Giorgio
Caproni nasce a Livorno nel 1912. A dieci anni si trasferisce con i
genitori a Genova, deve studia musica e ottiene il diploma
magistrale. Nel 1935 inizia l'attività di maestro elementare in Val
Trebbia, per trasferirsi poi nel 1939 a Roma. Durante la guerra
combatte sul fronte occidentale, poi partecipa attivamente alla
Resistenza, in una brigata operante in Val Trebbia. Dopo la guerra
rientra a Roma, deve prosegue l'attività di insegnante e collabora
a giornali e riviste letterarie («Mondo operaio», «La Fiera
letteraria», «Il punto», «La Nazione»). E' morto nel 1990.
Molteplici le sue raccolte di versi: Come
un'allegoria (1936), Ballo a
Fontanigorda (1938), Finzioni
(1941), Cronistoria (1943), Stanze
della funicolare (1952), Il passaggio
d'Enea (1956, che riunisce anche le precedenti raccolte), Il
serre del piangere (1959), Congedo dei
viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee (1966), Il
muro della terra (1975) e Il franco
cacciatore (1982). Tutto il pubblicato e altri versi inediti
sono stati raccolti nel volume garzantiano Tutte te poesie (1983). A
queste hanno fatta seguito i volumi Il conte
di Kevenhuller (1986) e, postumo, Res
amissa (1991). Si segnalano anche sue eccellenti traduzioni
in versi e in prosa dal francese (Proust,
Apollinaire, Céline, Char, Frénaud, Genet).
Quattro liriche (antinovecentesche?)
Come Penna e Bertolucci,
anche Giorgio Caproni è un poeta di difficile classificazione.
La sua lirica può essere ascritta ad un filone di poesia
antinovecentesca, che muove da Saba (assai
più che da Pascoli), ma ha
qualche punto di contatto con l'esperienza dell'ermetismo (negli
anni Trenta), e complessivamente ha una fisionomia decisamente
originale, unica, nel panorama italiano novecentesco. I suoi testi
testimoniano le tematiche fondamentali - la città, la madre, il
viaggio - e l'aspetto del suo stile nitido e raffinato.
La critica (e in particolare il Raboni) ha individuato nella
città, nel viaggio e nella madre i tre temi fondamentali,
variamente alternati e fusi, della produzione poetica di Caproni.
Stornello è un breve componimento dedicato a Genova, la città
d'elezione del poeta, che ritorna con altissima frequenza (assieme a
Livorno, la città natale) come sfondo dei suoi testi e come oggetto
diretto (simbolico e non) del suo canto. «Mia Genova difesa e
proprietaria. / Ardesia mia. Arenaria»: questi due versi hanno la
struttura della litania a due voci (invocazione rituale e risposta
dei fedeli), che sarà la struttura unica di un lungo componimento
successivo intitolato appunto Litania («Genova mia città intera. /
Geranio. Polveriera. / Genova di ferro e aria, / mia lavagna,
arenaria. / Genova città pulita. / Brezza e luce in salita.
ecc.»). Qui e lì vengono liberamente nominati nell'invocazione
aspetti, luoghi, oggetti, persone legate alla città. Ardesia e
arenaria sono due qualità di roccia e la saldezza della roccia,
come la saldezza dei colori e delle case, è contrapposta alla
condizione precaria del poeta, tema di fondo cui sia la città, sia
la madre, sia il viaggio alludono spesso.
Preghiera e Iscrizione sono dedicati alla madre, in occasione
della sua morte. I versi iniziali del primo componimento, «Anima
mia, leggera / va' a Livorno, ti prego», sono una variazione
sull'incipit del componimento cavalcantiano Perch'i'
no spero di tornar giammai, che è una ballata d'amore e di
lontananza (e forse d'esilio) che comincia: «Perch'i'
no spero di tornar giammai, / ballatetta, in Toscana / va' tu
leggera e piana, / dritt'a la donna mia, ecc.». Questo
incipit e poi vari luoghi del testo cavalcantiano sono riecheggiati
anche più avanti («Anima mia, sii brava / e va' in cerca di lei»)
così come nel componimento proemiale della raccolta, intitolato
Perch'io... (lo ha notato il Raboni), e in altri successivi testi
dedicati alla madre morta (con precisi riscontri tematici e
lessicali). La ballata cavalcantiana (d'amore, di lontananza e forse
d'esilio) è sentita da Caproni come un archetipo della condizione
che egli sperimenta, anche in virtù del fatto che egli spesso ama,
freudianamente, definirsi e immaginarsi il «fidanzato» della
propria madre, mescolando il motivo dell'amor filiale a quello
dell'amor muliebre.
Si è parlato di antinovecentismo per la poesia di Caproni e si
è fatto il nome di Saba. Il
testo Iscrizione riecheggia affermazioni sabiane e il gusto del
poeta triestino per le rime cosiddette facili, ed è quindi
un'affermazione di poetica importante, che può essere associata ad
altre (formulate nella medesima circostanza del lutto per la morte
della madre): «Sii arguta e attenta: pia / Sii magra e sii poesia /
se vuoi essere vita. / E se non vuoi tradita / la sua semplice
gloria / sii fine e popolare / come fu lei - sii ardita / e trepida,
tutta storia / gentile, senza ambizione» (Battendo a macchina);
«Per lei voglio rime chiare, / usuali: in -are. / ... / Rime coi
suoni fini / (di mare) dei suoi orecchini. / ... / Rime che a
distanza / (Annina era così schietta) / conservino l'eleganza /
povera, ma altrettanto netta. / Rime che non siano labili, / anche
se orecchiabili. / Rime non crepuscolari, / ma verdi, elementari»
(Per lei). A tale proposito è però da osservare che la facilità e
la semplicità si accompagnano in Caproni sempre a una vigile
consapevolezza letteraria e possono nascondere sottintesi non
immediati. Nel caso di Iscrizione all'affermazione che la
semplicità e la freschezza della madre devono essere cantate con
rime semplici e schiette si accompagna un preciso riferimento colto.
Onore: cuore: amore sono tre delle rime che sigillano ciascuna
stanza della ballata cavalcantiana ricordata per il componimento
precedente: «ti farà molto onore» (v. 6); «quando uscirà del
core» (v. 26); «che fu serva d'Amore» (v. 36). Come dire che alla
semplicità e alla schiettezza reale dei testi che cantano la
memoria della madre, sottostà un articolato riferimento letterario,
che arricchisce il testo e gli dà spessore.
Infine il Congedo del viaggiatore cerimonioso affronta il tema
del viaggio, come simbolo, forse più che della morte reale (la
morte della madre era già stata rappresentata in Ad portam inferi
come un viaggio in treno), di una sorte di morte-in-vita, di una
disperata rinuncia alle ragioni che legano comunemente gli uomini
alla vita, che motivano il loro indaffarato agire nel mondo. Tema
questo ben novecentesco, come del resto quello del complesso
rapporto edipico con la madre. Antinovecentesca è forse la forma
del componimento, o meglio il suo linguaggio realistico, nitido,
narrativo, alieno (in questo e in altri casi) da ogni analogismo e
ogni poetica della parola o dell'immagine. Ma la modernità (per
quanto atipica) della soluzione formale adottata in questo caso da
Caproni può forse emergere se si considera questo testo alla
stregua di una novella in versi di stampo pirandelliano.
Pirandelliano è il grottesco che la domina, pirandelliano è il
parlar di problemi gravi (la vita, la morte) mediante semplici,
quotidiane metafore, pirandelliana a nostro giudizio è infine (in
questo caso, non in tutto Caproni) la «disperazione calma, senza
sgomento», e anzi loquace e cerimoniosa, di chi guarda con
lucidità e distacco umoristico alle tragedie della propria e
dell'altrui vita.
La poesia di Caproni coagula, sin dall'inizio, intorno a pochi,
fondamentali nuclei tematici. Nell'ordine - cioè più o meno nella
successione secondo la quale si sono manifestati; ma la loro
connessione è così stretta da determinare un intreccio
praticamente indissolubile possiamo distinguere tre grandi temi: il
tema della città, il tema della madre, il tema del viaggio.
Come ho già suggerito, i tre temi (della città, della madre,
del viaggio) appaiono, nella vita reale dei singoli testi e del
testo complessivo che ne risulta, così intrecciati, così ribaditi
l'uno all'altro e l'uno nell'altro da formare, più che una
successione, un anello di temi - o, se si vuole, un sistema di temi
leggibili anche come sinonimi, o meglio come anagrammi, l'uno
dell'altro, un po' come nei vertiginosi giochi di simmetrie e di
specchi usati nelle loro partiture dai polifonisti della scuola
fiamminga. È certo, comunque, che i tre temi hanno un comune
denominatore, che è quello dell'esilio. Esilio dallo spazio (la
città), dal tempo passato (la madre), dalla vita (il viaggio).
Esilio dal quale, e del quale, il poeta ci parla per mezzo della
«rondine» delle sue ballate, delle sue rime. E che fa dell'intera
sua opera poetica (se vogliamo ricorrere a una formula) un grande,
struggente e severo canzoniere d'esilio o, in altro senso, un
ininterrotto diario di viaggio: viaggio nel tempo e nello spazio,
viaggio nel nulla (nella nebbia, nell'Ade) ricordando la madre e la
terra, viaggio nel tunnel dell'assenza di Dio assaporando l'amaro
trionfo della sua scomparsa, viaggio nell'antimateria - nel
non-spazio, non-tempo, non-luogo - capovolgendo (e al tempo stesso
celebrando con raggelata e affettuosa ironia) gli appuntamenti, i
riti, le «cerimonie» dell'ovvietà quotidiana. |