Le prose e le poesie che compongono il libro vennero consegnate dall'autore in
una prima stesura, andata persa prima della stampa, nell'autunno del 1913 a
Papini e Soffici, con il titolo Il più lungo giorno (la cui pubblicazione, dopo
il ritrovamento del manoscritto tra le carte di Soffici nel 1971, avvenne solo
nel 1973. Riscritte, come vuole la leggenda, o ricostruite su vecchie stesure
com'è più probabile, apparvero con numerose modifiche, e un diverso titolo,
recanti il sottotitolo in tedesco «Die Tragódie des letzen Germanen in Italien»,
e con la dedica «A Guglielmo II imperatore dei germani l'autore dedica». Una
successiva edizione, integrata con altri componimenti e con prefazione di Bino
Binazzi, uscì con il titolo Canti Orfici ed altre liriche. Opera completa. Né
l'edizione né il commento furono graditi a Campana.
In un'alternanza di prosa e versi (ma la parte preponderante è costituita dalle
prose), il libro di Campana si presenta come la continuazione di quel lavoro di
frontiera, teso appunto a ridefinire i rapporti tra i due codici espressivi, che
aveva avuto in Baudelaire e Rimbaud gli esponenti maggiori. Il filo conduttore,
se di filo si può parlare, è dato dal tema del viaggio, reale o onirico, lontano
(la pampa argentina) o vicino (le città più ricorrenti sono: Faenza, Firenze,
Genova e Bologna).
Fortemente influenzato da D'Annunzio, Campana prende da lui, nei momenti
peggiori, la magniloquenza compiaciuta e l'enfasi, affidandosi alla suggestione
retorica: «Sorgenti sorgenti abbiam da ascoltare, / Sorgenti, sorgenti che sanno
/ Sorgenti che sanno che spiriti stanno / Che spiriti stanno a ascoltare» (Il
canto della tenebra). A questo aggiunge un maledettismo (Baudelaire, Verlaine,
Rimbaud) pronto a trasformare la materia autobiografica in un'epica con venature
romantiche e tracotanti, spesso affidate a un cromatismo insistito, con un io
ingombrante che sembra voler dominare ogni scena e al tempo stesso, lasciarsene
assorbire: «Nel viola della notte odo canzoni bronzee. La cella è bianca, il
giaciglio è bianco. La cella è bianca, piena di un torrente di voci che muoiono
nelle angeliche cune, delle voci angeliche bronzee è piena la cella bianca»
(Sogno di prigione); «In un ampio stanzone pulverulento turbinavano i rifiuti
della società. Io dopo due mesi di cella ansioso di rivedere degli esseri umani
ero rigettato come da onde ostili» (Il russo); «Io vidi dalle solitudini
mistiche staccarsi una tortora e volare distesa verso valli immensamente aperte
[...] Volava senza fine sull'ali distese, leggera come una barca sul mare. Addio
colomba, addio!» (La terna).
Nei momenti di maggior distacco e controllo, che non di rado coincidono con una
rara capacità di ritrarre in termini espressionistici il paesaggio, affiorano
ricordi e letture, dosati in un'alchimia sapiente: «Laggiù nel crepuscolo la
pianura di Romagna. O donna sognata, donna adorata, donna forte, profilo
nobilitato di un ricordo di immobilità bizantina, in linee dolci e potenti testa
nobile e mitica dorata dell'enigma delle sfingi» (La Verna).
Così, in questo ideale taccuino di viaggio, appaiono dalle brume della memoria
città favolose: «Noi vedemmo sorgere nella luce incantata / Una bianca città
addormentata / Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti / Nel soffio
torbido dell'equatore» (Viaggio a Montevideo). Ma, evocati dall'ebbrezza e
rivissuti in una vertigine che deforma senza cancellare le cose, si aprono anche
cieli e climi lontani, immersi in una realtà febbricitante: «Ero sul treno in
corsa: disteso sul vagone sulla mia testa fuggivano le stelle e i soffi del
deserto in un fragore ferreo: incontro le ondulazioni come di dorsi di belve in
agguato: selvaggia, nera, corsa dai venti la Pampa» (Pampa).
La ben nota attitudine scenografica di Campana è felice anche quando indulge a
un barocchismo crepuscolare, mesto e sorridente, in cui gli elementi del
paesaggio si tramutano in emozione, rivelando una suprema leggerezza:
«Crepuscolo mediterraneo perpetuato di voci che nella sera si esaltano, di
lampade che si accendono, chi t'inscenò nel cielo più vasta più ardente del sole
notturna estate mediterranea? Chi può dirsi felice che non vide le tue piazze
felici, i vichi dove ancora in alto battaglia glorioso il lungo giorno in
fantasmi d'oro [...]?» (Crepuscolo mediterraneo).
Uno dei miti più frequenti del libro è quello della donna. Matrona «dagli occhi
torbidi e angelici» (Viaggio a Montevideo) o trasfigurazione marmorea di corpi
intensamente vitali («ma tu leggera tu sulle mie ginocchia sedevi, cariatide
notturna di un incantevole cielo», La notte), essa si risolve in visione, in
segno di cose lontane, avvolte dall'incertezza del desiderio. In La Chimera, uno
dei testi più vicini all'idealizzazione della donna tipica di un altro grande
poeta notturno, Nerval, dal pallore della figura femminile irradia un alone
fiabesco, dove tutto ciò che è struggente malinconia si raccoglie in una
illuminazione rivelatrice : «Non so se tra roccie il tuo pallido / Viso
m'apparve, o sorriso / Di lontananze ignote / Fosti, la china eburnea / Fronte
fulgente o giovine / Suora de la Gioconda: / O delle primavere / Spente, per i
tuoi mitici pallori / O Regina o Regina adolescente».
I lettori di Campana possono solo amarlo o odiarlo (Saba: «era matto e solo
matto, ed è stato scambiato da molti per un vero poeta»). Secondo Edoardo
Sanguineti, il poeta di Marradi immette nella lirica italiana una tensione
nuova: «Per la prima volta, qui si tenta di misurare a quanto impeto d'anima il
linguaggio sia capace di resistere, quanta intensità spirituale sia in grado di
contenere». Più cauto, Gianfranco Contini distingue tra l'attitudine del poeta e
la sua effettiva capacità di realizzazione: «È per questa via che il visivo
Campana, fin qui nel giusto, giunge a credersi un veggente». E se per Silvio
Ramat «la grandezza di Campana è appunto nell'inermità del suo personaggio», che
pure ricollega a Nietzsche, Goethe e Schopenhauer, Pier Vincenzo Mengaldo pare
meno propenso a conferirgli un ruolo centrale nella lirica italiana moderna:
«Probabilmente si può dire di lui quello che Debussy disse (a torto) di Wagner:
che era un tramonto che poté sembrare un'alba».
Nel 1999, con il titolo Il più lungo giorno, è stato realizzato un film sulla
vita del poeta diretto e sceneggiato da Roberto Riviello; interpreti Gianni
Cavina, Roberto Nobile, Giuseppe Battiston.
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