Il tutto è falso
Un uomo solo e disarmato di fronte al mondo, un mondo sempre più
difficile da decifrare, che vive con il tragico sospetto che alla fine
"...se tolgo ciò che è falso non resta più niente...". C'è anche l'eco
lontana di un pensiero di Adorno parafrasato, testimonianza di un
momento in cui Gaber e Luporini sembravano non poter più afferrare nulla
di certo. Nel ritornello ("...Il tutto è falso, il falso è tutto...") la
voce di Gaber, consapevolmente disillusa, si muove pacata su un
raffinato tappeto di percussioni, punteggiato da pianoforte e sax
soprano e reso pieno di respiro dagli archi. Fino al rabbioso,
quasi-recitato finale. |
Non insegnate ai bambini
Una dolcissima ballata di struggente bellezza, uno sguardo al futuro che
è un po' il bilancio di ciò che gli adulti hanno davvero a cuore. Una
pedagogia paradossale ("...non divulgate illusioni sociali, non gli
riempite il futuro di vecchi ideali...") ma anche piena di fede laica
("...raccontategli il sogno di una antica speranza..."), "...Date
fiducia all'amore, il resto è niente...". Come volesse dire: oltre
l'equivoco delle nostre troppe parole, resta la verità dei nostri gesti.
Nell'intrecciarsi tenero delle chitarre, accompagnate dal pianoforte
sulle ottave alte e da flautini lontani, sentiamo l'eco dolcissima di un
antico girotondo. |
Io non mi sento italiano
Il Gaber corrosivo e iconoclasta nell'affrontare il presente. Nata dal
disappunto per certi rigurgiti di patriottismo che Gaber e Luporini
sentono un po' patetici, è insieme spietata ("...questa democrazia, che
a farle i complimenti ci vuole fantasia...") e orgogliosa ("...forse noi
italiani per gli altri siamo solo spaghetti e mandolini. Allora qui mi
incazzo, son fiero e me ne vanto, gli sbatto sulla faccia cos'è il
Rinascimento..."). Quirici e Gaber ne hanno fatto una sarcastica
marcetta dove una sorta di banda, formata dai fiati di Mirko Guerrini e
dalla fisarmonica di Fabio Martino degli Yo Yo Mundi, contrappuntano una
voce guida piena di ironia, che si fa collettiva nei ritornelli grazie
alla giovane voce femminile di Viola Buzzi. Mentre la scriveva, forse
per acuirne gli spigoli, Gaber ha sentito il bisogno di riascoltare il
Brel più cattivo e pungente. |
L'illogica allegria
Nella voglia di recuperare canzoni che secondo Gaber non hanno avuto
l'attenzione dovuta, ecco il ritorno (dal 1980) di questo disarmante
omaggio alla positività della vita. Una positività sorprendente, che
Luporini oggi definisce "quei colpi di gioia che malgrado tutto ti
mettono addosso una gran voglia di vivere". Forse sono insensati,
imprevedibili ("...di cui non so il motivo, non so che cosa sia..."),
eppure ci rimettono in moto ("...È come se improvvisamente, mi fossi
preso il diritto di vivere il presente..."). La nuova versione si apre
con un mantello sonoro che ricorda la notte che trascolora nell'alba. La
voce pacata di Gaber sembra incoraggiarci a ripartire da capo.
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I mostri che abbiamo dentro
Dopo un' apertura cupa, dove la voce di Gaber si fa quasi mugugno, parte
una ritmica forte e incalzante, sullo sfondo di suoni lontani, che
Quirici definisce un "magma inquietante in perenne movimento".
Definizione che sembra riflettere perfettamente il sentire degli autori
sulla canzone: "da qualche parte qualcosa di tremendo si muove nel
nostro inconscio". Il finale, in questi tempi incerti, indica una
profezia che speriamo non si avveri: "...I mostri che abbiamo dentro,
che vivono in ogni mente, che nascono in ogni terra, inevitabilmente ci
portano alla guerra...". |
Il dilemma
Gaber ci ha voluto riproporre questa canzone capolavoro che ha quasi
venticinque anni e che era nata proprio su disco. Perché parla di Noi,
del Nostro cuore e di quanto il Nostro io sia intrecciato a ciò che
capiamo dell'amore. Luporini racconta: "Sentivamo, dopo aver scritto
"C'è solo la strada", di dover rivalutare la fedeltà. E forse contò
anche la suggestione di Adorno, che nei suoi "Minima moralia" indica il
dovere di non sciupare l'amore per essere fedeli a se stessi". A questa
versione contribuiscono i magici contrappunti del pianoforte di Rita
Marcotulli, il sax soprano di Mirko Guerrini e gli splendidi archi
realizzati da Quirici. Sorprendente e commosso il canto di Gaber, specie
nel verso più provocatorio di tutta la canzone: "...Il loro amore moriva
come quello di tutti, non per una cosa astratta come la famiglia, loro
scelsero la morte per una cosa vera come la famiglia...". |
Il corrotto
Un ironico blues punteggiato da un sax gaglioffo, da una nerissima
sezione di fiati e dalla pungente chitarra elettrica di Dario Faiella.
L'arrangiamento rispetta pienamente le espressioni irresistibili,
perfettamente teatrali, di Gaber nel registrare questa sapida presa in
giro della doppiezza e volgarità maschili. La verità delle osservazioni,
al solito, diviene ironia al vetriolo, nella consapevolezza
dell'incoerenza fra quel che argomenta la nostra mente e quel che
desidera il nostro corpo "stupido". |
La parola io
Ancora una volta Gaber e Luporini ci fanno riflettere sulla nostra
incapacità di dire "noi", sull'egoismo e l'individualismo della nuova
morale dominante. "...La parola io è uno strano grido, che nasconde
invano la paura di non essere nessuno...", canta Gaber scandendo con
lucida fermezza ogni parola. Su una ipnotica frase pianistica che fa da
tormentone a tutto il brano, si snoda una sorta di costruzione teatrale
che cresce fino a raggiungere un compimento pieno, quasi una fanfara
finale. E quando nel silenzio restano la voce e il pianoforte ecco anche
gli archi a sottolineare la morale: "...La parola io... nella logica del
mondo occidentale forse è l'ultimo peccato originale...". |
C'è un'aria
Implacabile requisitoria sui peccati dei giornalisti, dalla carta
stampata alla televisione, in una sorta di girone infernale in cui sono
descritti tutti i tradimenti della categoria. Da "...quei bordelli di
pensiero che chiamano giornali..." ai "...titoli d'effetto che
coinvolgono la gente in un gioco al rialzo che riesce a dire tutto senza
dire niente..."; dallo "...sfoggio di pensieri senza mai l'ombra di un
dolore...", ai "...bambini denutriti così ben fotografati, messi in posa
per morire...". Parole taglienti, senza alcuna remora, con facce ed
episodi riconoscibilissimi, talmente attuali, calzanti, contemporanei
che sembra impossibile risalgano a dieci anni fa. Eppure la musica ha la
leggerezza di un jingle, di un'avvolgente passeggiata musicale. Forse
per questo lascia il segno. |
Se ci fosse un uomo
L'ultimo verso di questa canzone-monologo è una parola di speranza: "...Con
la certezza che in un futuro non lontano, al centro della vita ci sia di
nuovo l'uomo...". È un inno a quel che Gaber e Luporini sentono come la
loro utopia, quella di un uomo "...forte nel guardare sorridente la sua
oscura realtà del presente... forte nel custodire con impegno la parte
più viva del suo sogno..."; addirittura quella di "...un umanesimo nuovo
con la speranza di veder morire questo nostro medioevo...". È un lungo
brano, sfaccettato, di teatralissima scrittura e dalla tessitura
musicale quasi sciamanica, corale, fatta nella prima parte di chitarre e
tamburi profondi. Poi restano la voce di Gaber e il pianoforte avvolti
dagli archi, fino al vero e proprio monologo nel quale Giorgio Gaber
parla di un mondo "...popolato da chi è certo che la donna e l'uomo
siano il grande motore del cammino umano...", fino a un pugno di secondi
emozionanti di puro silenzio. Infine l'atteso ritorno del canto nelle
due ultime strofe, intessute da un finale di pianoforte e archi di
struggente bellezza.
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