Il
romanzo, diviso in due parti (rispettivamente di sette e di otto capitoli) e un
«Epilogo», è ambientato nella Parma del 1960 ed è narrato in terza persona con
inserti in prima. È la storia di Irene Corsini, detta «la Califfa» perché
«quello che ha dentro ce l'ha in faccia e costi quel che costi!»; ma è anche la
storia corale di una borgata di una città e, più in generale, di un'Emilia
anch'essa lacerata, divisa nel tempo e nello spazio su fronti contrapposti
marcati da un «torrentaccio» che separa le case vecchie dalle nuove, la povertà
dalla ricchezza, i cattivi dai buoni. La Califfa, giovane e bella operaia, è
segnata dalla morte del figlio (Attilio) e dall'inettitudine del marito. Guido,
infatti, ex partigiano, a qualche anno dalla fine della guerra era stato
processato e condannato a tre anni per l'uccisione di due fascisti. Era tornato
a casa malato e depresso, lui che la Califfa si era scelto «perché ci aveva
visto quell'istinto di approfittare della vita» che fino a quel momento «mai
nessuno era riuscito a trasmetterle». Fattosi progressivamente indifferente alla
moglie e alla grave malattia del figlio, sembra appassionarsi solo ai suoi
piccioni, che alleva per le gare di tiro dei signori. La Califfa è delusa anche
da Vito Alibrandi, un giovane vicino di casa alla cui corte aveva ceduto per il
desiderio di «sentire il proprio corpo ardere per passioni sincere». Del resto
l'insicurezza e la miseria della donna sono quelli della sua borgata, preda di
padroni che non sono altro che affaristi docili agli interessi inconfessati
della politica e del clero. Tale il Mastrangelo, l'imprenditore più esposto
all'odio popolare. Tale il vescovo Martinolli che, succube com'è del potere
locale e delle sue ambizioni frustrate, visita la borgata una volta l'anno e per
di più con evidente e ricambiato disinteresse (ma, confessa, non per supponenza
o disprezzo, solo «per la convinzione rassegnata e amara che un dialogo
diversamente ispirato sarebbe stato inutile quanto arduo»). Tuttavia, una volta
l'anno, il 24 giugno, per la festa cosiddetta della manna, la borgata si
rianima. È un'animazione in qualche modo epica, propiziata dal risveglio della
natura e dalla comparsa sulla scena del prete buono, don Ersilio Campagna,
impegnato ogni volta in trattative estenuanti per ottenere dal vicario il
permesso di poter celebrare quel rito nonostante l'evidente retaggio pagano.
Ottenuta l'autorizzazione, al culmine della festa di quell'anno, Guido minaccia
pubblicamente alla Califfa la relazione con Vito. La vita familiare, o almeno
quello che ne restava, finisce. La Califfa si trasferisce in casa della Viola,
un'amica che tira avanti i numerosi figli prostituendosi nelle osterie dei
sobborghi. Quando la Califfa decide di tornare dal marito, lo trova in prima
fila nella protesta contro i licenziamenti disposti dal Mastrangelo come
ritorsione per un mancato credito. Riscattatosi dalla sua abiezione, Guido muore
mitragliato dalla polizia. L'ultimo capitolo della prima parte si apre con nuovi
scorci di vita cittadina, ma questa volta dall'altra parte del torrente.
Dapprima è il Circolo dei notabili, dominato dalla figura di Annibale Doberdò,
l'industriale sessantenne nelle cui mani sono effettivamente i «destini della
città»; poi il teatro, i cui riti sono sconvolti dalla comparsa della Califfa
tra i signori, nell'abito di seta affittato per lei dalla Viola, che nell'amica
vive la sua rivalsa sociale. La notano tutti, e più d'ogni altro la nota il
Doberdò, che il giorno dopo le manda un gran mazzo di rose.
Nella seconda parte, alla Califfa si apre la prospettiva di attraversare il
ponte e trasferirsi nella città nuova dei ricchi. Lo attraversa, guidata da
Viola, sempre prodiga di affetto e di consigli, e intraprende consapevolmente la
carriera della «slandra». Mantenuta sì, ma senza rinunciare alla propria
personalità: dapprima con imbarazzo, poi con sicurezza e disinvoltura,
soprattutto perché a mantenerla è un uomo diverso da quello che credeva.
Annibale Doberdò era stato educato dal padre contadino con principi sani,
ispirati a idee umanitarie che egli ha tradito a poco a poco, assalito dal
demone del denaro e del successo; per opportunismo ha sposato la contessa
Clementina Marchi, una donna avida, sprezzante, infedele, da cui ha avuto un
figlio, Giampiero, presuntuoso quanto inetto.
Con la Califfa, grazie alla sua spontaneità e vitalità, riscopre i valori che
contano e l'orgoglio delle proprie origini. Trova così il coraggio di rendere
pubblica, con scandalo, la sua relazione e di prendere una decisione radicale:
andare a vivere con la donna che ama e dalla quale vuole un figlio. Una sera le
rivela i suoi progetti; poi, prima di rincasare, si concede un giro in macchina;
conversa con l'autista, interessandosi alla sua persona e alla sua famiglia,
come non aveva mai fatto. Si addormenta e, quando la macchina si ferma davanti
al cancello della villa, Doberdò è morto.
L'«Epilogo» narra il funerale pubblico, con i familiari e le autorità, poi
quello privatissimo della Califfa, che lascia l'appartamento affittatole dal
Doberdò, raccatta i pochi stracci che aveva quando vi era entrata, e torna nella
casa di Viola, dove tutto è rimasto come se fosse andata via il giorno prima. Di
diverso in lei c'è solo un'«involontaria eleganza» in più.
Dal romanzo, nel 1970, fu tratto il film omonimo diretto dallo stesso
Bevilacqua, con Romy Schneider, Ugo Tognazzi, Marina Berti e Gigi Ballista.
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