Tommaso
Landolfi è nato a Pico (Frosinone) nel 1908, si è laureato in
lettere e si è dedicato alla narrativa e ad esemplari traduzioni da
Gogol, Puskin, Novalis, Hofmannsthal. Assai generiche le notizie
sulle sue vicende biografiche: «l'uomo Landolfi, conosciuto come
accanito giocatore e dissipatore di denaro, ramingo di casinò in
casinò, frequentatore di stravaganti ambienti artistici,
costituisce una immagine di poeta maudit, di bel tenebroso, di cui
l'autore si compiace» (G. Cillo). Negli anni Trenta frequentò gli
ambienti dell'ermetismo fiorentino; dopo, pur collaborando al
«Mondo» di Pannunzio e al «Corriere della Sera», si è mantenuto
estraneo a cenacoli o parrocchie letterarie, non ha mai concesso
interviste, non ha mai dato "spettacolo" di sé. È morto
nel 1979.
IL RACCONTO DEL LUPO MANNARO
Scrittore "fantastico" dalle molteplici soluzioni,
Landolfi in questo racconto opera brillantemente un capovolgimento
del fantastico: questa in sintesi ci sembra la chiave di lettura di
queste pagine. II motivo del lupo mannaro, del licantropismo, è un
topos della letteratura sia popolare che colta (un esempio per
tutti: la novella Mal di luna di Pirandello) e viene trattato
generalmente nella dimensione del terrore e dell'orrore; Landolfi
riprende questo motivo ma lo svuota dal di dentro, cioè lo svolge
sempre in una dimensione fantastica connotandola però ludicamente:
la luna si riduce prima a una vescica di strutto e poi - passando
attraverso il camino un "passaggio obbligato", questo,
della narrativa fiabesca - a una sfera affumicata e deformata. Più
che di un capovolgimento del fantastico si tratta forse di un
cambiamento di segno, di connotazione; dal fantastico cupo e
orroroso al fantastico giocoso e leggero. È ovvio che di questo (e
di ogni) racconto (o «storia», come lo definisce l'autore) si
possono dare tante altre letture: non ci sembrerebbe priva di
interesse una lettura (per così dire psicologica) che mettesse in
luce il rapporto tra i protagonisti e la luna sentita come incubo,
come privata ossessione, il rituale messo in opera per liberarsene,
il fallimento (dichiarato alle rr. 58-60) di questo tentativo di
liberazione e di aspirazione alla normalità.
Fra le sue opere: Dialogo dei massimi
sistemi, 1937; Il
mar delle blatte e altre storie, 1939; Cancroregina,
1950; La biére du pécheur, 1953
(ambiguo titolo che può significare "la birra del
pescatore" e "la bara del peccatore"); Rien va, 1963;
Des mois, 1967.
Tommaso Landolfi per quanto sia stato partecipe nella sua
stagione più tipica dell'ambiente culturale dell'ermetismo
fiorentino, è un personaggio isolato e anomalo nel panorama della
letteratura italiana novecentesca. Contini
scrive di lui che «è il solo scrittore contemporaneo che abbia
dedicato una minuziosa cura, degna d'un dandy romantico (quale Byron
o Baudelaire), alla costruzione del proprio "personaggio":
un personaggio notturno, di eccezionalità stravagante, dissipatore
e inveterato giocatore». Rifiutando sistematicamente le interviste
e impedendo che le proprie opere venissero accompagnate da
qualsivoglia giudizio critico (voleva i risvolti delle copertine
bianchi) ha creato attorno a sé un alone di mistero che in qualche
misura perdura tutt'oggi. Ma, biografia a parte, è la sua opera che
a fatica si inquadra nelle principali correnti letterarie del
secolo. «Ottocentista eccentrico in ritardo», come lo definisce
ancora Contini, Landolfi lascia una
produzione «tematicamente a metà strada fra l'anziano Palazzeschi
e il più giovane Calvino,
eppure stilizzata al livello della prosa d'arte», assai influente
nell'ambito della «narrativa 'magica' del secondo anteguerra».
Un'opera che si inserisce di diritto nel grande filone della
letteratura fantastica, certo con evidenti debiti nei confronti
della grande tradizione sette-ottocentesca (da Sade a Hoffmann, da
Poe a Gogol a Lautréamont), ma anche con piena consapevolezza
culturale e fantastica novecentesca (dagli influssi della
psicanalisi e del surrealismo alle implicazioni fantascientifiche).
Tutta la sua opera più tipica oscilla così tra il surreale onirico
e il grottesco, tra il "fantastico visionario" e il
"fantastico quotidiano".
Un altro dato dell'opera di Landolfi su cui soffermarsi
preliminarmente è l'oscillazione tra il congegno narrativo
«esatto», la «strategia calcolata» e la pagina in cui lo
scrittore sa «abbandonarsi agli estri più volubili», facendo del
racconto «gesto noncurante, scrollata di spalle, sberleffo, come di
chi ha sempre saputo che il fare è solo spreco, fumo,
insignificanza» (Calvino).
La raccolta di racconti che prende questo nome venne edita per
la prima volta nel 1939 e comprende, oltre al racconto eponimo,
altri undici racconti brevi, vari per tono, temi e tecniche. Comun
denominatore è solo l'appartenenza al genere latamente fantastico.
Ma anche a questo proposito si oscilla dall'onirismo surreale (con
esiti grotteschi) del Mar delle blatte alla falsificazione parodica
pseudo-scientifica (alla Borges) dell'Astronomia esposta al popolo,
dal grottesco integrale del Racconto del lupo mannaro, del Dente di
cera e di altri racconti alla fantasia fantascientifica di Asfu,
dalla blanda fantasia erotica del Sogno dell'impiegato, alle memorie
a loro modo patetiche della cagna di Favola, alla "scena di
provincia" percorsa da fremiti di inquietudine di Ragazze di
provincia (in sostanza al di qua dei limiti del genere fantastico).
Non è possibile qui indugiare su tutti i racconti (per lo più
brevissimi) della raccolta. Riprodotto altrove uno dei più
interessanti, e in attesa di riferire sul racconto eponimo, ci
limitiamo a qualche indicazione di massima sulla serie intitolata
Teatrino, che comprende cinque testi che hanno, come spesso in
Landolfi, forma dialogica e si situano per misura e tenore più sul
versante degli «sberleffi» che dei «congegni perfetti». Assai
interessante è La farfalla strappata: durante una recita di
filodrammatici una farfalla fa il suo ingresso in sala e viene
«stracciata come fosse un pezzetto di carta» dall'organizzatore
della recita. II testo vive dell'ambiguità prodotta dall'alternarsi
senza didascalia alcuna di battute di due spettatori, degli attori e
nel finale della farfalla stessa: tra il dramma recitato e l'evento
specifico non è possibile istituire una netta distinzione di piani.
Nella Tempesta si rappresenta un concitato dialogo tra il padrone di
un cane che riesce a indurre l'animale a pronunciare sillabe e
parole e un conoscente che terrorizzato spezza l'incantesimo e
scappa. II grottesco e l'assurdo dominano nel Dente di cera, dialogo
fra un inquilino e la padrona di casa, che durante il pranzo perde
un dente e alle richieste dell'uomo dichiara di aver perso un dente
di «cera giassa» che costruisce da sé ogni volta che ne perde uno
vero; l'inquilino in un crescendo di botte e risposte si infuria
fino a scacciare la donna dalla propria casa perché sostiene che la
parola "giassa" non esiste. La matematica non è
un'opinione è una sorta di violento alterco pseudo-filosofico tra
due anonimi interlocutori sui fondamenti della matematica. Infine in
Asfu, nel mezzo di una discussione sui romanzi russi e sulla
felicità, l'ipotesi di un interlocutore che la felicità consista
nell'intraprendere un viaggio verso la Nebulosa Andromeda, produce
un improvviso e inatteso mutamento di situazione: senza preavviso ci
troviamo proiettati nel bel mezzo di un intricato dialogo tra
fantascientifici viaggiatori intergalattici.
Il racconto più rappresentativo, però, è certo quello che dà
titolo alla raccolta (Il mar delle blatte).
Vi si racconta (con la tecnica del narratore esterno impersonale) la
strana storia dell'avvocato Coracaglina: questi rincasando incontra
il figlio Roberto che esce da una bottega di barbiere e gli mostra
una larga ferita sul braccio, da cui ben presto estrae un pezzo di
spago, un grano di pasta bucata, una bulletta da scarpe, dei pallini
da caccia e persino «un vermiciattolo azzurro e diafano» che getta
lontano con disgusto. Consegnati al padre gli oggetti sanguinolenti,
lo conduce al porto dove si imbarcano su una nave, sulla quale viene
condotta a forza anche una ragazza seminuda (Lucrezia). Quindi
salpano. A bordo il figlio dell'avvocato subisce una sorta di
metamorfosi: si muta in una specie di pirata (grandi stivali, tunica
di seta, cintura dorata in cui sono infilati uno stocco e due
pistole, uno scudiscio al polso e soprattutto un «viso indifferente
del dominatore») cui i marinai e il capitano della nave
attribuiscono il titolo di Alto Variago. Dal seno nudo di Lucrezia a
tratti escono fiotti di latte e il Variago ad un certo punto le
applica due serpi ai capezzoli (della qual cosa Lucrezia «pareva
soffrire e godere terribilmente»). Presto si comprende che tra il
Variago e Lucrezia c'è una storia di ripulsa amorosa e che il
giovane ha rapito la ragazza per vendetta («Che ne dite di quel
timido ragazzo che v'adorava in silenzio, da voi sempre deriso e
dalle vostre amiche?», donde anche l'atteggiamento di crudele
indifferenza che egli ora assume). Ma subito dopo si scopre che
l'antagonista di Roberto Coracaglina è nientemeno che il
«vermiciattolo azzurro» precedentemente estratto dalla sua ferita;
nascostosi nel risvolto dei pantaloni dell'avvocato, esso ora fa la
sua ricomparsa e viene imprigionato (sotto un bicchiere) dal Variago.
La nave su cui avvengono questi fatti straordinari è diretta verso
il terrificante mar delle blatte (scarafaggi), dove giunge dopo che
il Variago ha fatto omaggio degli oggetti estratti dalla ferita ai
selvaggi abitanti di un'isola (i Forforiti, custodi del mar delle
blatte: da notare che fra i motivi della ripulsa di Lucrezia sembra
aver qualche peso la forfora del giovane Roberto). Quando la nave
giunge in quel mare interamente coperto da scarafaggi il verme
propone al Variago una sfida leale: avrà Lucrezia chi saprà amarla
meglio. Roberto dapprima rifiuta facendo rinchiudere il verme in una
scatola di fiammiferi, poi, costretto dall'equipaggio che comincia a
dubitare del proprio condottiero, accetta, ma ha la peggio (Lucrezia
rimane assolutamente indifferente all'amplesso del giovane, mentre
mostra di apprezzare assai di più le evoluzioni del verme sul suo
corpo) e, in preda all'ira, schiaccia il verme col piede. Il vile
gesto causa l'insubordinazione dell'equipaggio, che imprigiona il
Variago: ma un marinaio in un impeto di rivolta calpesta una blatta
salita sopra coperta e ne getta i resti in mare facendo infuriare le
altre blatte che allora invadono la nave facendo strage di molti
marinai. A questo punto, con insensibile trapasso (« - Basta basta,
per carità! - urlò all'improvviso Lucrezia coprendosi il volto
colle mani...»), la scena si sposta in un salotto borghese dove si
comprende che Roberto Coracaglina sta leggendo un suo racconto a
Lucrezia e al padre: la terribile fantasia appare chiara agli
uditori e prima Lucrezia mostra di non rifiutare più l'amore di
Roberto (« - Basta, te ne scongiuro. No, hai ragione, sono stata
cattiva, malvagia, sii generoso. No, io non amo Bernardo, amo te,
te, Alto Variago, mio Variago, mio Signore...»), poi il padre si
mostra disponibile a finanziare la sua carriera di romanziere e le
nozze... Col che il racconto, trascorrendo dall'onirico surreale al
grottesco più palese, ha termine.
Utilizzando il suggerimento di Calvino, osserveremo che in
questo caso ci troviamo di fronte a un «congegno esatto»
(nell'ambito della logica del genere cui appartiene) e a un racconto
suggestivo e inquietante. Domina evidentemente la componente della
fantasia, anzi del delirio erotico (fitto di simboli di rilevanza
psicanalitica): il finale, che fa bruscamente cadere la tensione e
segna il distanziamento ironico dello scrittore dalla materia stessa
della sua invenzione, consente di spiegare il racconto surreale come
una fantasia di onnipotenza sadica del protagonista, timido amante
rifiutato, che sogna di vendicarsi (non senza un'oscura, turbata
consapevolezza della propria debolezza) e capovolgere magicamente la
situazione. Tutti gli elementi del racconto (la riduzione
dell'avversario a verme, il ribaltamento della propria personalità,
l'oggettivazione di un motivo di personale disagio - la forfora -
nel nome dei selvaggi, la disgustosa ambientazione) si spiegano in
questa prospettiva. Sta di fatto, comunque, che fino allo
scioglimento a sorpresa la narrazione si sviluppa efficacemente: il
ritmo è serrato, le invenzioni si susseguono con coerenza
fantastica (secondo una "logica' del surreale), i dettagli
rimandano l'uno all'altro con piena evidenza, si oscilla tra un
assurdo tragicomico e una crudeltà mantenuta nei limiti della
levità fantastica, anche in virtù di un certo distacco ironico del
narratore. |