assistendo, ma nello stesso tempo  sono decisamente molto convenienti dal punto di vista del profitto… Gli unici veri interventi da fare per “mettere in sicurezza i fiumi” (neologismo creato ad arte per confondere la gente…) sono la costruzione degli argini (barbacan-e) in golena e la regimazione idraulica controllata.


ARGINE (IN PIEMONTESE BARBACAN-A) – É una barriera artificiale di altezza variabile che viene innalzata per delimitare la golena; deve essere composta da materiale golenale e da erba radica naturale (tipo rovo o gramigna ecc...). Alcuni usano piantumarla ma questo potrebbe essere causa di pericolo per la sua compattezza in quanto le radici delle piante creano comunque delle fessure dove il fiume in piena potrebbe insinuarsi. É completamente sbagliato, invece, costruirli con massi ciclopici, assolutamente estranei all’habitat fluviale. Gli argini sono l’unico intervento che si dovrebbe fare all’interno dell’ecosistema fluviale per “mettere in sicurezza” i fiumi. Gli argini, infatti, pur  delimitando la golena, permettono comunque al fiume di sfogarsi e di diminuire la sua forza distruttiva. Molto usati in passato dai nostri avi che pur non avendo grandi tecnologie sapevano vivere in modo armonioso col fiume, oggi nelle nostre zone sono stati praticamente abbandonati; anzi, i preesistenti sono stati eliminati sempre per lo stesso motivo: la speculazione. In questo caso per avere più terre da coltivare avvicinandosi sempre più all’alveo dei fiumi... Dopo la grande piena del 1951, sono invece stati costruiti ex novo oppure rinforzati i preesistenti nella zona del Polesine, in quanto in quest’area l’alveo del Po è addirittura pensile, vale a dire è più alto del piano di campagna.


GOLENA – É la parte che il fiume invade quando esce dall’alveo; infatti viene anche riconosciuta come “area di pertinenza fluviale” oppure “area alluvionale”. Può essere di un metro come di 1 km o più, a seconda del dislivello del piano di campagna. La sua delimitazione viene stabilita da uno studio geologico del territorio. La golena è quindi di proprietà del fiume che periodicamente ma inevitabilmente la invade e sarebbe opportuno non occuparla antropicamente, né con colture, né, soprattutto, con costruzioni, come invece e purtroppo sempre più spesso accade. Da uno studio condotto nel 1993 del CNR è stato scoperto che solo nella Regione Piemonte è stato sottratto al Po ben il 67% di golena (sicuramente oggi questa percentuale è aumentata)! E purtroppo in questo 67% non solo si è coltivato ma sovente si è anche costruito! Proprio l’urbanizzazione delle golene è stato il più spregiudicato degli interventi speculativi all’interno degli ecosistemi fluviali. In passato le golene erano di proprietà demaniale ed erano per la maggior parte boscate con ceduo (salici, ontani, robinie, sambuchi, ecc...) o con essenze autoctone facenti parte del cosiddetto bosco planiziale (querce, noci, aceri, ciliegi selvatici, ecc...); oggi, non si sa bene come e perché, sono diventate tutte di proprietà privata...


REGIMAZIONE IDRAULICA – Viene così definita tutta una serie di interventi preventivi all’interno degli alvei dei fiumi laddove ne esistano realmente le condizioni (taglio periodico del ceduo sulle sponde per mantenerlo ad altezza arbustiva, asportazione di legname residuato delle piene, eventuale asportazione di materiale litoideo in eccesso, ecc...), o anche in golena (costruzione e/o manutenzione di argini, deforestazione controllata, ecc), interventi del tutto abbandonati perché non più redditizi... Fino ad alcuni anni fa l’asportazione in alveo del legname residuato di piena era praticato dalle popolazioni rivierasche come accaparramento di legna da ardere, ma con l’avvento del riscaldamento a gasolio e a metano è stato completamente abbandonato. Nessuna legge impedisce però di effettuarlo, anzi; proprio per legge è stabilito che “le piante sradicate, trascinate dall’acqua e depositatesi nell’alveo dopo le piene, diventano “RES NULLIUS”, vale a dire “COSA DI NESSUNO”.* Per la verità oggi l’unico intervento spacciato per regimazione idraulica che ancora si fa è l’asportazione dei cosiddetti sovralluvionamenti, ma lo si fa in modo selvaggio e del tutto arbitrario e mirato solo all’accaparramento gratuito di questo materiale poi venduto a prezzi “dorati”...


PRISMATA – Le prismate sono quei prismi di cemento armato immessi negli alvei dei fiumi per arginare le sponde; sono costruiti con la ghiaia estratta dai fiumi stessi. In pratica si toglie la ghiaia ai fiumi per farla ritornare sottoforma di cemento. In realtà le prismate non servono a nulla, anzi: immesse nei fiumi a compartimenti stagni come si è fatto finora e senza studiare la dinamica del corso d’acqua nella sua completezza, sono esclusivamente fonte di danno perché contribuiscono in modo determinante a quel processo di cementificazione che ha provocato, provoca e continuerà a provocare enormi disastri.


MASSICCIATA – Vale l’identico discorso fatto per le prismate; infatti la massicciata è un’altra versione dell’arginatura in alveo, fatta però con massi cosiddetti “ciclopici”, vale a dire i massi di risulta delle cave di montagna. In pratica si spianano le montagne per posizionarle sui fiumi. Gli interventi in alveo, di qualsiasi altro tipo diverso dalla regimazione idraulica, sono sempre dannosi per la dinamicità dei fiumi, in quanto ne interrompono e ne stravolgono l’evoluzione naturale; possono essere utili solo in prossimità di manufatti tipo ponti, strade, ferrovie, ecc... o di centri abitati, ma comunque solo dopo aver studiato la dinamicità del fiume in ogni suo dettaglio. In ogni caso, sia le prismate che le massicciate possono eventualmente solo fermare un’erosione, ma mai la tracimazione, anzi: la tracimazione viene favorita perché questi corpi estranei restringono l’alveo e, essendo impermeabili e di superficie levigata, lo privano della sua naturalità assorbente derivata dal terreno sabbioso e dalle radici delle piante, aumentando di conseguenza il volume di portata d’acqua e la velocità della stessa. Sia le prismate che le massicciate sono, per la maggior parte dei casi, interventi di mero stampo speculativo.


MEANDRO – Sono le grandi e prolungate anse che i fiumi si erano costruiti nella loro evoluzione naturale nel corso dei secoli; purtroppo le succitate opere di cementificazione hanno provocato la quasi totale scomparsa dei meandri con conseguente canalizzazione dei fiumi, in questo modo diventati più corti e spaventosamente più veloci e distruttivi.


SMEANDRIZZAZIONE – Significa “Eliminazione dei meandri”. Purtroppo è una pratica diventata sempre più comune, oltre che arbitraria, effettuata per acquisire sempre maggiori terreni da adibire all’agricoltura. In questo modo i fiumi sono stati raddrizzati e quindi notevolmente accorciati (il Po, solo nel tratto piemontese, è stato accorciato del 6%, vale a dire circa 12 km!).* Inoltre la smeandrizzazione comporta anche la messa in opera di prismate o massicciate, che completano così il processo di cementificazione e di canalizzazione. Di conseguenza la velocità dell’acqua aumenta vertiginosamente e la tracimazione viene ad essere anticipata perché la stessa quantità d’acqua che prima era contenuta nel tratto meandrizzato, non può più essere contenuta nello stesso tratto smeandrizzato e quindi più corto. La conseguenza finale è una maggiore fuoriuscita d’acqua che causerà l’ampliamento della golena con il raggiungimento di zone mai raggiunte prima, zone che magari, nel frattempo, sono state urbanizzate...


GHIARETO  - Sarebbero i ghiaioni, quelli che oggi vengono indicati come sovralluvionamenti  criminalizzati per questioni di mero profitto. In verità i ghiareti (o ghiaioni) ci sono sempre stati e sempre ci saranno, anzi: un tempo ce n’erano molti di più. Sono formati dall’evoluzione naturale del trasporto di materiale litoideo che i fiumi producono. L’impressione che oggi siano aumentati è dovuta alla diminuzione della portata d’acqua dei fiumi nei periodi di secca; di conseguenza, essendoci meno acqua, la ghiaia esce allo scoperto, ma l’alveo in realtà si è abbassato ovunque perché fa parte dell’evoluzione naturale dei fiumi. Se poi l’uomo continuerà a intervenire negli alvei per asportarli con l’accusa del tutto arbitraria e opportunistica di essere causa delle esondazioni, è chiaro che non ne vedremo più, ma é altrettanto chiaro che continueremo anche a pagare le conseguenze di questi pseudo interventi di “messa in sicurezza” dei fiumi.


CEMENTIFICAZIONE – É la progressiva antropizzazzione del territorio con cemento e asfalto, che viene così denaturalizzato; nello specifico la cementificazione dell’habitat fluviale avviene mediante l’arginatura degli alvei dei fiumi con prismate e/o massi ciclopici, la deforestazione selvaggia della golena e delle sponde fluviali e l’occupazione antropica delle aree golenali tramite urbanizzazione.


CANALIZZAZIONE – La smeandrizzazione dei fiumi, con conseguente cementificazione degli alvei, porta alla canalizzazione, vale a dire, la trasformazione di un fiume in un canale. C’è però una differenza sostanziale tra un canale artificiale ed un fiume, sia esso naturale o canalizzato: mentre nel canale artificiale, mediante un sistema di paratie, viene immessa la quantità d’acqua che si ritiene opportuno immettere a seconda dell’uso che se ne vuole fare, nel fiume ciò non è possibile, perché nel fiume l’acqua viene immessa direttamente dal cielo, senza la mediazione dell’uomo. Di conseguenza, in caso di piogge persistenti e torrenziali, il fiume si gonfierà, strariperà e provocherà disastri più o meno gravi a seconda di quanto è stato manomesso e di quanto l’occupazione antropica della sua golena è stata massiccia. Non ci sono alternative!


DEFORESTAZIONE – La deforestazione, ovvero l’abbattimento dei boschi sia in montagna che in pianura, è una delle cause delle ondate di piena improvvise alle quali sempre più spesso assistiamo. Se un pendio montano è ben forestato, l’acqua di pioggia prima di arrivare al suolo viene trattenuta per un certo periodo di tempo dalle fronde degli alberi; quando poi quest’acqua viene rilasciata dalle fronde e tocca il suolo, è comunque contenuta nella portata e subisce un altro rallentamento (tempo di ruscellamento) nella corsa verso valle grazie all’assorbimento prodotto dalle radici di questi alberi. Se invece questi alberi vengono abbattuti, tutte le condizioni succitate vengono a mancare e tutta l’acqua di pioggia cadrà immediatamente sul terreno; di conseguenza aumenterà la portata d’acqua e, nello stesso tempo, diminuirà il tempo di ruscellamento verso valle. Ecco spiegate le piene “veloci”, amplificate anche dalla sempre maggior urbanizzazione e quindi dalla cementificazione del territorio che praticamente annulla la percentuale di assorbimento. Le stesse cose valgono per la pianura, dove ormai la superficie boscata dell’ecosistema fluviale è ridotta ad una piccola striscia spondale. Eppure c’è chi vorrebbe far levare anche queste poche piante, accusate, anche qui del tutto arbitrariamente e opportunisticamente dagli speculatori che hanno interesse a sostituirle con prismate e/o massicciate, di essere la causa delle piene con le fantomatiche “dighe” sotto i ponti, il “mostro” da sbattere in prima pagina! Per la verità le famose “dighe” non si formano quasi mai nel periodo di crescita della piena, ma nel periodo di deflusso, quando l’acqua, uscita dall’alveo e dopo averle asportate, se le trascina appresso. La prova? Eccola: assistendo ad una piena da sopra un ponte, si noterà che in fase di crescita, quando cioè l’acqua è ancora contenuta nell’alveo, non passeranno mai piante o arbusti in quantità tale da creare queste “dighe” ma, al limite, solo qualche tronco isolato e dimenticato nel fiume da piene precedenti, oltre al solito corollario di detriti vari. Ma anche qualora fosse vera (ma non lo é) la tesi delle “dighe”, chi la propugna si “dimentica” di dire che la maggior parte delle piante ferme sotto i ponti sono pioppi, i quali mai dovrebbero essere piantati nelle immediate vicinanze dei fiumi perché, al contrario delle piante spondali (salici, ontani, robinie e sambuchi) che col loro grande apparato radicale mantengono la compattezza delle sponde, sono quasi privi di radici e quindi facilmente sradicabili. Ma del problema dei pioppi è vietato parlare perché anche loro sono fonte di profitto...

* Vedere il documento “Il dissesto idrogeologico”

 

 

 

 

 

 

 


 

 

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