In un certo senso, i non-luoghi e le immagini sono saturi di umanità: prodotti da uomini, frequentati da uomini, ma da uomini esclusi dalle loro relazioni reciproche, dalla loro esistenza simbolica. Sono spazi che non si coniugano né al passato, né al futuro, bensì al presente, senza nostalgia né speranza - sono spazi di "time out", come si dice nel basket. Richiedono uno sguardo e una parola; uno sguardo per ricostituire una relazione minima che renda loro una dimensione simbolica, sociale; una parola che li integri in un racconto.
Secondo Umberto Eco, possiamo distinguere tre situazioni diverse. Il caso più semplice è quello del labirinto classico, quello di Cnosso per intenderci, che è unicursale. In questo caso, il percorso è obbligato: come vi si entra, non si può che raggiungere il centro e dal centro non si può che trovare l'uscita. Se il labirinto unicursale venisse srotolato, ci troveremmo fra le mani un unico filo. Dunque il "filo d'Arianna" non è il mezzo per uscire dal labirinto, ma - di fatto - il labirinto stesso.
La cosa si complica con il labirinto manieristico o Irrweg. In questo caso sono possibili scelte alternative: tutti i percorsi portano a un punto morto, tranne uno, che conduce all'uscita. Vagando al suo interno, si possono commettere errori, si è obbligati a tornare sui propri passi, per cui un filo di Arianna potrebbe essere utile. Tuttavia, quando viene srotolato, l'Irrweg assomiglia ad un albero, immagine della ragione cartesiana: sul tronco del metodo e dei postulati fondamentali, s'innestano teoremi e corollari, premesse e conseguenze, organizzando deduttivamente i diversi rami della conoscenza.
Il labirinto del terzo tipo è una rete, in cui ogni punto può essere connesso con qualsiasi altro punto. Non si può srotolarlo, anche perché - a differenza dei labirinti del primo e del secondo tipo - non ha un interno e un esterno, dato che è estensibile all'infinito.
E' questo il labirinto che descrive lo spazio metropolitano, lo spazio del moderno. La sua forma estrema è quella del non-luogo: mondo promesso al provvisorio e all'effimero, spazio intermittente e senza storia, puro incrocio di mobilità e di traiettorie, nel quale individui senza volto si sfiorano senza parlarsi (Augé 1992).
Il labirinto del terzo tipo è una rete, in cui ogni punto può essere connesso con qualsiasi altro punto. Non si può srotolarlo, anche perché - a differenza dei labirinti del primo e del secondo tipo - non ha un interno e un esterno, dato che è estensibile all'infinito.
E' questo il labirinto che descrive lo spazio metropolitano, lo spazio del moderno. La sua forma estrema è quella del non luogo: mondo promesso al provvisorio e all'effimero, spazio intermittente e senza storia, puro incrocio di mobilità e di traiettorie, nel quale individui senza volto si sfiorano senza parlarsi (Augé 1992).
I non luoghi danno la "misura" di un'epoca, quella che stiamo attraversando: aeroporti, stazioni ferroviarie, centri commerciali, grandi catene alberghiere, strutture per il tempo libero, reti cablate. Chi entra in questi spazi rinuncia alle proprie determinazioni abituali: diventa solo quello che fa come passeggero, cliente, guidatore. Partecipa all'identità anonima di una comunità provvisoria: "la coesistenza di individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre".
Le grandi catene alberghiere circondano gli aeroporti ed evitano al passeggero "in transito" di dover deviare fino alla città per trovare un hotel. Oggi gli aeroporti sono sempre più dei nodi autostradali e ferroviari. Negli ipermercati più importanti sono presenti tutti i servizi, in particolare le agenzie di viaggio e le banche. La radio e la televisione funzionano ovunque, ivi comprese le stazioni di servizio lungo le autostrade, che si trasformano anch'esse in complessi turistici con ristoranti, negozi e spazi di gioco per i bambini: immenso gioco di specchi che offre a ogni consumatore un riflesso della propria frenesia, da un estremo all'altro delle zone più attive del mondo....
....Mondo della ridondanza, mondo del troppo-pieno, mondo dell'evidenza. Gli spazi del passaggio, del transito, sono quelli in cui vengono mostrati con più insistenza i segni del presente. Vengono mostrati con la forza dell'evidenza: pannelli pubblicitari, nomi delle aziende più note inscritti a caratteri di fuoco nella notte delle autostrade che portano all'aeroporto (...), ostentati palazzi dello spettacolo, dello sport, del consumo che all'uscita dell'aeroporto aderiscono alla città, ne fanno cedere le difese e la penetrano, imboccando varchi ferroviari, autostradali o naturali (i fiumi).
"tanto i viaggi internazionali quanto i percorsi urbani non sono più un'esplorazione attraverso una serie di luoghi diversi: sono semplicemente spostamenti da un punto a un altro punto tra i quali c'è un intervallo vuoto, una discontinuità, una parentesi sopra le nubi per i viaggi aerei e una parentesi sottoterra per i percorsi nella città"
Per vedere una città non basta tenere gli occhi aperti. Occorre per prima cosa scartare tutto ciò che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che continuano a ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Poi occorre saper semplificare, ridurre all'essenziale l'enorme numero d'elementi che ad ogni secondo la città mette sotto gli occhi di chi la guarda, e collegare i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario, come il diagramma d'una macchina, dal quale si possa capire come funziona....
.... Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, veder cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dèi.
Italo calvino, gli dèi della città, Una pietra sopra, pag 340, Mondadori 1995