Le onde tremende lo spingono, quasi lo sbattono contro l'alta costa di basalto. Il naufrago riesce ad aggrapparsi allo spuntone di una roccia, ma subito ne è strappato dal risucchio potente dell'acqua. Ferito alle mani, è ancora in balia della furia del mare, nuota disperato sotto costa fino a che non si trova di fronte ad una insenatura piana, alla foce di un fiume. Prega la divinità d'arrestare lo scorrere rapido delle acque, di permettergli di toccare terra, salvarsi dalla tempesta, da sicura fine.
Spossato, lacero, i polmoni pieni di salmastro, guadagna finalmente la spiaggia, avanza sopra un mondo solido, in mezzo ad alberi e arbusti. E' l'uomo più solo sulla terra, senza un compagno, un oggetto, l'uomo più spoglio e debole, in preda a smarrimento, panico in quel luogo estremo, sconosciuto, che come il mare può nascondere insidie, violenze.
Ulisse ha toccato il punto più basso dell'impotenza umana, della vulnerabilità. Come una bestia ora, nuda e martoriata, trova riparo in una tana, tra un olivo e un olivastro
(spuntano da uno stesso tronco questi due simboli del selvatico e del coltivato, del bestiale e dell'umano, spuntano come presagio d'una biforcazione di sentiero o di destino, della perdita di sè, dell'annientamento dentro la natura e della salvezza in seno a un consorzio civile, una cultura),
si nasconde sotto le foglie secche per passare la notte paurosa che incombe.
Vincenzo Consolo , l'olivo e l'olivastro Mondadori 1994