La raccolta Ossi di seppia (1925)

La prima edizione degli Ossi di seppia  è del 1925 e raccoglie le poesie composte fra il 1920 e il 1927 (nel 1928 uscirà una seconda edizione accresciuta).

Il titolo indica la conchiglia dorsale delle seppie, scarnificata e portata a riva dalle onde. È anche un’immagine del poeta stesso, escluso dalla società.

Nella poesia I limoni espone la sua poetica antieloquente, antidannunziana, anche se poi utilizza parole e costruzioni sintattiche molto ricercate. Infatti si dovrà parlare più che di scontro con D’Annunzio, di «attraversamento» di D’Annunzio, perché gli Ossi sono scintille derivate dall’«aver fatto cozzare l’aulico con il prosaico».

Non ci sono verità positive da cantare a voce spiegata (cfr. Non chiederci), infatti dominante è la volontà di negazione, su posizioni filosofiche preesistenzialiste: canta il «male di vivere», l’indifferenza vitale, la passività dell’io, già cantati da Sbarbaro e da Leopardi. La risposta al male è una sorta di atteggiamento difensivo nella pratica stoica della «divina Indifferenza», del distacco estraniato dal mondo.

L’angosciante ricerca di un’identità è tema centrale degli Ossi e non è tematica originale, visto che, ad esempio, tale medesima ricerca è al centro del coevo Uno, nessuno e centomila (1927) e La coscienza di Zeno (1923).

Paradossale è che l’impotenza e la disgregazione dell’io non promuovano una disgregazione formale (come, invece, accade in molti altri contemporanei), ma anzi richieda una profonda e scandita eloquenza. La critica contemporanea parla di «classicismo paradossale», cioè una poesia di tipo classico, ma consapevole delle conquiste della poesia moderna.

Il paesaggio è oggettivo emblema del destino dell’uomo, infelice perché non conosce il senso del vivere: paralisi esistenziale, perché è un destino che non può accettare, ma contro il quale non può ribellarsi (cfr. Meriggiare). Il paesaggio, insieme all’ora meridiana fulminata dalla luce e dall’arsura, mette a nudo la cruda violenza della natura che prosciuga, logora, corrode e lentamente dissolve.

La poesia può solo rispecchiare tale aridità, elencando cose (cfr. Spesso il male di vivere ho incontrato) e cercando rime e termini «petrosi». La parola di Montale né allude, né elude, ma indica con precisione oggetti definiti e concreti, fra loro collegati.

Solo a tratti si intravede un «varco», un «anello che non tiene» che ci fa capire il quid rivelatore e quindi liberatore (cfr. Casa sul mare), ma sono comunque altri gli uomini capaci di superarlo (le «disturbate divinità» dei Limoni - v. 36; e Falsetto); per sé, invece, non intravede alcuna possibilità di andare oltre (cfr. Arsenio).

Uno dei possibili varchi è quello della memoria, tema molto presente (cfr. Cigola la carrucola). Ovviamente la memoria potrebbe essere un’occasione per passare il varco, ma, come tale, è preclusa al poeta. Il tempo in Montale è sempre nemico e il suo ritorno sempre negativo, illusivo e doloroso.

Sotto l’influsso di Svevo (inettitudine) e de «La ronda» (ritorno all’ordine, decenza formale), si allontana in parte dalla prime posizioni avanguardistiche e da Ungaretti (rifiuta il frammentismo, restando molto più discorsivo); gli Ossi sono caratterizzati dal conservatorismo formale (Mengaldo), mirando a sistemare la novità etica e psicologica in un quadro di forme ‘autorizzate’. Il linguaggio deve molto a Pascoli e a D’Annunzio, al vocianesimo (i Frammenti di Rebora sono del 1913 e Pianissimo di Sbarbaro è del 1914) e a Dante (in netta opposizione al rifarsi a Petrarca da parte di Ungaretti e in generale dall’Ermetismo). Il sistema metrico appare dominato da settenari ed endecasillabi, con un fitto uso della rima anche interna o ipermetra, che determina la presenza di ritmi a volte evidenti, a volte nascosti.

Poesie da leggere:

1) contenuti metapoetici:

2) crisi di identità e aridità interiore:

3) il «varco»:

4) la memoria:


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