Capitolo 7 – Etica
“Come lei sa, lavoro alla
Biocosmos da vent’anni” esordisce Karpenter.
Parla con Diana, non con
me.
Sono seduti uno di fronte
all’altra su due sofisticate sedie da camera mentre io me ne sto ritto in piedi
accanto alla finestra più grande.
L’odore delle pesanti tende
misto a quello della pioggia che sta battendo furiosamente fuori dai vetri
oscurati mi riempie i polmoni.
L’atmosfera è cupa, quasi
tetra, sia dentro che fuori questa stanza.
E’ giorno eppure sembra
notte inoltrata.
Ho deciso di non
intervenire in questa prima fase dell’incontro, mi limito ad ascoltare.
“…. E per vent’anni mi solo
fatto trascinare dalla correte, ma questo deve finire…” continua, il suo tono
di voce nasconde un paradossale misto di determinazione e paura.
Dalla sua postura – schiena
rigida e sedere appoggiato sul bordo della sedia - si evince che è agitato e in apprensione.
Dai lineamenti del suo
vecchio viso, e dal colore plumbeo dei suoi occhi traspare un velo di dolore e
di colpevole vergogna. Come quello dei pentiti di mafia, o delle donne che
denunciano uno stupro.
Ci si sente sia vittime che
carnefici.
“Ho perseguito i loro
stessi *scopi* solo perché non ho mai considerato la sola idea di non farlo.
Non mi fraintenda, sapevo che erano sbagliati… sapevo quello che stavo facendo,
ma era come se non avessi possibilità di scelta, se non ci fossero state altre
opzioni, e così continuavo a farlo…”
“Fare cosa?” interviene
Diana. Vorrei ringraziarla, se quell’uomo avesse continuato a parlare,
probabilmente si sarebbe messo a piagnucolare come un bambino. E non è una cosa
che potrei sopportare adesso.
Voglio solo che parli in
fretta, che dica quello che sa.
Karpenter sospira,
costringendosi a rilassarsi su quella sedia imbottita, e incrocia le mani sul
grembo.
Ne deduco che è una lunga
storia quella che deve raccontare.
“Più di trent’anni fa
lavoravo per un altro laboratorio di analisi, a St. George, Utah. Svolgevamo
una normale attività di ricerca. Eravamo specializzati nella cura sperimentale
di dermatiti e malattie genetiche della pelle, come la psoriasi. Il laboratorio
non era di grosse dimensioni, e, pur conseguendo indiscussi successi,
incominciammo ad avere bisogno di qualche incentivo… statale.”
Ed è qui che entra in gioco
la Grande Cospirazione? – mi domando.
Prende fiato “… gli
incentivi arrivarono insieme ad un altro paio di direttive.”
Oh… davvero?
“Che tipo di direttive?”
sprona ancora Diana.
“Diversi tipi di direttive,
ma quelle più *caldamente* segnalate riguardavano la raccolta di… materiale
genetico. E’ superfluo dire che con l’attività che svolgevamo potevamo
maneggiare una gran quantità di tessuti utili allo scopo.”
“E non si è mai domandato a
cosa servisse?” Mi sento chiedere, il mio tono acido come ammoniaca.
Karpenter si volta per guardarmi
con occhi colpevoli “Non mi fraintenda, Agente Mulder. Ho sempre saputo a cosa
servisse, o almeno, ho sempre saputo quello che loro volevano sapessi…”
“E cioè?” incalzo amaro.
“… ci sto arrivando.” Mi
informa.
Ah, ho capito. Sospiro e
gli lascio il tempo per raccontare la sua novella.
“Ai tempi, quell’attività
di… *raccolta* sembrava riguardare solo sperimentazioni per la creazione di un
arsenale batteriologico di… sicurezza.”
“Sembrava?” lo interrompo
ancora.
“Dico… ‘sembrava’ perché
nessuno ha mai espressamente detto a chi quel materiale era destinato, ma
sicuramente i militari erano coinvolti nel programma.”
Ah… i militari.
Manca nessuno all’appello?
Sia Karpenter che Diana
sorvolano sul mio sguardo scettico e l’incontro prosegue.
“… inizialmente questa
operazione sembrava abbastanza… lecita, e sicuramente secondaria allo scopo
reale del laboratorio che rimaneva sempre lo stesso, cioè la ricerca sulle
malattie della pelle. Successivamente l’attività marginale svolta per il
governo acquistò sempre maggiori proporzioni, fino a quando il laboratorio non
venne completamente rilevato… dalla Biocosmos. Il vecchio nucleo di
ricercatori, i, per così dire, ‘consapevoli’ si trasferì qui, in Ohio …
continuando il compito, allargando la missione…”
“Quale missione?” chiede
Diana.
“Il *progetto*” enfatizza
Karpenter.
“In cosa *realemente*
consiste questo fantomatico progetto, Dottor Karpenter?” domando.
L’informatore si schiarisce
la voce ed incomincia a spiegare “Dalla sintesi di numerose sostanze fino alla
manipolazione genetica: tutto quello che la scienza poteva affrontare, non
eravamo chiamati ad applicarlo… su umani” si ferma, respira “… e alieni”.
Spalanco gli occhi.
Diana aspetta qualche
secondo di troppo prima di chiedere “Allo scopo?”
“Di difesa, principalmente.
Eravamo chiamati a catalogare e sperimentare ogni tipo di ‘informazione’ che
eravamo in grado di ottenere. Lo *scopo* ultimo era la sintesi di un vaccino.
Vaccino per un virus che non solo non era debellabile, ma *mai realmente
riscontrato*”.
Questo merita l’alzata di
entrambe le mie sopraciglia.
Se do credito a quello che
ho visto – che *so* di aver visto - , non solo quel virus è stato riscontrato,
ma ha quasi ammazzato la mia pa-… Scully.
Diana mi osserva per un
attimo con occhi rotondi.
Karpenter si sente in
dovere di specificare “Qui stiamo parlando della fase ‘iniziale’ della
sperimentazione. Che risale a tempi… molto lontani. Il virus attraversa
differenti stadi; i casi a noi presentati *ai tempi* mostravano una fase
avanzata della ‘malattia’, praticamente non trattabile…. Per poter realmente
intervenire avremmo dovuto disporre del virus nella prima o al massimo nella
seconda fase di crescita, ma era praticamente impossibile. Ed incredibilmente
pericoloso. Perciò la missione richiedeva un certo grado di… fantasia. E questo
portava alle manipolazioni genetiche.”
“’Manipolazione genetiche’
dirette a cosa?” incalza concitata Diana.
“Alla creazione di un…
ibrido. Un ibrido umano e alieno. Un essere che presentasse una connaturale
immunità al virus, affinché avessimo potuto studiarne la composizione e creare
il vaccino.”
“E che ruolo aveva in tutto
questo, Dottore?” chiedo secco.
Deglutisce e volta lo
sguardo verso di me.
“Diciamo pure che,
inizialmente, mi occupavo della parte
più… pulita del progetto.”
“Cioè?” Questa me la deve
spiegare.
Deglutisce ancora “Ero solo
un ricercatore, trattavo con materiale di cui non sapeva nemmeno l’origine…
analizzavo e sintetizzavo. Niente che potesse essere completamente contrario
all’etica.”
Etica?
Come osa solo parlare di ‘etica’?
“Ma non durò per molto”
specifica ed un ombra di vero cordoglio gli attraversa lo sguardo “presto
diventò maledettamente palese quello che ero stato chiamato a fare… anche se
nessuno me lo ha mai detto, anche se nessuno ne parlava… mai. Quello che avevo
sotto gli occhi, o sul vetrino era qualcosa di così impressionante che… Dio,
non riuscivo a capacitarmene.”
“Ma continuava a farlo”
commento acre.
“Si” espira “dovevo perché
non avevo scelta, ma, ancora più sorprendente, non mi sono mai posto nella posizione
di scegliere… era quello che dovevo fare. Forse per un attimo ho persino
creduto che quello che stavano facendo fosse… giusto… forse lo credo ancora….”
“E perché è qui,
Karpenter?” domando espirando.
“Perché l’organizzazione è
così grossa e pensante che non riesce più a reggersi sulle sue gambe… ormai. Le
cose sono andate troppo oltre… gli illeciti e gli abusi all’etica
insopportabili…. Mi sono reso conto che le basi del progetto sono cambiate… non
so come spiegarle… ma c’è un aria di ‘urgenza’, di impellenza che
inevitabilmente ha condotto ad imprudenze e sconsideratezze di tale portata da
non poter essere più accettate.”
“Perché quest’urgenza? A
quali sconsideratezze si riferisce?” Chiedo e mi sorprende il tono concitato
della mia voce.
“Mi lasci citare una di cui
sicuramente ha memoria, Agente Mulder” fa una pausa, densa.
“Dallas” realizzo.
E mi si gela il sangue.
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Robert Jehenins è seduto
sull’essenziale letto della cella.
Mani congiunte e gomiti
incollati sulle ginocchia.
Lo squallore della tuta
arancione e il viso incredibilmente segnato non riescono a sminuire il suo
naturale fascino.
Capelli castani, carnagione
scura e occhi trasparenti.
Ma la sua mascella è
serrata, ora.
Non posso entrare
all’interno della cella e così rimango fuori.
Cammino avanti ed indietro
di fronte alle sbarre e paradossalmente sembro io quella in gabbia.
“Amava Kaili Jones?”
comincio, il mio tono forzatamente colloquiale.
Ed evidentemente lo
sorprendo, perché spalanca gli occhi e deglutisce prima di rispondere “Si”.
Annuisco.
“Eravate insieme da molto.”
Affermo.
“Si…” sospira “dieci… dieci
anni, più o meno.”
“Dieci anni. Sono tanti.”
Continuo ad annuire “Ma non vi siete sposati.” Osservo.
“No” conferma in fretta.
“Perché?”
“Non abbiamo mai creduto
molto nel vincolo del matrimonio” risponde teso.
“Ah” mi limito a
commentare.
Continuo a ‘passeggiare’
indossando un’espressione pensierosa.
Solo per rendergli palese
il fatto che ogni mia domanda è ragionata.
Il mio scopo qui è di
metterlo in trappola.
E lui lo deve sapere.
“Dieci anni insieme” medito
ad alta voce “dovevate dividere un sentimento molto forte…”
Inconsciamente, lui
annuisce.
“… in fondo, non c’è molta differenza…
sposati o meno… finisce per diventare la stessa cosa, non è così?” domando.
Annuisce ancora, più
deciso.
Procedo “ … a certi
livelli, la convivenza non è poi così differente dal matrimonio. Si finisce
sempre col dividere la propria vita con una altra persona….”
“Dove vuole arrivare?”
sussurra confuso.
Lo ignoro “… più di ogni
altra cosa… si finisce con sapere *tutto* di una persona…” Enfatizzo.
A questo non commenta, ma
un visibile brivido lo percorre.
Continuo a fissarlo.
“Ma è palese che le cose
tra lei e Kaili non andavano bene… ultimamente.” Valuto.
Si irrigidisce.
“Mi vuole dire perché?”
Chiedo alzando di un’ottava il mio tono di voce.
Ci mette un paio di secondi
prima di replicare, chiaramente sulla difensiva “L’ho già detto ai suoi colleghi
il perché”
“Me lo conferma, allora?”
Indago.
“Si” risponde secco.
“Bene.” Annuisco “Allora
posso concentrarmi su altre domande.” Gli faccio sapere.
Mi volto e rimango in
silenzio.
Batto i tacchi sul
pavimento con il solo scopo di catturare la sua attenzione e di sconcentrarlo.
“Sapeva che Kaili faceva
parte di una associazione chiamata MUFON?”
“Si” afferma piano.
“Sapeva quali erano i temi
di questa organizzazione?”
“Si” ripete, seccato.
“Sapeva perché Kaili ne
faceva parte?”
“Si” deglutisce “lo
sapevo”.
Alzo il sopraciglio.
“Pensava di essere stata
rapita dagli… alieni” specifica, un impercettibile velo di scetticismo nella
sua voce.
“E lei non ci crede, non è
vero?” chiedo avvicinandomi alle sbarre.
Spalanca gli occhi “Io… io”
abbassa lo sguardo, riprende il controllo
“… non so se ci fosse qualcosa di vero… la cosa certa é che Kaili ha
vissuto una… esperienza molto drammatica, qualcosa che sicuramente l’ha
traumatizzata---”
“L’aveva….” preciso. E non
posso fermare l’onda di senso di colpa che mi investe solo per averglielo
puntualizzato.
In fondo, l’amava.
Robert realizza e abbassa
la testa di colpo.
“Deve usare il passato,
Signor Jehenins. Kaili è morta.” Bisbiglio dura.
Jehenins è percorso da un
altro brivido.
Decido di non pressare
oltre.
Respiro e gli do il tempo
per riprendersi.
Devo ricordare che non è
alla sbarra e che io non sono un pubblico ministero.
Anche se è la tecnica
forense quella che sto utilizzando.
Riprendo “Era importante
per lei… farne parte?” domando con voce neutrale.
Lui alza la testa
lentamente, “Si” mormora ferito e confuso.
“L’aiutava? L’aiutava a
superare il… trauma?” Chiedo.
Ritorna ad annuire.
“Ed allora perché l’ha
abbandonato, un mese fa?”
A questa gli occhi di
Jehenins si spalancano all’inverosimile.
Una frazione di secondo più
tardi, la sua espressione torna distaccata.
Sa che il suo silenzio può
destare sospetto, perciò si affretta a replicare.
“Era stanca…. Kaili non …
stava bene, ed era peggiorata ultimamente. Il gruppo non le era più di aiuto….
E quello che è successo lo dimostra.”
“Il fatto che *lei* l’abbia
uccisa dimostra che *Kaili* non stava bene?”
L’ho colpito.
Respira a fondo.
“Non voleva più vivere…”
dice con tono stranamente esasperato “ed io non sopportavo di vederla in quel
modo. Me l’ho ha chiesto ed io l’ho fatto. Non ho mai detto di non essere
colpevole. Io SONO colpevole.”
“Ed è per questo che è la
dentro.” Preciso, indicando la cella.
“Kaili era stanca di avere
paura di morire” riprende con un filo di voce.
“E ha preferito farsi
uccidere da lei?” Commento.
Lui abbassa la testa.
“Meglio da lei che da
qualcos’altro” aggiungo “… o da qualcun altro.”
Si irrigidisce.
“Come ha reagito Kaili al
cambiamento di sede?” Chiedo con tono calmo, solo per spiazzarlo.
Alza la testa e mi osserva
con occhi ovali. “Eh?” sussurra confuso dalla variazione improvvisa di
argomento.
“Deve essere stato un
evento molto rilevante se ha deciso di abbandonare anche il MUFON di
conseguenza”.
“Ma dove diavolo vuole
arrivare?” Chiede indignato.
Lo ignoro ancora “Stessa
posizione, stesse competenze, stesso *identico* lavoro… perché spostarsi di
mille miglia? Perché andare così lontano?” Medito.
Jehenins boccheggia.
Proseguo concitata “a meno
che non volesse allontanarsi da qualcosa… da *qualcuno*… non ha nessun senso….
E poi con che *tempismo*… insomma, come se inconsciamente sapesse….”
“Cosa? Sapesse cosa?”
Non lo sa?
“Che la Applied stava per
essere distrutta. Incendio.”
Spalanca la bocca.
“Che puntualità” incalzo
allusiva “incredibile.”
“Che DIAVOLO sta
insinuando?” sbraita sbalordito.
Pensa che mi stia riferendo
ad un coinvolgimento della Jones nell’incendio.
Non riesce a mascherare
nulla.
E’ giunto il momento di
pressare.
“La vita è così ingiusta,
Signor Jehenins. E’ possibile che Kaili abbia avuto la prontezza di abbandonare
la barca prima che affondasse solo per poi venir uccisa dalla persona che più
*amava*?”
Se fossimo in un aula,
qualcuno avrebbe urlato ‘Obiezione’.
Ed infatti, Jehenins
schizza in piedi.
Avanza a passi rapidi in
mia direzione.
Viso sconvolto, posseduto.
Punta l’indice verso di me
“COME SI PERMETTE…” urla.
La paura e l’adrenalina mi
annebbiano la vista.
“COME MI PERMETTO?!?”
scatto in avanti, ad un millimetro dalle sbarre “Come mi permetto di offuscare
la memoria di KAILI quando *LEI* viene qui a raccontare di averla UCCISA?”
Jehenins diventa di pietra.
Il mio respiro è affannato “la sua storia fa acqua da tutte
le parti. LEI non ha ucciso Kaili e KAILI non si è UCCISA.”
La mia affermazione rimane
sospesa nella poca aria che ci separa.
Non commenta.
Non contraddice.
Non parla.
Mi fissa, mi fissa e basta.
Dopo carichi minuti, trovo
il coraggio di chiederlo, parole secche, staccate “Perché. Hanno. Ucciso.
Kaili?”
Sbatte le palpebre.
Rimane immobile.
“PERCHE’. HANNO. UCCISO. KAILI?”
ripeto.
Nessun segno.
Nessuna risposta.
La rabbia mi blocca il
cervello.
Lui sa.
Lui sa e NON parla.
Dio, non posso aspettare
oltre “Lei lo SA, lei sa TUTTO e lo DEVE dire!!!” Ordino. E mi maledico perché
mi sento fuori da ogni controllo “Trenta donne, TRENTA DONNE come Kaili
rischiano di morire per la stessa *identica* ragione!”
La lama della
consapevolezza mi colpisce in pieno petto.
Oh. Mio. Dio.
Indietreggio….
Io…. IO rischio di morire
per la stessa ragione.
Non ho idea di come lo so,
ma ne sono certa.
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