Capitolo 6 - Schemi

 

Se valuto con una scala da uno a dieci tutti gli hotel/motel in cui mi sono imbattuto negli ultimi 7 anni, l’Excelsior potrebbe meritare a titolo un bel sette.

Bella struttura, l’abbinamento di colori dal nero, a beige a tutte le gradazioni di marrone fatto con gusto, privacy.

Abbastanza formale per un meeting e abbastanza elegante per una fuga d’amore.

Il posto deve essere stato scelto da Diana, riconosco il tocco.

Lascio che sia lei ad occuparsi delle formalità mentre io mi do un occhiata intorno.

Dalla mia posizione nella hole posso sbirciare dentro l’elegante sala.

Bancone luccicante. Sgabelli d’orati e divani di pelle beige.

Un numero imprecisato di persone si intrattengono bevendo caffè e drinks.

E, per quello che ne so, ognuno di quegli uomini potrebbe essere Karpenter.

La strana sensazione che si era inspiegabilmente acutizzata in macchina non mi abbandona.

Per quanto le valutazioni di Diana siano corrette, è anche vero che c’è qualcosa di troppo strano nell’intera faccenda.

Qualcosa di troppo scontato.

Qualcosa che mi fa drizzare i peli del collo.

Perché sono ancora qui, allora?

Perché ho il disperato bisogno di scoprire qualcosa, qualsiasi cosa.

Perché il danno è già stato fatto – e qui mi riferisco allo *scontro* di ieri notte – e tanto vale calcare la mano.

E se si dovesse concludere in un nulla di fatto, la situazione non potrebbe aggravarsi.

In definitiva, non può andare peggio di così.

Quasi balzo quando Diana mi si posiziona di fronte e sussurra “Andiamo.”

Rispondo con un cenno dimesso e la seguo.

Una volta dentro lo scintillante ascensore non posso fare a meno di commentare “Bel posto”.

Mi volto e mi guardo nel grosso specchio.

La mia faccia fa schifo.

Non ho altri modi per descriverla.

Mi sento invecchiato di 20 anni.

Il suo riflesso mi sorride appena “Non mi spiego come mai tu sia così nervoso, Fox. L’abbiamo fatto mille volte, in passato.”

Alzo il sopraciglio.

“E’ un informatore come mille altri, Fox.” Specifica, “la sola cosa differente è che ne conosciamo il nome.”

Mi stringo nelle spalle.

Non è questo il punto, e lei lo sa.

Non è *questa* situazione che mi rende apprensivo.

Sono le circostanze.

E poi realizzo che non era mai successo, e dico *mai*, che un informatore mi venisse, per così dire, *presentato* da Diana, o da chiunque altro se non un altro informatore.

Mi sono imbattuto in loro.

Li ho cercati.

Mi hanno cercato.

Ma in tutte le situazioni precedenti tenevo le redini del rapporto.

Ora il gioco è condotto da Diana, ed è questa la vera ragione percui sono nervoso.

Che stia dubitando di lei?

Si, dubito di lei come dubito di tutti.

Ma avevo espressamente deciso di darle fiducia, almeno su questo.

Oppure è solo che mi sento nel posto sbagliato, nella situazione sbagliata… con la persona sbagliata.

Il sonoro ‘Blin’ dell’ascensore che si ferma mi scuote.

Diana mi guarda intensamente per qualche secondo, come per rassicurarmi.

Poi si muove ed io le sto alle spalle.

Ci avviciniamo alla porta della camera 103.

Diana bussa.

‘Chi è?’ si sente dall’interno.

Voce cupa ma tremante.

“I Crosby” dichiara Diana.

E’ il nome falso che ha dato alla hole, congratulazioni per la fantasia.

Un’incalcolabile numero di giri di chiave dopo, la porta si apre.

 

@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@

 

 

Mi sento incredibilmente forte, lo devo riconoscere.

Tutti i dubbi sulla opportunità di questo mio non-autorizzato intervento sono scomparsi.

Guido troppo veloce e troppo sicura attraverso il traffico delle otto di sera.

La mia destinazione è Dover.

Carcere federale.

Jehenis è ancora in custodia provvisoria in attesa di quella farsa di processo che lo condannerà all’ergastolo.

Il mio sempre dimenticato intuito mi suggerisce che non solo Jehenins non ha ucciso Kaili Jones, ma *sa* chi l’ha fatto, e soprattutto conosce la particolare serie di concause che hanno portato all’assassinio.

Assassinio, si.

Ora non ci sono più dubbi.

Non si solleverebbe questa nube di omertà per un semplice suicidio.

Chiunque ne sia protagonista.

In definitiva l’intero testo della confessione recita che Kaili Jones aveva sviluppato una strana forma di psicosi suicida.

Non voleva altro.

Il suo progetto più prossimo era farla finita.

L’evidente ipocondria però fa a pugni con questa affermazione.

E’ ipocondriaca chi teme di avere un numero imprecisato di malattie e addirittura ne riconosce i sintomi.

Chi ha paura di morirne.

Non certo chi *vuole* morirne.

Cercando di combinare entrambi i fenomeni si potrebbe ipotizzare che il terrore di Kaili era diventato così opprimente da non poter più essere sopportato.

Anche se improbabile, potrebbe essere una spiegazione.

Almeno secondo il rapporto della Omicidi.

Ma tra *voler morire* e *uccidersi* c’è una grossa differenza.

Ed è qui che sarebbe intervenuto il conveniente Robert.

L’amore e una determinata dose di follia lo avevano spinto ad assecondarla in questa ultima e teatrale resa.

Tutte le informazioni rilevanti si possono riassumere in questo.

Il chip e il graffio provvidenzialmente omessi.

I buchi grossi come ruote di camion nell’intera faccenda dimenticati.

Perché spararle in bocca? E non alla testa come il *buonsenso* suggerirebbe?

E con una pistola di quel calibro?

Una di quelle pistole che difficilmente trovi nel negozio di armi_ittica_sport sotto casa.

Senza dimenticare la questione del MUFON, della Applied e della Biocosmos e tutta la serie di industrie farmaceutiche collegate coinvolte

Che Robert Jehenins sia un capro espiatorio non è nemmeno da mettere in forse.

Ma chi vuol proteggere? E perché?

Se è come realmente penso, la sola persona che Robert vuole salvaguardare è sé stesso.

Non è la prima volta e nemmeno l’ultima che *loro* usano questo metodo e le minacce sembrano piuttosto convincenti.

Questo non fa altro che avvalorare la tesi per cui la morte di Kaili Jones nasconda dei lati oscuri che sicuramente vale la pena di investigare.

Ma la Omicidi non sembra essere dello stesso parere.

E non ho nulla da obiettargli.

In fondo, non stiamo parlando di un ‘Caso di routinne’ qui, ma di un X-file!

Scommetto che l’ordine di chiudere il caso in un modo così rapido da aggiudicarsi il giunness dei primati arriva da un po’ più in alto.

Parcheggio in fretta e mi catapulto fuori dalla macchina.

L’aria è diventata rapidamente scura. E fredda.

Mi metto quasi a correre lungo il vialetto.

Devo muovermi.

Ho intenzione di indirizzare tutta questa energia statica nell’interrogatorio.

E se Mulder mi ha insegnato qualcosa in questi sei anni, so che dipende solo da me porre le giuste domande se voglio le *mie* risposte.

Sbatto poco delicatamente il mio tesserino sul vetro della cabina del custode.

Un uomo sulla trentina in divisa blu alza il suo sguardo sorpreso e incuriosito su di me.

Poi guarda il tesserino con attenzione.

Mi fissa ancora.

Si – vorrei dirgli – sono proprio io, vuoi un autografo?

L’uomo sospira e un suono secco mi conferma che ha aperto la cancellata.

Gli faccio un gesto di saluto poco convinto e mi dirigo verso l’entrata.

Sospiro.

La prima prova è stata superata.

Si passa al secondo schema.

Il cancello elettronico si apre appena ed io mi infilo dentro.

Supero con disinvoltura le due guardie all’ingresso regalandogli un paio dei miei più plastificati sorrisi.

Apro la porta e finalmente sono dentro.

La temperatura è paradossalmente più bassa che all’esterno.

Rabbrividisco ed incrocio le braccia per stringermi la giacca intorno al petto.

Di fronte a me, in uno sportello molto simile a quello di una banca, una guardia mi osserva con occhi rotondi.

Mi avvicino.

Tiro fuori il tesserino mentre espiro “Dana Scully, FBI… ”

Corruga la fronte “Ed è qui per… cosa?”

Deglutisco nervosa.

Poi fingo di sbuffare “Devo parlare con trattenuto…” mi fermo “Rober Jehenins” puntualizzo.

Sorprendentemente,  gli occhi della guardia si spalancano.

Si irrigidisce.

Forse non sa nemmeno che si sta mordendo le labbra.

Perché?

“Favorisca l’autorizzazione” ordina incerto.

Oh cazzo.

Da quando le guardie sono così… guardinghe?

“*Devo* parlare con Jehenins” ripeto “le conviene non interferire con le indagini” ci vado un po’ pesante, lo riconosco, ma non ho molto altro con cui controbattere.

Mi fissa “Non entra se non ha l’autorizzazione” dichiara soltanto.

Questa volta sbuffo per davvero.

Ultima carta. Cerco di accattivarmelo. “L’autorizzazione arriverà domani, ed io ho bisogno di parlare con il trattenuto *adesso*. Mi prendo ogni responsabilità.”

Scuote la testa “Non può entrare.”

Incomincio a perdere la pazienza “*adesso*” ribadisco mentre cerco di incenerirlo con lo sguardo.

Lui mi fissa impassibile.

Non posso evitare di scattare quando il telefono all’interno dello ‘sportello’ squilla.

L’uomo risponde volgendomi le spalle.

Aguzzo le orecchie e provo ad ascoltare come se la telefonata mi riguardasse.

Ma il doppio vetro lo rende praticamente impossibile.

Vedo solo un paio di cenni della testa della guardia.

Riattacca ed io lo fisso.

Si schiarisce la voce.

“Agente … Scully?” confusa annuisco, lui continua “per poter entrare nella zona in cui è custodito Jehenins Robert è necessaria una specifica autorizzazione federale che provi l’avvenuta apertura di un’indagine riguardante il soggetto” la sua voce ora ha la stessa intonazione di un operatore di Call Center che legge moduli prestampati, ma posso distinguere una curiosa vena di nervosismo “… come operatore all’interno del carcere ho ordine di non fare entrare chiunque è sprovvisto di tale autorizzazione…”

Lo so, lo so.

Batto i tacchi alterata.

Ma non commento.

Ho il presentimento che voglia arrivare da qualche parte.

“…ed è anche vero che nella mia posizione non posso interferire in alcun modo nelle indagini federali in corso…. 

Mh?

“… se mi assicura che il caso è - ”

Vittoria.

“Ho già detto che mi prendo ogni responsabilità… se necessario” lo interrompo.

Annuisce e abbassa la testa per un istante “Primo piano, zona sette” si arrende.

Non posso impedire ad un espressione soddisfatta di impossessarsi della mia faccia per un istante.

Anche se questo repentino cambio di registro mi lascia a dir poco perplessa.

Cammino lungo il corridoio fino all’ascensore riflettendo – è stato facile…. *troppo facile*.

Scuoto la testa.

Ora devo solo pensare a Jehenins e a tutto quello che devo fargli cantare.

E non ho molto tempo.

Quanto più rimango, e meno probabile è che questa mia iniziativa passi inosservata.

Il tono autoritario del *consiglio* di Skinner riaffiora nella mia testa.

Mi dispiace, Signore – penso – ma sono maledettamente stanca di stare nelle retrovie… è giunta l’ora di rischiare.

Di andare in trincea.

 

 @@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@@

 

Continua…