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22 Giugno - Loredana
di Fabrizio MASTROFINI
 

 
 
La telefonata di quel nuovo paziente era arrivata in un pomeriggio qualsiasi, in una pausa di qualche minuto tra una seduta e l'altra. Una voce come tante altre, forse un'intonazione profonda, un accento lievemente straniero, la richiesta di un colloquio, per difficoltà nel lavoro, nelle relazioni interpersonali, nella vita privata. Se ne sarebbe parlato a voce, qualche giorno dopo. Già, qualche giorno dopo: mai dare appuntamenti lo stesso giorno o quello successivo, mai cedere alla richiesta urgente, pressante, di vedersi prima possibile anzi quasi subito: è indizio negativo, anche per il terapeuta. Saper aspettare è parte integrante della terapia: indica una predisposizione ad accettare che i cambiamenti possono operare solo lentamente. È parte integrante anche della vita.
Lentamente mi ero sistemata i capelli, aggiustati gli occhiali, aperto un nuovo quaderno di appunti per il paziente che sarebbe arrivato di lì a pochi minuti, poi un sospiro profondo, concentrazione, ed eccomi pronta per la catena di montaggio dei significati da cercare e da accennare a chi ne è ancora provvisoriamente sprovvisto. Ma anche disponibile ad una nuova avventura per investigare e imparare da un'esperienza di vita.
L'uomo che si presentò quel pomeriggio era alto, longilineo, viso allungato, capelli corti e brizzolati, poco oltre la sessantina, bel portamento, vestito in maniera elegante ma sobria, un po' all'antica per via del cappello e di un bastone col pomello bianco. Portava un paio di occhiali tondi, leggeri, con una montatura moderna, azzurrina, che non stonava nell'insieme ma dava un tocco di novità, di desiderio di aggiornamento. Aveva un'aria vagamente familiare, un'idea che misi subito da parte, per concentrarmi sulle prime parole da dire e sulle impressioni che potevo ricevere.
La stanza della psicoterapia era un ambiente caldo, intimo, che invitava al raccoglimento. Colori pastello alle pareti, cariche di libri su due lati, luce soffusa, piano terra e le piante al di là della grande vetrata, silenzio intorno, quiete immobile, il luogo adatto per cercare significati nascosti, per sviluppare conversazioni. Da un lato la scrivania in noce, davanti una comoda sedia e di lato il divano analitico, in realtà una lunga sdraiata dalle movenze sinuose per potersi rilassare secondo le prescrizioni dei manuali.
Accennai al divano, con un "Prego si accomodi" - ma l'altro, il paziente si era diretto alla sedia.
 
 
"Nella sua telefonata - iniziai a dire - accennava a problemi soprattutto legati al lavoro, con riflessi però sul suo umore, suoi suoi pensieri. La nostra regola è dire tutto quel che passa nei propri pensieri, senza timore, anche se può sembrare sciocco o insignificante. In realtà, scopriremo insieme che nulla è sciocco o insignificante".
 
"Sì - rispose l'altro, affabile - conosco almeno per sentito dire quali sono le regole. Sa, alla mia età non è stata una scelta facile decidere di venire da lei".
 
Alzò una mano, per prevenire una possibile domanda.
 
"Forse vuole sapere chi mi ha consigliato il suo nome, ebbene è stato il suo professore di Psicologia clinica, che è un amico". Fece una pausa. "Dicevo: non si è trattato di una scelta facile, ma negli ultimi mesi è diventato molto difficile poter lavorare… nell'ambiente in cui mi trovo. Vede, come dire, sono il responsabile di una struttura complessa, articolata, una sorta di multinazionale, per dirla in maniera comprensibile. Non è tanto, solo qualche mese. Non mi aspettavo di venire scelto per questo compito. Comunque è andata così. Mi sono trovato in una situazione nuova e ho scoperto che cresceva un'ansia forte, dentro di me, da impedirmi di lavorare come si deve, nelle ultime settimane anche con forte insonnia e senza nessuno con cui poterne parlare. C'è grande aspettativa: devo procedere a delle nomine… se confermare o sostituire persone… il mio staff ravvicinato insomma. Ma percepisco una grande rivalità, veti incrociati, cordate, correnti, un clima di sospetto, l'impossibilità di affrontare questioni apertamente perché tanto chi ti sta davanti è abituato a mostrarsi d'accordo per poi cominciare le critiche appena ci si rivolta… una situazione nuova".
 
Fece di nuovo una pausa, sospirando.
Intanto me lo guardavo, con la sensazione di averlo già visto, di conoscerlo in qualche modo, in un'altra veste, in un altro ruolo. Stavo in una posizione nuova anche per me, addirittura difficile. Il primo colloquio è importante, anzi fondamentale, e negli anni avevo sviluppato un addestramento particolare per scegliere le parole con cui cominciare, affinato tutti i sensi per cogliere sensazioni. Eppure qui qualcosa non tornava. Quell'uomo, lo conoscevo, sì, ma quando, dove… mistero, anzi buio. E poi parlava col tono pacato di chi mostra una forza interiore indiscutibile. Anzi, decisi di dirglielo.
 
"Certo, mi rendo conto della portata della problematica che lei sta esponendo. Tuttavia ho come l'impressione che lei abbia già delle risposte dentro di sé. Se vuole, possiamo cominciare da qui questa prima seduta che è piuttosto di consultazione, di presa di contatto".
 
Avevo forse colto nel segno, almeno a giudicare dall'espressione di rimando, rimasta a metà tra una frase pensata e un'altra pensata pure e non ancora detta.
 
"Spesso mi è capitato di avere le risposte alle domande. Questa volta devo dire di no. Ho una sorta di fotografia, se vuole, precisa nei dettagli, esatta insomma, della situazione in cui mi trovo. Ma non riesco a capire perché ci sia tanta sofferenza, tanto malessere da non riuscire a dormire, da paralizzarmi nelle decisioni. Non so cosa fare".
 
"Può descrivermi il problema e cosa in particolare la fa soffrire".
 
I cinquanta minuti erano trascorsi in fretta, a sentire almeno in modo sommario dei racconti comuni a tanti, differenti, luoghi di lavoro, tra il desiderio prepotente di emergere, farsi vedere, in fondo farsi accettare, riversando nella competizione del lavoro tutta l'ansia di sicurezza di tanti bambini poco nutriti dal punto di vista affettivo e che devono divorare, divorare…
Avevo chiuso appena gli occhi, per sentire così che effetto faceva quel racconto appena abbozzato, diverso però dagli altri che conoscevo a memoria, del paziente successivo e di quello di prima ancora. In questo momento sembra che niente sia peggio dei luoghi di lavoro, questi uffici dove si scatena una particolare capacità a dare il peggio di se stessi, soprattutto quando ci si riunisce allo scopo di trovare soluzioni o migliorare.
Alla fine i minuti erano passati, trascorsa la nostra convenzionale ora analitica. Glielo dissi.
 
"Il tempo a disposizione per oggi è passato. Riprendiamo la prossima volta. In questa fase iniziale le suggerisco di vederci due volte a settimana".
 
Strano, come all'improvviso la stanza dei significati mi era sembrata vuota quando quel paziente è uscito, il mio ultimo paziente. Eppure…
 
Era venerdì sera e per una volta ci si riusciva a vedere tutti. Ma sì, proprio tutti, quella congrega di compagne di scuola, amici, mogli, mariti e figli: una carovana allegra, un po' disordinata, ognuno con una storia intricata ma tutti con la stessa carica di simpatia, di umanità, di voglia di vivere.
Quella volta mi sentivo diversa, con minore voglia di rilassarmi, più taciturna, un po' estranea e i miei amici lo notarono, insistendo a chiedermi cosa fosse accaduto.
 
"Ma niente - rispondevo - c'è qualcosa di nuovo nel mio lavoro, su cui sono perplessa e devo riflettere. È un momento di stress, di impegno, che come sapete è forte soprattutto sul piano del coinvolgimento. Niente di grave, ma devo riflettere".
 
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