Nelle brevi «Notizie in merito» apposte al romanzo, l'autore suggerisce il
genere («A piacere: fantasia storica, giallo metafisico, moralità leggendaria»)
e l'argomento: «In un'isola penitenziaria, probabilmente mediterranea e
borbonica, fra equivoche confessioni e angosce d'identità, un gruppo di
condannati a morte trascorre l'ultima notte sullo sfondo di uno stravolto
Risorgimento». Sono quattro prigionieri, rei confessi di lesa maestà per un
fallito attentato alla vita del sovrano che ha provocato vittime innocenti: il
barone di Letoianni, Corrado Ingafù, di età matura, gentiluomo di corte, il
«sedicente poeta» Saglimbeni, autore di pasquinate contro il trono e l'altare,
il soldato trentenne Agesilao degli Incerti di «natali bastardi» e il giovane
Narciso Lucifora. Tutti accoliti di una setta segreta capeggiata da un
misterioso Padreterno di cui, pur sottoposti a tortura, non hanno rivelato
l'identità. Nell'imminenza dell'esecuzione, il governatore del carcere Consalvo
De Ritis, fanatico lealista, guercio e roso da un male inesorabile, viene a
proporre ai quattro un patto odioso. Nella cella-confortatorio, riservata alle
ultime ore dei condannati al patibolo, troveranno una cassetta in cui potranno,
anonimamente, imbussolare ciascuno un foglio; se almeno uno recherà il nome del
fantomatico Padreterno, tutti avranno salva la vita. Trasferiti nel
confortatorio, vi incontrano un altro compagno di pena, che ha patito la tortura
e ha il capo avvolto in bende insanguinate: il frate Cirillo, «un brigante
sanguinario e devoto detto frate per burla». Frate Cirillo, che con loico
cinismo irride alla loro fede liberale, propone di occupare le ore angosciose
dell'attesa raccontando ciascuno, come in un Decameron notturno, un felice
momento da ricordare «sotto il filo della mannaia». Nella cornice narrativa si
aprono così quattro squarci romanzeschi che illuminano l'ultima notte di ambigui
antefatti, generati dalla persuasione dell'autore circa l'«inverosimiglianza
della vita». Narciso racconta dell'iniziazione amorosa con la bella Eunice, un
«fulmineo alleluia» che lo ha sottratto all'adolescenziale adorazione di sé.
La storia del barone Ingafù è quella di una personalità divisa, svuotata in
gioventù di ogni passione e alla ricerca di un'identità piena. La troverà
annettendosi quella del gemello morto in uno sciagurato duello: una morte voluta
inconsciamente dal barone che in seguito, dandosi alla cospirazione, assumerà gi
ideali rivoluzionari professati dal fratello. Il soldato Agesilao, nato da uno
stupro perpetrato da un ufficiale di cavalleria sulla madre (una commediante
girovaga) e cresciuto trovatello in convento, narra della vendetta sul
padre-violentatore, impostagli con un biglietto dalla madre scomparsa. Una
vendetta a lungo assaporata e finalmente consumata con cruenta «delizia».
Saglimbeni, avvertendo di essere vissuto indiviso fra verità e menzogna, narra
infine dell'«estasi dell'inazione» assaporata durante una lunga convalescenza in
una villa patrizia, ospite di Matilde, vedova di un duca, e del giovane
figliastro Amabile. La vicenda ha uno scioglimento ambiguo e tragico. Il giorno
della partenza del poeta, Matilde gli si vuole concedere in una stalla, ma vi fa
improvvisa irruzione un brigante che, dopo aver legato e bendato Saglimbeni,
possiede la donna. Amabile, sopraggiunto, fugge inorridito e si lancia in un
dirupo, deluso dell'affetto mal riposto nel sedicente poeta.
I quattro racconti, negli interludi tra l'uno e l'altro, sono postillati dagli
stessi prigionieri e con lucido sarcasmo da Cirillo, che ne rileva le reticenze
e le flagranti menzogne. Richiesto anche lui di raccontare, si rifiuta - essendo
ben nota la storia del suo brigantaggio -, ma aggiunge che l'efferatezza delle
sue carneficine è stata dettata dal bisogno di convincersi «d'esistere
attraverso il dolore, degli altri». Imbussolate le polizze secondo il patto, i
condannati si dispongono a morire «umanamente dubbiosi di sé»; ma all'ultimo
istante il nome del Padreterno, che nessuno aveva indicato, sfugge - con una
ingenua allusione - al giovane Narciso subdolamente guidato da Cirillo che,
liberatosi delle bende, scopre «il noto ceffo» del governatore. L'ultimo
capitolo, stilato con una scrittura diplomatico-cancelleresca di gusto
ottocentesco, comprende il testamento di Consalvo De Ritis e una sua lettera al
sovrano, in cui si dichiara tribolato dal dubbio di essere stato raggirato e
irriso dai quattro prigionieri e di aver giocato nella partita il ruolo del
beffato e non del beffatore. I cospiratori, infatti, prima di affrontare il
patibolo, hanno indicato l'identità del Padreterno (forse un personaggio
inesistente) nel conte di Siracusa, fratello del re ed erede al trono; pertanto
hanno ottenuto il bando obbrobrioso del conte stesso dal regno, proiettando
sulle istituzioni l'ombra del discredito e del terrore perpetuo. Fallito il
compito di servire la causa della corona, roso inesorabilmente dal male e
giudicati gli uomini «inesistenze parventi sul palcoscenico d'una pantomima di
cenere», al governatore non resta che appoggiare la canna del fucile alla bocca.
Le menzogne della notte, per ammissione dell'autore, iscenano «parole in costume
d'epoca», una scelta stilistica che per Maria Corti costituisce una forma
dell'espressione adeguata e aderente ad una specifica forma del contenuto: così
ha luogo il recupero di atmosfere, il laborioso contributo dell'artista alla
rievocazione di fantasmi del passato».
Il romanzo, che ottenne il premio Strega del 1988, è stato tradotto in quasi
tutte le lingue europee e in giapponese. Nel 1992 una riduzione teatrale è stata
messa in scena al Teatro Erba di Torino dalla Compagnia «Torino spettacoli»,
diretta da Girolamo Angioni.
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