RECENSIONI |
PEPI, LUCI, BOM E LE ALTRE RAGAZZE DEL MUCCHIO
Già con "Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio" si definisce il sistema-Almodóvar: una struttura filmica molto ben coordinata, in cui la realtà della rappresentazione viene prima di quella rappresentata. Tutto accade secondo ciò che ci si aspetta, ma questo livello è assorbito, nello spettatore, dal godimento immediato per la fluidità teatrale dellintreccio. Il primo riferimento è Billy Wilder, le sue "commedie molto pazze, con molta azione e molti personaggi". Almodóvar inventa, si può dire, la formula del cinema addizionale: può mancare appena mezzora alla fine e lui non si stanca di far entrare in campo nuovi volti, non come contorno esotico né come colpo di scena, semplicemente altre storie che si aggiungono con naturalezza a una vicenda già molto articolata e che poi contribuiscono a sciogliere i nodi che il regista aveva sapientemente intrecciati.Il Manifesto, Febbraio 1989 | |
Pur acerbo e risparmioso lo stile di Almodóvar si riconosce al volo: nella descrizione della frenesia "post-franchista", nella goliardia porcellona che attraversa i vari personaggi, nella presa in giro degli spot televisivi indirizzati al pubblico femminile, nella variopinta franchezza del linguaggio (lasciato in spagnolo e sottotitolato). Ne esce il ritratto esagitato e balordo di una Spagna in bilico tra le repressioni del passato e le audacie del presente, ma consiglieremmo di non prendere troppo sul serio lapproccio sociologico. LUnità, Giugno 1990 |
Questo film è una commedia leggera, rapida,
ispirata nella forma e nel ritmo alle commedie sofisticate americane con un puro
"copione Almodóvar" che si compiace degli eccessi e avvicina con gioia
esuberante i complessi rapporti passionali che il regista analizzerà in seguito con
maggiore profondità e serietà. Il copione è audace, rocambolesco, delirante e kitsch.
Almodóvar ha una vera passione per luniverso del fotoromanzo, in questo film
portato allapogeo, e meno irriso che esaltato. "Labirinto di passioni" è
un film che gioca al cinema con piacere, e questo piacere viene soprattutto da una
certezza: Almodóvar adora raccontare storie. Cahiers du Cinema, Aprile 1991 |
LINDISCRETO FASCINO DEL PECCATO
Il film fu a suo tempo violentemente accusato
da una parte della stampa di vilipendio alla religione. Il regista rispose che non
cè nulla di più religioso che "iniettarsi delleroina nelle vene per
andare incontro a una persona che si ama", come fa il personaggio di Julieta, la
madre superiora, nei confronti di Yolanda. La risposta non è solo provocatoria:
Almodóvar vuole riciclare sempre di nuovo la realtà in un ordine "morale"
diverso e divertito, continuando a giocare però con gli stessi ingredienti umani. Non un
oltreuomo, nuovi apparati di informazione e percezione, ma un geniale continuo
"bricolage": uno spostamento continuo e depistante dei ruoli sessuali e dei
sentimenti. Il Manifesto, Febbraio 1989 |
CHE HO FATTO IO PER MERITARE QUESTO?!
Almodóvar è pazzo, cioè vivo, curioso,
esaltante. Fa un film sociale da neorealismo anni 80, condito di cinismo e humour
con personaggi spassosi e proletari, visioni scarne e geometriche, décor realistico,
volgare e "reale", ambienti vivisezionati e protagonisti che esprimono in pieno
disincanto e amoralismo della società moderna. Ma in questa storia di famiglia
proletaria, Almodóvar inserisce la sua cultura trasversale, il suo essere non-autore ma
macchina cinematografica di tipo nuovo e lavora per un cinema europeo meno presuntuoso e
magari più ricco di cose, viscerale, che pensa anche al piacere e alla sensibilità del
pubblico. Cineforum, Novembre 1989 |
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In quanto a ironia, a fantasiose bizzarrie, a colpi di scena quando meno li si aspetta, Almodóvar di certo non si risparmia; tuttavia, dalla comicità frenetica, talora crudele e corrosiva per una sorta di gioco al massacro della società spagnola post-franchista, emerge alcunchè di patetico, di comprensivo nei riguardi di unumanità emarginata. Sicuri segnali di sensibilità che ancora una volta si esplica sui personaggi femminili, sbalzati con giustezza di tratti nelle loro segrete ambizioni (la prostituta di buon cuore che sogna Las Vegas, la suocera che aspira a tornarsene al paese e alla campagna, la stessa Gloria che alla fine conquista il tanto sospirato tempo libero), tanto da cancellare laspetto sordido e buffonesco delle loro maschere. Il Corriere della sera, Ottobre 1989 |
Il cinema di Almodóvar usa occhi, orecchie e
bocca per percepire la realtà e, naturalmente, per deformarla. La sua narrazione, solo
apparentemente divagatoria, accumula fascinazione strada facendo. Si susseguono e si
alternano vuoti, impasse, pause, disorientamento, vertigine. È questo particolare,
giocoforza impertinente ma raffinato, che seduce lo spettatore anche meno svezzato alle
ambiguità. Limpero dei sensi di Almodóvar così implode più che esplodere,
lenergia delle passioni trattenuta fino allo spasimo finale. Il tutto con lo humour
e il portamento di chi la sa lunga sui meccanismi del piacere che il cinema ha imparato a
conoscere. Il Messaggero, Febbraio 1989 |
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Questa la bella definizione delleclisse che si ascolta in "Matador": "Cuando dos astros se interponen su luz se extingue aparentemente. Pero en su breve convergencia adquieren una nueva luminosidad, negra y ardiente". È la chiave per leggere questo film di Almodóvar, "enfant terrible" del cinema ispanico arrivato al successo da noi con "Donne sullorlo di una crisi di nervi". La definizione sattaglia a una scena da cui una futura antologia dellerotismo nel cinema degli anni 80 non potrà probabilmente prescindere: il conclusivo incontro dei due amanti maledetti che nellestasi dellorgasmo si danno la morte. In chiave decadentista e postmoderna, il romantico binomio di amore e morte è il centro di questo perverso melodramma sulla corrida dove gli esseri umani sostituiscono i tori e dove le parti del torero e del toro sono intercambiabili. I 96 minuti di "Matador" scorrono con fertile elegante agilità e gli si perdona facilmente, tanto è macroscopico, il comodo espediente del giovane Angel che alla fine diventa veggente. Il Giorno, Gennaio 1989 |
Ad Almodóvar, nel suo manifesto gay, riesce
quello che a Fassbinder non era mai riuscito: sciogliere una storia omosessuale con tutti
i suoi riferimenti alla cultura "camp" alla spagnola, in un racconto che
prescinda dallomosessualità e che giochi allegramente ai quattro cantoni tra farsa,
melodramma, surrealismo e romanticismo. Il cocktail riesce perché Almodóvar ha un innato
talento per le situazioni turgide, per le foto di gruppo, per gli scandali di famiglia e
per i sensi unici del destino, offrendo a tutti gloria e vergogna in egual misura, ma
senza mai far intervenire pentimenti o redenzioni, e tenendo fede a uno stile che può
anche irritare ma di fronte al quale non si resta indifferenti. Il Corriere della Sera, Dicembre 1987 |
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Almodóvar non teme lo scandalo della contaminazione delle forme e dei sensi: li fa deflagare in un eccentrico plot dove scrittura, passione amorosa e omicidio si fanno materiali incandescenti da forgiare e ai quali restituire spazi e tempi propri. Il feuilleton, il noir e lerotismo soft sono miscelati e fatti, melodrammaticamente, lievitare con una buona dose di sarcasmo nero tipicamente iberico, disseminato ampiamente nella fitta rete dei dialoghi e negli stessi tagli delle inquadrature. Lautenticità del sentimento amoroso è dato dallo scivolamento continuo, quasi una penetrazione incessante, molto hard, tra interni ed esterni, tra realtà e finzioni, tra colonna visiva e sonora. Il Manifesto, Novembre 1987 |
DONNE SULLORLO DI UNA CRISI DI NERVI
"Donne sullorlo di una crisi di
nervi" è un bello specchio della natura del film e in genere del cinema di Pedro
Almodóvar. Che è insieme serio e scanzonato, con una convinta e partecipata
trattatistica dellamore e delle sue sofferenze che si tramuta in parodia, sberleffo
e sghignazzo. Si impongono i singoli personaggi, spesso irresistibili: un tassista col
taxi foderato in leopardo che fornisce ai clienti musica, bevande e servizi vari. La madre
di un assassino che gli lava le camice sporche di sangue con "ecce homo", così
bianche che la polizia non lo scoprirà mai. Un gazpacho a base di sonnifero che alla fine
sistemerà tutti. E un altro punto di forza sono gli attori, anzi le attrici, dalla
irruente Carmen Maura, spigoloso meticcio del cinema di Almodóvar, a tutte le altre che
si chiamano María Barranco, Julieta Serrano, Rossy de Palma, Kiti Mánver. Tutte in
ghingheri, tacchi a spillo, gonne strette, gioielli vistosi, cappellini bizzarri. Perché,
se si deve parlare di donne, devono essere come Dio (e come la pubblicità e le riviste di
moda) comanda. La Repubblica, Novembre 1988 |
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"Donne sullorlo di una crisi di nervi" è un prototipo riuscitissimo. Commedia selvaggia da formula uno, di humour innovativo, come un Jerry Lewis anni 80. Dalla morte di Fassbinder non appariva un cineasta capace di battere anche in casa Hollywood. Recitato alla velocità della luca de Carmen Maura, Antonio Banderas e Julieta Serrano "Donne sullorlo di una crisi di nervi" colpisce a fondo e sempre. Cattura abilmente la cultura metropolitana giovanile di una città che è capitale notturna della movida, ha sviluppato una sofisticata filosofia e pratica della sofferenza quotidiana e un look per guardarsi allo specchio senza intristirsi e cadere nel rovinoso esaurimento nervoso. Il Manifesto, Settembre 1988 |
Almodóvar riesce a raccontare la sete
damore, di comunanza, di solidarietà, come un bisogno fisiologico che travolge ogni
ostacolo guidandoci a un lieto fine che è un calcio in faccia ai benpensanti. Il tutto
naturalmente, mescolando ironia e passione, ritagliando dal panorama di una moderna
metropoli mille scorci vitali e colorati, lasciando che i ritmi dellesistenza si
impossessino dello spettacolo. Il Corriere della Sera, Febbraio 1990 |
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Si direbbe che Almodóvar si sia infurbito. Le sue residue cattiverie, buttate lì con indifferenza, sono calibrate al millesimo in modo che, pur stuzzicando, non offendano alcuno. È bravissimo, in questo, Almodóvar. Sa costruire una tensione, assolutamente non angosciosa, senza ricorrere agli espedienti classici del thriller. E, dopo aver giocato con la paura (una paura finta più che autentica), la dissolve nel finale, assai confortante. "Légami!" è, probabilmente, il primo racconto cinematografico dove il sequestratore non finisce male. Viene ricercato da Marina (come era nei desideri si è innamorata di lui) dalla di lei sorella e scovato mentre dallalto di un muraglione contempla il paese ormai abbandonato dove ha trascorso linfanzia. Lei gli promette, in un happy end canoro, un mucchio di felicità. O forse no. Con un ghignetto quasi impercettibile Almodóvar cambia musica, brilla una luce poco rassicurante negli occhi della sorella di Marina Avvenire, Febbraio 1990 |
La tentazione del melodramma si annida ormai
da tempo nellopera di Almodóvar e, quindi, nessuno si dovrebbe sorprendere di
questa nuova incursione del creatore di "La legge del desiderio" negli
insicuri territori delle lacrime e dei sentimenti. La novità, però, sta nella volontà
esplicita, dichiarata nelle immagini di "Tacchi a spillo" , di articolare
un melodramma senza alibi, riuscendo a fonderlo con le pieghe della commedia e a
trasformare ogni scena e ogni piano in un rischioso esercizio funambulesco. Nel cuore di "Tacchi
a spillo" palpita un emozionante tour de force tra le due
attrici-personaggi, Marisa Paredes e Victoria Abril due mostri nel sedurre la
cinepresa quando si avvicina a loro e il suo creatore. Cè anche uno sforzo
di sobrietà e dominio rispetto alla pirotecnica visuale di "Lègami!". Diario 16, Ottobre 1991 |
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Tra un ticchettio e laltro si dispiega una nuova storia almodovariana che rappresenta un salto deciso dellesperto di leggi del desiderio e di donne sullorlo di una crisi di nervi. Ridotto allosso il film è il rapporto damore, odio, identificazione tra una madre e una figlia e Almodóvar inserisce una carica di verità, di strazio, di intensità mai prima raggiunta nei suoi allegri deliri delletà della movida. Con "Tacchi a spillo" Pedro Almodóvar, anche se continua a far finta di parodiare, anche se ama ancora pantografare, le psicologie e gli incidenti, per amore delleccesso, anche se sa far scaturire le risate da qualsiasi situazione, punta alto e arriva alto, nel territorio del grande cinema dei sentimenti. Tra cui fortissimo, il senso della morte, che per la prima volta mette in scena senza rituali folklorici, senza humour, senza sberleffi. La Repubblica, Febbraio 1992 |
Come la commedia hollywoodiana imprimeva su "Donne
sullorlo di una crisi di nervi" il suo ritmo trepidante, come il melodramma
dava a "Tacchi a spillo" la sua forma ampia, lussuosa e atemporale, così
la mescolanza di generi conferisce a "Kika" il suo carattere eteroclito,
ibrido, di favola che racconta di immagini in continua mutazione. La storia che racconta
il regista è dunque votata allo stupore e quella di Kika, la suo eroina, deve restare una
storia da farsi, un mosaico inquieto: "Ho bisogno di un po di
orienmtamento", dice Kika congedandosi da noi, nellultima scena, molto
spirituale. Al termine di un percorso dalle molteplici direzioni è proprio Kika quella
che in effetti non ha scelto la sua strada, ad affermare logicamente il soggetto del film:
il suo posto si confonde così con quello del regista. Cahiers du Cinema, Gennaio 1994 |
La grande novità de "Il fiore del mio
segreto", quello che non solo lo converte in uno dei migliori film di Almodóvar
ma anche in quello più compatto, nitido e consistente, è il fatto che il miscuglio qui
non avviene tra il melodramma e la sua parodia bensì tra due generi stabili, seri, che
mischiati dalla mano inevitabilmente corrosiva di Almodóvar, danno luogo ad un risultato
leggermente paradossale, a volte graffiante, ma decisamente unitario. Da un lato il
melodramma hollywoodiano anni 40, di turbolente donne sole, dallaltro la
stampa realista, con i suoi elementi di elevata definizione rurale. Grazie alle sue doti
di grande attrice Marisa Paredes emana versatile insicurezza, desiderio, vanità, amore e
sofferenza. Fotogramas, Settembre 1995 |
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La maturità dellautore coincide qui con la maturità dei personaggi. Così, dismessi i panni del birichino disturba benpensanti, Almodóvar, avvicinandosi ai 50, trattiene con se gli umori più duraturi della sua poetica e ci reagala uno dei suoi tanti personaggi femminili a tutto tondo. La Leo di Marisa Paredes passa tra forche caudine di passione, di dolore e resurrezione, restituendo a noi, un po voyeurs, il godimento di un melò depurato da ripetitività e immondizie culturali. Rimane così nel cineasta la felicità creativa nei dettagli fisio-psicologici dei personaggi, ma con tanto più mestiere e quindi rispetto della loro natura umana. Ciak, Maggio 1996 |
Almodóvar, ex-autore di culto, questa volta,
con "Carne tremula" decide per il racconto lineare, alternanza di noir e
luce, senza troppi eccessi di maniera. La storia si ispira ad un racconto di Ruth Rendell
e narra di un amour fou complicato da omicidi e droga, paralisi e senso di colpa, carne ed
espiazione. Dichiaratamente buñueliano, come segnala anche unesplicita citazione.
Bellissimo linizio, il parto notturno dentro lautobus, mentre la radio
annuncia un coprifuoco franchista, e bello anche lo svolgimento della scena clou, la
sparatoria che cambia i destini dei protagonisti. Ciak, Novembre 1997 |
Un melò pieno di battute esilaranti e con
happy end. Tragiche morti, solitudini e disastri sentimentali in una struttura narrativa
estrema e volutamente improbabile da telenovela. Un gioco esplicito sulla dissimulazione e
la teatralità della vita. Che però non ha nulla di finto e colpisce immediatamente al
cuore. Soprattutto un viaggio fatto di affetti speciali e di labirinti di passioni, dalla
disperazione alla luce, dalla complessità allessenza. Cè il gioco del
travestismo e quello del teatro, il gusto cinefilo e lamore per il melodramma. Ma "Tutto
su mia madre" è anche una grande partitura sentimentale sui temi della
maternità e della nascita. Un omaggio alla donna, prima attrice sulla scena della vita. Ciak, Settembre 1999 |
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Apparentemente improbabile cocktail di elementi narrativi e di storie, in forza di uno stile semplicissimo e sofisticato, di una profonda umanità, di uno humour affettuoso che controlla ogni eccesso, di una straordinaria finezza nel raccontare i sentimenti, di una squadra di interpreti di prim'ordine - da Marisa Paredes alla stupenda Cecilia Roth, dall'adorabile "transessuale" Antonia San Juan alla dolcissima Penélope Cruz - produce invece un piccolo miracolo: un film folle e strano, commovente e divertente, eccentrico e popolare. Come Shakespeare - e, ovviamente, come la vita - Almodóvar sa come alternare i toni, mescolare dramma e risate, commedia e tragedia. E la grande qualità del film è di riuscire, in un cinema sempre più evirato dei sentimenti - o, dall'altra parte, più sentimentalistico - a rappresentarli o a trasmetterli con la massima semplicità drammaturgica, con pochi tratti, con i tocchi giusti, senza indulgenze. Come quando il giovane Esteban (un'incantevole immagine di poetica adolescenza), guardando una foto di giovinezza della madre, strappata a metà, osserva che è quella parte mancante, in cui lui intuisce che era ritratto suo padre, la metà che manca anche alla sua vita. La Repubblica, Settembre 1999 |
La storia si muove avanti e indietro nel tempo, rivelandoci tratti della vita dei personaggi mediante flashback di sobria economia narrativa. Se i temi sono dolenti o scabrosi (la maternità della ragazza in coma), si sente che Almodóvar è diventato buono. Diversamente dai suoi primi film, quello che mette in rappresentazione è un mondo sostanzialmente benevolo, senza veri cattivi, con infermieri dediti al malato e carceri-modello che ospitano non galeotti, ma "internati". Il male è - per così dire - ontologico, perché la malattia, la morte, la solitudine appartengono alla vita umana e gli unici antidoti possibili sono l'amore, la solidarietà, l'amicizia. In questo senso, "Parla con lei" è l'ideale prosecuzione di "Tutto su mia madre", come del resto sottolinea un artificio scenico: l'altro film finiva con un sipario, questo inizia dallo stesso sipario. Impregnato di sincera fede nell'amore, il regista non dimentica come si dirigono gli attori; sembra quasi contagiarli, traendo da un cast di volti semisconosciuti un potere di convinzione che molte star nemmeno si sognano. La Repubblica, Marzo 2002 |
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Due belle addormentate nel coma in clinica e due uomini addolorati che le assistono, un prologo e un epilogo costituiti da brani di «Cafè Muller» e di «Masurca Fogo» di Pina Bausch, sette minuti d´un film muto datato 1924, «La solitudine, suppongo» come battuta-chiave, un «amante menguante» ossia amante rimpicciolito. Il quindicesimo film di Almodóvar è bellissimo. Parla di dolore, d´amore, d´amicizia e del peso della vita con uno stile interiore, profondo, splendente, straordinariamente maturato. E dirige gli attori (soprattutto Rosario Flores, ma anche i due protagonisti maschili) in modo magistrale. La Stampa, Marzo 2002 |