Luigi
De Bellis

 


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Alberto Bevilacqua



LA CALIFFA: Romanzo


Il romanzo, diviso in due parti (rispettivamente di sette e di otto capitoli) e un «Epilogo», è ambientato nella Parma del 1960 ed è narrato in terza persona con inserti in prima. È la storia di Irene Corsini, detta «la Califfa» perché «quello che ha dentro ce l'ha in faccia e costi quel che costi!»; ma è anche la storia corale di una borgata di una città e, più in generale, di un'Emilia anch'essa lacerata, divisa nel tempo e nello spazio su fronti contrapposti marcati da un «torrentaccio» che separa le case vecchie dalle nuove, la povertà dalla ricchezza, i cattivi dai buoni. La Califfa, giovane e bella operaia, è segnata dalla morte del figlio (Attilio) e dall'inettitudine del marito. Guido, infatti, ex partigiano, a qualche anno dalla fine della guerra era stato processato e condannato a tre anni per l'uccisione di due fascisti. Era tornato a casa malato e depresso, lui che la Califfa si era scelto «perché ci aveva visto quell'istinto di approfittare della vita» che fino a quel momento «mai nessuno era riuscito a trasmetterle». Fattosi progressivamente indifferente alla moglie e alla grave malattia del figlio, sembra appassionarsi solo ai suoi piccioni, che alleva per le gare di tiro dei signori. La Califfa è delusa anche da Vito Alibrandi, un giovane vicino di casa alla cui corte aveva ceduto per il desiderio di «sentire il proprio corpo ardere per passioni sincere». Del resto l'insicurezza e la miseria della donna sono quelli della sua borgata, preda di padroni che non sono altro che affaristi docili agli interessi inconfessati della politica e del clero. Tale il Mastrangelo, l'imprenditore più esposto all'odio popolare. Tale il vescovo Martinolli che, succube com'è del potere locale e delle sue ambizioni frustrate, visita la borgata una volta l'anno e per di più con evidente e ricambiato disinteresse (ma, confessa, non per supponenza o disprezzo, solo «per la convinzione rassegnata e amara che un dialogo diversamente ispirato sarebbe stato inutile quanto arduo»). Tuttavia, una volta l'anno, il 24 giugno, per la festa cosiddetta della manna, la borgata si rianima. È un'animazione in qualche modo epica, propiziata dal risveglio della natura e dalla comparsa sulla scena del prete buono, don Ersilio Campagna, impegnato ogni volta in trattative estenuanti per ottenere dal vicario il permesso di poter celebrare quel rito nonostante l'evidente retaggio pagano. Ottenuta l'autorizzazione, al culmine della festa di quell'anno, Guido minaccia pubblicamente alla Califfa la relazione con Vito. La vita familiare, o almeno quello che ne restava, finisce. La Califfa si trasferisce in casa della Viola, un'amica che tira avanti i numerosi figli prostituendosi nelle osterie dei sobborghi. Quando la Califfa decide di tornare dal marito, lo trova in prima fila nella protesta contro i licenziamenti disposti dal Mastrangelo come ritorsione per un mancato credito. Riscattatosi dalla sua abiezione, Guido muore mitragliato dalla polizia. L'ultimo capitolo della prima parte si apre con nuovi scorci di vita cittadina, ma questa volta dall'altra parte del torrente. Dapprima è il Circolo dei notabili, dominato dalla figura di Annibale Doberdò, l'industriale sessantenne nelle cui mani sono effettivamente i «destini della città»; poi il teatro, i cui riti sono sconvolti dalla comparsa della Califfa tra i signori, nell'abito di seta affittato per lei dalla Viola, che nell'amica vive la sua rivalsa sociale. La notano tutti, e più d'ogni altro la nota il Doberdò, che il giorno dopo le manda un gran mazzo di rose.

Nella seconda parte, alla Califfa si apre la prospettiva di attraversare il ponte e trasferirsi nella città nuova dei ricchi. Lo attraversa, guidata da Viola, sempre prodiga di affetto e di consigli, e intraprende consapevolmente la carriera della «slandra». Mantenuta sì, ma senza rinunciare alla propria personalità: dapprima con imbarazzo, poi con sicurezza e disinvoltura, soprattutto perché a mantenerla è un uomo diverso da quello che credeva. Annibale Doberdò era stato educato dal padre contadino con principi sani, ispirati a idee umanitarie che egli ha tradito a poco a poco, assalito dal demone del denaro e del successo; per opportunismo ha sposato la contessa Clementina Marchi, una donna avida, sprezzante, infedele, da cui ha avuto un figlio, Giampiero, presuntuoso quanto inetto.
Con la Califfa, grazie alla sua spontaneità e vitalità, riscopre i valori che contano e l'orgoglio delle proprie origini. Trova così il coraggio di rendere pubblica, con scandalo, la sua relazione e di prendere una decisione radicale: andare a vivere con la donna che ama e dalla quale vuole un figlio. Una sera le rivela i suoi progetti; poi, prima di rincasare, si concede un giro in macchina; conversa con l'autista, interessandosi alla sua persona e alla sua famiglia, come non aveva mai fatto. Si addormenta e, quando la macchina si ferma davanti al cancello della villa, Doberdò è morto.

L'«Epilogo» narra il funerale pubblico, con i familiari e le autorità, poi quello privatissimo della Califfa, che lascia l'appartamento affittatole dal Doberdò, raccatta i pochi stracci che aveva quando vi era entrata, e torna nella casa di Viola, dove tutto è rimasto come se fosse andata via il giorno prima. Di diverso in lei c'è solo un'«involontaria eleganza» in più.
Dal romanzo, nel 1970, fu tratto il film omonimo diretto dallo stesso Bevilacqua, con Romy Schneider, Ugo Tognazzi, Marina Berti e Gigi Ballista.

 

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