Giuseppe Antonio
Borgese, nato a Polizzi Generosa (Palermo) nel 1882 e morto a
Fiesole nel 1952, é uno degli intellettuali più significativi e
meno adeguatamente conosciuti della prima metà del Novecento.
Animatore e collaboratore delle riviste del primo Novecento, docente
universitario di letteratura tedesca e di estetica, diretto
conoscitore delle realtà culturali straniere (anche per motivi
biografici, in quanto aveva sposato una figlia di Thomas
Mann), superò le iniziali suggestioni dannunziane sia
attraverso l'elaborazione di una concezione dell'arte che almeno in
parte si rifaceva a De Sanctis e a Croce,
sia con una concreta attività critica (Storia
della critica romantica in Italia, 1905; Gabriele
D'Annunzio, 1909; Studi di letteratura
moderna, 1915; Ottocento europeo,
1927) attenta anche alla problematica contemporanea (i tre volumi de
La vita e il libro; 1910-13, a giudizio di Sciascia
contengono «una mole ingente di lavoro critico tanto intelligente e
sagace da resistere al senno del poi, da essere ancora oggi
illuminante»). Espulso per antifascismo, alla fine degli anni
venti, dalla cattedra di estetica dell'Università di Milano,
riparò e insegnò negli Stati Uniti, dove fra l'altro pubblicò in
inglese Golia, la marcia del fascismo
(uscito in Italia nel 1946). Della sua attività di narratore, oltre
a Rubè (1921), vanno ricordati i
racconti e i "ritratti" della raccolta Le
belle (1927, riedíta da Sellerio nel 1983).
Il monologo «lo lo so... dell'onore» è di fondamentale importanza
per capire il personaggio creato da Borgese. Come tanti altri eroi
(o piuttosto anti-eroi) del decadentismo europeo, Filippo Rubè è
una personalità piena di complicazioni cerebrali, che avverte però
i limiti del suo particolare modo d'essere e nel suo scrutarsi e
tormentarsi approda al disprezzo di se stesso e sente come una
vergogna la sua qualità di intellettuale. Sogna allora il riscatto
da questa condizione, la redenzione in una vita comune: di
contadini, di marinai, ecc. (si ricordino i vv. 157-180 della
Signorina Felicita di Gozzano per un
atteggiamento analogo). Ma in tutto questo, oltre che un evidente
velleitarismo, c'è anche molta letteratura (la sana vita dei campi,
celebrata da una lunga tradizione letteraria, una vita primitiva e
tutta istinto contrapposta alle complicazioni intellettualistiche).
Bisogna però sottolineare il lucido, rigoroso distacco con cui
l'artista rappresenta il suo personaggio: com'è stato giustamente
detto, tanto Filippo Rubè è fiacco e dubbioso, altrettanto è
sicura e misurata la rappresentazione che ne propone Borgese.
RUBE'
Intrecci e percorsi tematici
Filippo Rubè è un giovane ambizioso, giunto a Roma da un paesino
siciliano con la speranza di affermarsi nell'avvocatura e nella
politica. L'autore (nelle vesti di narratore esterno
"onnisciente") coglie il suo personaggio all'età dei
trent'anni, il tempo dei bilanci, per Rubé non certo positivi: la
sua anima era «simile a un anfiteatro dopo la rappresentazione del
circo equestre: un infinito sbadiglio con cicche di sigarette e
bucce di arance». Quasi subito è introdotto nel romanzo il
riferimento alla guerra, tema fondamentale e sfondo delle due prime
sezioni di esso. Acceso interventista, Rubè parte volontario, ma la
sua adesione alla guerra ha motivazioni non tanto politiche, quanto
piuttosto intime e personali: affrontando il pericolo, Rubè vuole
vincere la malattia spirituale da cui si sente affetto («la guerra
risanatrice del mondo sarebbe stata la sua medicina»). Il treno che
lo porta al fronte gli sembra allontanarlo definitivamente da un
passato inerte e senza significato: davanti a lui si apre la
sicurezza di «entrare nella nuova vita tutto nuovo nell'uniforme
nuova». A Novesa, dove si è fatto destinare, avvia un tortuoso e
contraddittorio rapporto con Eugenia, la figlia del maggiore Berti.
La distanza spirituale tra i due fidanzati è grande, come
testimoniano le lettere che aprono il cap. VII: l'inquietudine
esistenziale di Rubè non può essere appagata dalla tranquilla
bellezza e dall'opaca bontà di Eugenia, neppure quando essa
diventerà sua moglie. Solo la guerra, conosciuta nella sua
quotidiana realtà di rischio e di morte, può alleggerire lo
spirito dalle inquietudini: soprattutto quando viene seriamente
ferito, Rubè si convince del valore risanatore della guerra, che
«cauterizza le coscienze scrupolose e malate».
Il dopoguerra aggrava in Filippo, trasferitosi intanto a Milano, il
senso di vuoto: come tanti altri reduci, dopo l'ebbrezza della
guerra, è incapace di adattarsi ad una vita «ordinaria». Le sue
condizioni, e quelle della famiglia che ha fondato, si fanno sempre
più precarie, soprattutto quando, a causa di un'incauta presa di
posizione politica, viene licenziato dalla ditta presso cui era
impiegato. Sono i tempi roventi dei disordini di piazza, dell'ascesa
del fascismo (tra le cui file figurano, anche alcuni ex commilitoni
di Filippo), di un serpeggiante clima di violenza, da cui lo stesso
Filippo si sente affascinato. Un'imprevista vincita al gioco segnala
l'ingresso nel romanzo del Caso, che avrà una parte determinante
nel seguito della vicenda: casuale la fuga di Filippo da Milano;
casuale la sua fermata a Stresa; casuale, anche se ardentemente
desiderato, l'incontro con Celestina Lambert, la giovane
affascinante moglie di un generale, precedentemente conosciuta a
Parigi. L'amore tra i due, consumato nell'incantevole scenario del
lago Maggiore, si tingerà presto di morte. Durante una gita in
barca Celestina morirà affogata e la sua tragica fine spingerà
sempre più Filippo verso la disperazione, l'alienazione, la perdita
di identità (al proposito sono emblematici i suoi continui
cambiamenti di nome). Il destino, che gioca da padrone le ultime
mosse con Rubè, assume le vesti di un inquietante personaggio che
lo accompagna nel suo ultimo viaggio. Seguendo fatalmente il
«Viaggiatore sconosciuto», Rubè non si incrocia con la moglie,
venuta a Bologna ad incontrarlo. Mentre vagabonda senza meta per la
città, afflitto da presentimenti di morte, si imbatte in un corteo
di dimostranti «rossi», dal quale viene, ancora una volta
casualmente, trascinato: muore travolto da una carica di cavalleria,
trovandosi in una «prima fila» che non ha cercato e a cui
ideologicamente non appartiene.
Esaminando anche solo l'intreccio ci si accorge dell'importanza che
assume, sia nella dinamica narrativa che nella strutturazione del
messaggio, il tema del viaggio. Rubè è infatti un personaggio
itinerante e c'è indubbiamente uno stretto parallelismo tra la sua
tormentata ricerca esistenziale e i suoi spostamenti in luoghi
sempre provvisori, sedi di mancati appuntamenti con la felicità. Si
tratta di una ricerca fallimentare dunque, che, conducendo Rubè
all'annichilimento e infine alla morte, rovescia radicalmente la
formula narrativa a cui a prima vista Rubè sembra conformarsi:
quella del "romanzo di formazione". Tra tutti gli
spostamenti, quello che assume maggiore significato è il secondo
viaggio a Calinni, il paese natale, estrema ricerca di identità,
che si configura come regressione, ritorno alle origini. È
significativo in proposito l'uso dell'aggettivo "vecchio",
nettamente contrapposto al "nuovo" cercato nella guerra
all'inizio del romanzo: «... Avrebbe dormito a Calinni... nel
vecchio lino di sua madre; al suono del vecchio pendolo a pesi.».
Anche questo viaggio-ricerca è però fallimentare, ennesimo
appuntamento mancato: Calinni rimane lontana, alta sulla «montagna
inaccessibile e sacra». A Rubè, eroe dannunziano dimidiato, non è
più possibile tornare a rivestire i panni dell'eroe verghiano,
nonostante la scoperta della propria "meridionalità": il
suo destino di personaggio letterario è di procedere
"oltre", percorrendo fino in fondo il calvario della
paralizzante autoanalisi e dell'inerzia spirituale, proprie del
personaggio novecentesco.
Macrostoria e microstoria
L'aspetto che maggiormente caratterizza la struttura narrativa di
Rubè è la relazione che l'autore volutamente istituisce tra la
vicenda di Filippo Rubè e la crisi etica, ideologica, spirituale di
una nazione (e in particolare di una classe sociale, la piccola
borghesia intellettuale) tra la prima guerra mondiale e il fascismo.
Indubbiamente però a Borgese interessa in modo predominante la
messa a fuoco del "suo" personaggio: si potrebbe dire
quindi che egli introduca la macrostoria (guerra, ecc.) solo in
quanto concorre a determinare (o a chiarire) la microstoria del
protagonista. Rubè è prima di tutto un romanzo
"psicologico", che però «porta e sviluppa in sé un
romanzo politico» (De Maria).
Il "sistema dei personaggi"
Nel romanzo si articola un complesso sistema di relazioni tra i vari
personaggi: alcune di esse hanno un ruolo particolarmente importante
nella costruzione del messaggio del testo. A Rubè, ad esempio, si
contrappone evidentemente Federico Monti, con la sua filosofia
serena e distaccata, nutrita di letture classiche, la sua
accettazione della guerra come espressione della volontà di Dio, la
sua composta dignità. A Eugenia, la mite sposa che non sa dare
gioia, sono contrapposte Man, e soprattutto Celestina, figure
femminili che sprigionano gioia e sensualità. Anche su questi
personaggi però, finisce per stendersi l'ombra del dolore e della
morte: la "sanità" di Federico è minata dalla
menomazione fisica; la bellezza e la gioia di vivere di Man, sono
spente dalla morte della sua bambina; Celestina muore annegata (e la
rappresentazione crudamente veristica del suo cadavere costruisce un
aspro contrappunto con la celebrazione della sua prepotente
bellezza). Non mancano poi nel romanzo personaggi che rivestono un
ruolo simbolico: l'Anonimo alienato di guerra che ha smarrito il suo
nome, in cui Rubè vede rispecchiata la sua perdita di identità, e
il Viaggiatore sconosciuto, che simboleggia il Destino e la Morte.
Notazioni stilistico-linguistiche
La "scrittura" di Rubè è assai composita. Perdura nel
romanzo (soprattutto in associazione al tema-paesaggio) l'uso di un
lessico letterario, di un'aggettivazione sovrabbondante e ricercata,
la tendenza a un'espressione immaginosa ed enfatica di marca
dannunziana. Ma questa scrittura "fascinosa" si trova a
coesistere con una prosa lucidamente analitica e raziocinante e, in
alcuni casi, persino con un registro espressivo colloquiale-popolare
(significativamente impiegato per personaggi e situazioni del mondo
siciliano). In relazione poi alla costante autoanalisi del
protagonista (e alla focalizzazione interna della narrazione), è
presente in Rubè l'uso del discorso indiretto libero e addirittura
del monologo interiore. Particolarmente interessante è la presenza
di squarci grottesco-espressionistici, che corrispondono a un'ottica
straniata, a una visione profondamente alterata della realtà. Si
consideri ad esempio un passo come questo: «... vide, con gli occhi
sbarrati nel vuoto, cose orrende: il terremoto, i carri funebri
della peste con sopra i monatti, dentiere splendide ridenti un gran
riso da facce di morti...». |