Io non mi sento italiano è un'analisi lucida, a volte spietata, spesso poetica della realtà che ci circonda. Contiene 10 brani scritti Da Giorgio Gaber con Sandro Luporini sotto la direzione musicale di Beppe Quirici e con la regia musicale di Marti Jane Robertson.
 
Il tutto è falso
Un uomo solo e disarmato di fronte al mondo, un mondo sempre più difficile da decifrare, che vive con il tragico sospetto che alla fine "...se tolgo ciò che è falso non resta più niente...". C'è anche l'eco lontana di un pensiero di Adorno parafrasato, testimonianza di un momento in cui Gaber e Luporini sembravano non poter più afferrare nulla di certo. Nel ritornello ("...Il tutto è falso, il falso è tutto...") la voce di Gaber, consapevolmente disillusa, si muove pacata su un raffinato tappeto di percussioni, punteggiato da pianoforte e sax soprano e reso pieno di respiro dagli archi. Fino al rabbioso, quasi-recitato finale.
Non insegnate ai bambini
Una dolcissima ballata di struggente bellezza, uno sguardo al futuro che è un po' il bilancio di ciò che gli adulti hanno davvero a cuore. Una pedagogia paradossale ("...non divulgate illusioni sociali, non gli riempite il futuro di vecchi ideali...") ma anche piena di fede laica ("...raccontategli il sogno di una antica speranza..."), "...Date fiducia all'amore, il resto è niente...". Come volesse dire: oltre l'equivoco delle nostre troppe parole, resta la verità dei nostri gesti. Nell'intrecciarsi tenero delle chitarre, accompagnate dal pianoforte sulle ottave alte e da flautini lontani, sentiamo l'eco dolcissima di un antico girotondo.
Io non mi sento italiano
Il Gaber corrosivo e iconoclasta nell'affrontare il presente. Nata dal disappunto per certi rigurgiti di patriottismo che Gaber e Luporini sentono un po' patetici, è insieme spietata ("...questa democrazia, che a farle i complimenti ci vuole fantasia...") e orgogliosa ("...forse noi italiani per gli altri siamo solo spaghetti e mandolini. Allora qui mi incazzo, son fiero e me ne vanto, gli sbatto sulla faccia cos'è il Rinascimento..."). Quirici e Gaber ne hanno fatto una sarcastica marcetta dove una sorta di banda, formata dai fiati di Mirko Guerrini e dalla fisarmonica di Fabio Martino degli Yo Yo Mundi, contrappuntano una voce guida piena di ironia, che si fa collettiva nei ritornelli grazie alla giovane voce femminile di Viola Buzzi. Mentre la scriveva, forse per acuirne gli spigoli, Gaber ha sentito il bisogno di riascoltare il Brel più cattivo e pungente.
L'illogica allegria
Nella voglia di recuperare canzoni che secondo Gaber non hanno avuto l'attenzione dovuta, ecco il ritorno (dal 1980) di questo disarmante omaggio alla positività della vita. Una positività sorprendente, che Luporini oggi definisce "quei colpi di gioia che malgrado tutto ti mettono addosso una gran voglia di vivere". Forse sono insensati, imprevedibili ("...di cui non so il motivo, non so che cosa sia..."), eppure ci rimettono in moto ("...È come se improvvisamente, mi fossi preso il diritto di vivere il presente..."). La nuova versione si apre con un mantello sonoro che ricorda la notte che trascolora nell'alba. La voce pacata di Gaber sembra incoraggiarci a ripartire da capo.
I mostri che abbiamo dentro
Dopo un' apertura cupa, dove la voce di Gaber si fa quasi mugugno, parte una ritmica forte e incalzante, sullo sfondo di suoni lontani, che Quirici definisce un "magma inquietante in perenne movimento". Definizione che sembra riflettere perfettamente il sentire degli autori sulla canzone: "da qualche parte qualcosa di tremendo si muove nel nostro inconscio". Il finale, in questi tempi incerti, indica una profezia che speriamo non si avveri: "...I mostri che abbiamo dentro, che vivono in ogni mente, che nascono in ogni terra, inevitabilmente ci portano alla guerra...".
Il dilemma
Gaber ci ha voluto riproporre questa canzone capolavoro che ha quasi venticinque anni e che era nata proprio su disco. Perché parla di Noi, del Nostro cuore e di quanto il Nostro io sia intrecciato a ciò che capiamo dell'amore. Luporini racconta: "Sentivamo, dopo aver scritto "C'è solo la strada", di dover rivalutare la fedeltà. E forse contò anche la suggestione di Adorno, che nei suoi "Minima moralia" indica il dovere di non sciupare l'amore per essere fedeli a se stessi". A questa versione contribuiscono i magici contrappunti del pianoforte di Rita Marcotulli, il sax soprano di Mirko Guerrini e gli splendidi archi realizzati da Quirici. Sorprendente e commosso il canto di Gaber, specie nel verso più provocatorio di tutta la canzone: "...Il loro amore moriva come quello di tutti, non per una cosa astratta come la famiglia, loro scelsero la morte per una cosa vera come la famiglia...".
Il corrotto
Un ironico blues punteggiato da un sax gaglioffo, da una nerissima sezione di fiati e dalla pungente chitarra elettrica di Dario Faiella. L'arrangiamento rispetta pienamente le espressioni irresistibili, perfettamente teatrali, di Gaber nel registrare questa sapida presa in giro della doppiezza e volgarità maschili. La verità delle osservazioni, al solito, diviene ironia al vetriolo, nella consapevolezza dell'incoerenza fra quel che argomenta la nostra mente e quel che desidera il nostro corpo "stupido".
La parola io
Ancora una volta Gaber e Luporini ci fanno riflettere sulla nostra incapacità di dire "noi", sull'egoismo e l'individualismo della nuova morale dominante. "...La parola io è uno strano grido, che nasconde invano la paura di non essere nessuno...", canta Gaber scandendo con lucida fermezza ogni parola. Su una ipnotica frase pianistica che fa da tormentone a tutto il brano, si snoda una sorta di costruzione teatrale che cresce fino a raggiungere un compimento pieno, quasi una fanfara finale. E quando nel silenzio restano la voce e il pianoforte ecco anche gli archi a sottolineare la morale: "...La parola io... nella logica del mondo occidentale forse è l'ultimo peccato originale...".
C'è un'aria
Implacabile requisitoria sui peccati dei giornalisti, dalla carta stampata alla televisione, in una sorta di girone infernale in cui sono descritti tutti i tradimenti della categoria. Da "...quei bordelli di pensiero che chiamano giornali..." ai "...titoli d'effetto che coinvolgono la gente in un gioco al rialzo che riesce a dire tutto senza dire niente..."; dallo "...sfoggio di pensieri senza mai l'ombra di un dolore...", ai "...bambini denutriti così ben fotografati, messi in posa per morire...". Parole taglienti, senza alcuna remora, con facce ed episodi riconoscibilissimi, talmente attuali, calzanti, contemporanei che sembra impossibile risalgano a dieci anni fa. Eppure la musica ha la leggerezza di un jingle, di un'avvolgente passeggiata musicale. Forse per questo lascia il segno.
Se ci fosse un uomo
L'ultimo verso di questa canzone-monologo è una parola di speranza: "...Con la certezza che in un futuro non lontano, al centro della vita ci sia di nuovo l'uomo...". È un inno a quel che Gaber e Luporini sentono come la loro utopia, quella di un uomo "...forte nel guardare sorridente la sua oscura realtà del presente... forte nel custodire con impegno la parte più viva del suo sogno..."; addirittura quella di "...un umanesimo nuovo con la speranza di veder morire questo nostro medioevo...". È un lungo brano, sfaccettato, di teatralissima scrittura e dalla tessitura musicale quasi sciamanica, corale, fatta nella prima parte di chitarre e tamburi profondi. Poi restano la voce di Gaber e il pianoforte avvolti dagli archi, fino al vero e proprio monologo nel quale Giorgio Gaber parla di un mondo "...popolato da chi è certo che la donna e l'uomo siano il grande motore del cammino umano...", fino a un pugno di secondi emozionanti di puro silenzio. Infine l'atteso ritorno del canto nelle due ultime strofe, intessute da un finale di pianoforte e archi di struggente bellezza.

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